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amore

life

Elogio della curiosità ostinata

by Silvana Santo 29 Marzo 2021

Se dovessi scegliere la cosa che mi ha salvato più spesso nella vita, che mi ha risollevato dal fondo più vischioso e tirato fuori dalle pozze di oscurità nelle quali ogni tanto mi ritrovo a sguazzare, non avrei molti dubbi. Non citerei l’amore, o l’amicizia, oppure la fede che a tratti mi ha accompagnato lungo il cammino. Non tirerei mai fuori la tanto inflazionata resilienza o la retorica “bellezza delle piccole cose”. Non menzionerei nemmeno la natura e gli animali, che pure, almeno per me, significano linfa e sollievo e libertà. E no, non mi limiterei di certo a chiamare in causa la famiglia, figli inclusi.

Quello che da tutta la vita mi salva con generosità – dalla vita in sé e pure da me stessa – probabilmente non è altro che la curiosità, associata a una dose straordinaria di ostinazione. La curiosità sfrenata che mi si agita dentro, rivolta potenzialmente a qualsiasi ambito dell’umana esperienza. La fame insaziabile di conoscenza e di emozioni, quella voglia indefinita di non sprecare tempo e occasioni, di “fare di più”, che pur nel dolore, nella solitudine e nello scoramento restituisce senso all’esistenza anche quando tutto o quasi sembrava perduto.

Non sono sicura di riuscire a spiegarmi.

Fatta eccezione dei momenti di assoluta prostrazione (per un lutto, per un abbandono, per una malattia importante), non ricordo di aver mai trascorso la mia vita in una condizione, nemmeno temporanea, di “stasi”. Né di aver mai superato una qualsiasi crisi personale senza un nuovo progetto al quale appassionarmi, per il quale documentarmi, studiare e ricercare soluzioni perfette e personali notte e giorno, per settimane, fino a farmi lacrimare gli occhi per la stanchezza. Fino ad aver imparato qualcosa di nuovo da custodire per sempre.

Se, come nell’ultimo estenuante anno, non possono essere i viaggi da organizzare, allora saranno altre iniziative di qualsiasi natura. Un nuovo tatuaggio da progettare, un angolo del tè da allestire in cucina, un microscopico acquario per le alghe Marimo. Oppure i bruchi da allevare, un nuovo foro alle orecchie, un recinto per tartarughe da approntare il giardino, la ristrutturazione della cameretta, un travestimento di Carnevale fai da te, una ricorrenza a tema Harry Potter, gli allestimenti di Natale. Una lavastoviglie da inserire “in qualche modo” nella microscopica cucina di un piccolo appartamento.

È questo, alla fine, che mi tiene viva anche nell’oscurità. Che rende i miei giorni sempre diversi, sempre densi, sempre necessari nonostante tutto: qualcosa di nuovo da imparare, qualcosa di positivo da realizzare per me, per la mia famiglia, per la mia casa. Un obiettivo da perseguire con determinazione, la speranza di attuarlo nel prossimo futuro e tante cose da studiare per riuscirci nel migliore dei modi.

La curiosità impastata di ostinazione. Che spero possa essere un giorno il mio lascito migliore per i miei figli.

29 Marzo 2021 1 Commenti
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Siamo davvero artefici del nostro destino?

by Silvana Santo 12 Marzo 2021

Sono nata all’inizio dei ruggenti anni ’80, gli anni del debito pubblico da capogiro, dell’inflazione, della pseudo-emancipazione femminile seguita alle lotte e alle effimere conquiste del decennio precedente. Ho attraversato, crescendo, gli anni del disincanto, della crisi economica, delle fabbriche chiuse. Della decrescita più o meno felice, più o meno necessaria, più o meno obbligata. Poi quelli della bolla digitale, delle nuove professioni, del precariato cronico.

E negli ultimi tempi assisto con sentimenti alterni al dilagare della cultura della consapevolezza, dei life coach e dei motivatori. Quella filosofia secondo la quale siamo fondamentalmente “artefici del nostro destino” e responsabili, in buona sostanza, dell’approccio con cui affrontiamo la vita ogni giorno. “La felicità è una scelta”. “Se la tua vita non ti piace, allora comincia a cambiarla!”. “Smetti di lamentarti e agisci!”. Sono i mantra che occhieggiano da tanti profili social, meme ispirazionali e manuali di auto-aiuto. Ma è davvero sempre così? Siamo realmente liberi di fare della nostra vita quello che vogliamo, di cambiare le cose che non ci piacciono e di guardare la vita con atteggiamento fiducioso, pro-attivo e ottimistico?

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12 Marzo 2021 2 Commenti
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life

La versione migliore di me stessa. Che a volte fa schifo.

by Silvana Santo - Una mamma green 10 Settembre 2020

A volte vorrei poter rivivere il passato, ma vorrei poterlo affrontare con la consapevolezza che ho adesso. Un ragionamento ridicolo, lo so. L’insensata e patetica logica del senno di poi.
Il fatto è che la maternità si è rivelata per me una specie di paradosso temporale: ora conosco delle cose di me stessa che prima non avrei nemmeno saputo immaginare, e sulla base delle quali vorrei poter cambiare una serie di scelte del passato. Ma è proprio il passato che ho vissuto – esattamente così com’è stato – che mi ha rivelato queste cose, e se tornassi indietro mi ritroverei di fatto a ignorarle ancora (e a prendere di conseguenza le stesse decisioni discutibili).

Non si scappa dalle scelte che ci hanno condotto dove ci troviamo oggi. Ogni passo che abbiamo compiuto, ogni bivio inforcato, ogni cambiamento di direzione che abbiamo stabilito, hanno contribuito, giorno dopo giorno, a fare della nostra vita esattamente ciò che è oggi. Nel bene e nel male. E per quanto si possa cambiare rotta fino all’ultimo istante, anche cento volte in una sola esistenza, riavvolgere il nastro, semplicemente, non è possibile.

Ma la nostra vita – e quanto è difficile per me fare pace con questa verità – dipende anche da una lunga sequenza di decisioni altrui, da incontri più o meno fortunati, da casualità ineluttabili, da esperienze che ci hanno plasmato come tronchi sferzati dal vento. Quello che siamo, dentro e fuori, non dipende soltanto dalla nostra volontà e dalle decisioni che abbiamo preso giorno dopo giorno.

Vorrei che questa certezza fosse per me una liberazione. Una iniezione di leggerezza, un’assoluzione. Perché quella che “possiamo essere tutto quello che vogliamo”, in fondo, è una balla buona per le caption di Instagram e per le frasi motivazionali dei life coach. Siamo – anche – quello che la genetica, l’ambiente, la famiglia e la sorte hanno scelto per noi (andate a dirlo a un migrante che affronta il Mediterraneo, che può essere “tutto ciò che vuole”, o a un bambino qualsiasi nato e cresciuto nella parte sfortunata del mondo).

Possiamo essere il meglio di ciò che siamo, questo sì. Il meglio di quello che ci è concesso essere sfruttando appieno le possibilità, il materiale e gli strumenti che ci sono stati affidati, le esperienze che ci sono capitate, il bagaglio metaforico che è stato affidato alle nostre spalle fin da quando eravamo ancora incapaci di controllare i nostri sfinteri. Il meglio di ciò che siamo, che cambia di continuo in base a come ci sentiamo ogni giorno, a quello che la vita ci toglie o ci regala, a come ci trattano gli altri e a quello che ci capita.

Non sarò mai una persona diversa da quella che sono, ma posso cercare di essere ogni giorno il meglio di quel che sono, come madre, come figlia, come donna. Posso cercare di essere ogni giorno la versione migliore di me stessa, che certi giorni fa schifo, e allora c’è poco da fare. Questo, alla fine, dovrebbe riuscire a bastarmi. E spero che magari, prima o poi, sentirmi la versione migliore di me stessa (anche quando questo significa fare abbastanza pena) basterà a convincermi che anche il mio passato, semplicemente, è stato il migliore dei passati possibili.

10 Settembre 2020 2 Commenti
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life

L’amore (non) è un rotolo di carta igienica

by Silvana Santo - Una mamma green 2 Luglio 2020

Me ne sono accorta soltanto durante le lunghe settimane di quarantena.

C’è qualcosa di profondamente intimo e radicato, in me (e sospetto che non valga per me soltanto) che a volte mi fa confondere l’amore con il servizio. Che mi porta a esigere da me stessa un livello altissimo, e talvolta insostenibile, di efficienza e dedizione nei confronti delle persone a cui voglio bene, a cominciare dai miei figli.

Come se l’amore fosse un rotolo di carta igienica nuovo sempre pronto sul mobiletto. Un dispenser di sapone ricaricato un momento prima che si esaurisca, un bicchiere di acqua fresca accanto alla colazione appena servita, prima ancora che venga richiesto a gran voce.

Come se l’amore fosse – anche o soprattutto – mettersi al servizio dell’altro. Risolvere i problemi pratici dell’altro, se possibile addirittura prevenirli. Anche quando questo comporta un investimento di energie e risorse, fisiche, nervose ed emotive, che in quel preciso momento non sarebbe affrontabile.

C’è un confine labile, mi sembra di poter dire, tra la cura silenziosa e quotidiana dell’amato e l’ottusa disponibilità a immolarsi per lui sull’altare sacrificale dell’abnegazione. Ed è un confine che, forse, siamo più spesso noi donne – e noi madri – a varcare. Come se portassimo scritto nella carne un messaggio frainteso da generazioni di antenate prima di noi: amare qualcuno vuol dire servirlo. Vuol dire liberare il suo sentiero dalla polvere, vuol dire fare in modo che abbia quello di cui ha bisogno. Anche quando sei a pezzi, anche quando avresti tu per prima la necessità di premure servizievoli.

L’amore, in effetti, è anche un rotolo di carta igienica comprato o sostituito al momento giusto, purché a farlo non sia sempre la stessa persona. È (anche) un insieme di gesti invisibili a protezione dell’amato, di attenzione e di cura – materiale e morale – della sua persona. L’importante, però, è che si tratti di gesti reciproci e multidirezionali, condivisi e spontanei a prescindere dall’età, dal genere e dal presunto “ruolo” familiare. Altrimenti, tutto sommato, si tratta solo di volgare carta igienica.

2 Luglio 2020 1 Commenti
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essere madre

Tutti i regali che mi avete fatto

by Silvana Santo - Una mamma green 26 Giugno 2020

Ho giocato, negli ultimi anni, quanto e più che nella mia “prima infanzia” (e io sono stata per lunghi anni una bambina che giocava tantissimo). Ho giocato con giocattoli innovativi o tradizionali, digitali e analogici, montessoriani, alternativi e mainstream. Ho rigiocato con emozione con i giochi della mia stessa infanzia. Ho giocato con giocattoli di legno e plastica, di carta, di metallo, di stoffa e finanche di vetro. Ho giocato, soprattutto, con giochi inventati e costruiti da voi, con amici invisibili e con varianti improbabili e bislacche alle regole convenzionali. Ho passato ore e giorni e settimane a cimentarmi in indovinelli, rime, mimi, rebus, ombre cinesi, origami, disegni e creazioni dalle tecniche più disparate. Mi avete regalato un viaggio quotidiano nell’eden fiorito della vostra immaginazione, accompagnandomi con entusiasmo su sentieri sempre nuovi, spalancandomi dinanzi orizzonti vergini e scenari di una ricchezza che mai avrei saputo anche solo sognare.

Ho viaggiato con voi più di quanto non avessi viaggiato in tutta la mia vita (e io sono sempre stata una viaggiatrice incallita). Per terre su cui mai avrei messo piede nella mia vita “di prima”, e che ora sono diventate tane e rifugi del mio povero cuore. Case lontane da casa, posti che abito ogni notte dentro i miei sogni, e che vorrei incidere sulla mia pelle a ricordo definitivo della felicità che ho provato percorrendo le loro contrade. Mi avete regalato nuovi occhi per guardare il mondo, nuova energia per attraversarlo, nuove parole per cantarlo. Avete squarciato il soffitto della stanza in cui vivevo, e mi avete regalato un cielo mobile e vivo da guardare ogni giorno.

Ho letto con voi e per voi più di quanto non avessi letto nel mio ultimo decennio da non-madre (e io sono sempre stata una lettrice vorace e onnivora). Ho letto di giorno e di notte, con la mia voce e con mille voci tirate fuori dall’immaginario della bambina che ancora abita dentro di me. Ho letto storie sensazionali e sconvolgenti, ho pianto fino alle lacrime e riso fino alle lacrime, ho avuto epifanie devastanti o salvatrici, mi sono persa e ritrovata mille volte tra illustrazioni incantevoli, sogni, leggende e rime.Mi avete regalato l’esperienza multicolore, preziosa e formativa della letteratura contemporanea per l’infanzia, aprendomi gli occhi su un mondo che non sapevo nemmeno esistesse, ferma inevitabilmente al retaggio delle mie letture infantili di 25 anni fa.

Ho ricevuto da voi più complimenti e parole d’amore che da chiunque altro incontrato finora (e nella mia vita non è mai mancato l’amore). Apprezzamenti ingenui ed esagerati, dichiarazioni d’amore di improbabile portata letteraria. Piccole esternazioni senza pudore e senza misura.
Mi avete regalato una dose minima di indulgenza all’indirizzo di me stessa. Il perdono parziale dei miei difetti più immondi, l’accettazione relativa dei miei tanti limiti. L’esperienza di un amore diverso, esigente eppure incondizionato. E di una fiducia inscalfibile, capace di rinnovarsi dopo ogni frattura, dopo ogni delusione, dopo ogni tradimento.

Ho visitato più musei, teatri, parchi, biblioteche con voi che con qualsiasi altra persona al mondo (e fin da piccola sono una frequentatrice seriale di musei). Mi avete regalato la consapevolezza del tempo che passa veloce, della preziosa fragilità della vita e della necessità di non sprecarne neanche una goccia, di distillare la meraviglia da ogni ora che ci viene concessa. Avete ravvivato la mia fame di ascoltare, di conoscere, di toccare, di assaggiare. Di incontrare. Di sapere. Mi avete finalmente insegnato che ogni momento unico e che ogni giorno può diventare speciale, se solo noi glielo permettiamo.

Ho cantato, ballato, recitato, saltato, nuotato, camminato scalza nel fango e nella polvere. Ho impastato e fritto e zuccherato e shakerato. Ho inchiodato, incollato, progettato e costruito. Come mai avrei fatto senza di voi, se non per voi.

Mi avete regalato la capacità di apprezzare finalmente la compagnia di me stessa, l’attitudine a festeggiare anche senza motivo, la leggerezza che forse non avevo in dotazione nemmeno quando ero giovane come voi. Mi avete regalato una seconda infanzia, centomila volte più bella e libera e “mia” di quella che avevo vissuto, e che pure era stata bella e felice. Mi avete regalato un’intensità vertiginosa, un coraggio mai immaginato. E la dimensione del “qui e ora”, il vostro miracolo più sensazionale.

26 Giugno 2020 2 Commenti
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il mondo sta andando a rotoli?
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No, il mondo non sta andando a rotoli

by Silvana Santo - Una mamma green 28 Maggio 2020

Ci sono momenti, e ce ne sono stati molti, in questo distopico e contraddittorio 2020, in cui mi capita di pensare che l’umanità sia diventata una famiglia di cui non è troppo piacevole far parte. Che il mondo stia andando a rotoli.

Ci sono gli odiatori seriali. Quelli che hanno bisogno di un colpevole a cui dare la caccia, possibilmente qualcuno che non sia poi così colpevole, che non detenga davvero grandi responsabilità (e in questi mesi si sono alternati, in questa veste sfortunata, i runner, i proprietari di cani, gli anziani incapaci di restare in casa o di indossare la mascherina, i genitori di figli piccoli, i figli piccoli stessi, e ora i ragazzi della “movida”).

Ci sono i leoni da tastiera. Che augurano la morte a chiunque non la pensi come loro. Che hanno così tanto tempo da perdere, da prendersi la briga di cercare sui social il “villain” di turno e bersagliarlo di insulti, maledizioni, minacce di tortura e morte. Che si tratti di un presunto assassino o di una volontaria di una ONG, poco importa. Sono la versione 2.0, più numerosa e più agguerrita, di quelli che negli anni ’90 formavano capannelli fuori ai tribunali in cui si stavano celebrando processi di rilevanza mediatica, solo per aspettare l’imputato, magari a orari improbabili, e vomitargli addosso tutta la bile che avevano in corpo. Mi sono sempre chiesta che vita miserabile dovessero avere coloro a cui poteva saltare in mente di fare una cosa del genere, di investire tempo ed energie e risorse per andare a insultare uno sconosciuto. Eppure i social hanno amplificato ed esasperato questo fenomeno.

Ci sono i poliziotti che ammazzano un ragazzo durante un fermo, solo perché è nero. E i carabinieri che massacrano un ragazzo in carcere, solo perché “tossico”. E la gente che esulta per queste morti oscene. O che perlomeno giustifica, relativizza, distingue. Ci sono quelli che, alla notizia dell’ennesimo stupro, si chiedono istintivamente se la vittima “se la sia cercata”, come fosse vestita e cosa abbia fatto “per provocare” il suo aguzzino. Ci sono quelli che godono davanti a una barca piena di esseri umani che cola a picco invece di condurli verso una vita nuova. E quelli che considerano del tutto normale lasciarli alla deriva per giorni e settimane, in attesa di capire chi e come dovrebbe farsene carico. I teorici dell’umanità condizionata, del distinguo, dei però sputati di fronte alla vita e alla morte dei figli degli altri.

Ci sono quelli che ammazzano di botte le donne perché le considerano una loro proprietà, e quelli che li compatiscono per il loro “eccesso d’amore”. Quelli che “ho tanti amici omosessuali, però” e “non sono razzista ma”.

Eppure, se penso alla storia umana nel suo insieme, al cammino che in qualche modo stiamo conducendo nel complesso, secolo dopo secolo, un passo alla volta, penso a un mondo in cui la schiavitù era uno status diffuso e normale, il fondamento stesso della società umana, e che ora è in larga parte aborrita e vietata, almeno formalmente. Penso a un mondo in cui la pena di morte era la prassi. Comminata magari senza un processo, giusto o iniquo che fosse. E al fatto che da decenni, in moltissimi paesi del mondo, mandare a morte qualcuno non è più un’opzione possibile. Penso ai tantissimi posti del mondo in cui le donne possono decidere se sposarsi e con chi, che lavoro fare, se avere o meno dei figli. Penso al fatto che in Paesi che ora consideriamo “civili” e moderni era normale destinare quartieri, mezzi pubblici, spiagge e lavori ai bianchi e ai neri, ai cattolici e ai protestanti, e adesso, per quanto il razzismo non sia di certo sparito dalla faccia della Terra, un abominio del genere non sarebbe più possibile.

Penso agli imperi che si sono sfaldati, liberando popoli oppressi. Ai muri che sono inesorabilmente caduti, sotto i colpi della storia e degli uomini e delle donne di buona volontà. Ai figli “illegittimi” che non sono più dei paria, alle coppie che possono amarsi alla luce del sole, anche se nelle loro cellule alligna la stessa coppia di cromosomi sessuali. Al tentativo quotidiano, di milioni e milioni di persone, di aiutare il nostro Pianeta e alleggerirlo del carico che deve sopportare.

Penso a quanto, giorno dopo giorno, sacrificio dopo sacrificio, lotta dopo lotta, l’umanità stia comunque diventando un luogo più libero, più equo e più giusto da abitare. Anche se, dalla prospettiva parziale e istantanea delle nostre singole esistenze, la situazione ci sembra spesso deprimente, e in cronico peggioramento.

Non è così. Per ogni leone da tastiera c’è un Nicolò Govoni. Per ogni Stefano Cucchi massacrato senza vergogna, ci sono migliaia di bambini sottratti a un destino di morte, di miseria, di sfruttamento. Per ogni Capaci che sprofonda negli inferi, c’è una scuola che apre in un paese in guerra, un ospedale che salva vite innocenti, un medico che parte per vaccinare un villaggio dimenticato da tutti.

Dobbiamo credere che il mondo abbia ancora una speranza, e che stia compiendo uno sforzo enorme per coglierla. Dobbiamo essere il cambiamento che vogliamo nel mondo, e avere occhi per vederlo, nonostante il buio e nonostante il male.

28 Maggio 2020 0 Commenti
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Grata per i miei figli, ora più che mai

by Silvana Santo - Una mamma green 23 Marzo 2020

Nella vicenda collettiva che ci è stato dato di affrontare e superare – e che per tanti, purtroppo, ha assunto i connotati di una tragedia indicibile – mi sento fortunata ad avere dei figli a cui badare. Avere dei figli ancora piccoli di cui occuparmi mi impone, in questo tempo senza tempo, di mantenere dei ritmi sani, di restare attiva, salda, presente. Di superare ad ogni costo i momenti di ansia, di scoramento, di apatia. Di salvaguardare i punti di riferimento, di preservare le consuete liturgie quotidiane, di imporre una pur dolce disciplina che consenta di andare avanti con decenza nonostante l’assenza dei soliti schemi. Di assicurarmi che loro mangino (anche) cose sane, che impegnino il loro tempo in modo costruttivo, che facciano regolarmente i compiti, che non trascurino l’igiene personale, che tengano in ordine la loro camera, che facciano esercizio fisico, che abbiano sempre a disposizione abiti puliti, pastelli colorati, materiali per le loro attività. E che siano sereni nonostante la pandemia. Se dovermi occupare solo di me stessa e del mio benessere non sarebbe stata, forse, una motivazione sufficiente a mantenere lucidità e ottimismo, avere la responsabilità del benessere dei miei figli è quello che alla fine sta salvando anche me.

E nella mia gratitudine di madre, sono grata ancora di più che i miei figli abbiano l’età che hanno, in questo momento. Sono grata che non siano troppo piccoli per riuscire a capire la ragione che ci tiene in casa da settimane, e che ancora per settimane lo farà. Che non abbiano quell’età in cui è impossibile a un bambino restare seduto nello stesso posto per più di cinque minuti, applicarsi in un gioco, affrontare una conversazione o guardare un film assieme a mamma e papà. Ma ringrazio anche che non siano adolescenti, bisognosi del gruppo come dell’aria che respirano, innamorati pazzi di qualcuno, magari insofferenti alla famiglia e di certo alla costrizione in casa.

Per quanto abbiano già viaggiato in quattro continenti, per quanto siano legatissimi ai loro amici e ai loro parenti, per quanto siano avvezzi da sempre a trascorrere le domeniche tra parchi, spiagge, musei e teatri, Davide e Flavia hanno un’età per cui il loro mondo coincide ancora sostanzialmente con la loro famiglia e la loro casa. Un’età in cui passare la serata a giocare a Monopoli con mamma e papà non sembra solo un ripiego accettabile, ma la migliore delle opzioni possibili, e trascorrere assieme interi pomeriggi a giocare in cameretta non suona come una mezza punizione, ma come una specie di vacanza sui generis. Un’età in cui le rassicurazioni dei genitori sono ancora sufficienti, le loro spiegazioni convincono e il loro abbraccio basta a mandare via finanche la paura della malattia e della morte.

Non so quando e come usciremo da questa situazione indicibile. Ma in cuor mio trovo speranza nel pensare che, per quanto possa sembrare paradossale o a tratti addirittura eretico, i miei figli ne conserveranno anche un ricordo dolce e lieto. Un ricordo a cui attingere quando, adulti, si troveranno ad affrontare altre sfide più o meno estreme, altre prove in cui restare saldi, restare sereni, restare liberi.

 

*** Foto di repertorio, ovviamente.

23 Marzo 2020 7 Commenti
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Prenderemo coscienza

by Silvana Santo - Una mamma green 9 Marzo 2020

Prenderemo peso.
Impastando torte, biscotti e lasagne. Affondando le mani in una massa incoerente di ingredienti e trasformandola in qualcosa che magari non sarà perfetta, ma sarà unica. E sarà nostra. E per i nostri figli che ci avranno aiutato nell’impresa, sarà in ogni caso deliziosa (è un po’ quello che cerchiamo di fare con noi stessi ogni giorno, a maggior ragione da quando siamo genitori).

Prenderemo tempo.
Quello che ci viene negato ogni giorno, da sempre. Tempo per stare assieme davvero, in quantità e qualità. Per conoscerci a fondo, anche senza parlare. Tempo per giocare, per leggere, per ridere e piangere. Tempo per abbracciarci forte e per mandarci a quel paese. Tempo per vivere, insieme.

Prenderemo le distanze.
Dalle fake news, dagli odiatori seriali. Dagli universitari della vita, dai bene informati avvelenati dalla loro stessa arroganza. Dai complottisti incapaci di dar credito a chi ne sa più di loro, di fidarsi di quello che gli viene spiegato, di attenersi a quanto gli viene richiesto. Dai benaltristi ubiquitari, dagli irriverenti per vezzo e dagli anticonformisti per partito preso. Prenderemo le distanze, forse e tardivamente, dall’ignoranza e dalla presunzione.

Prenderemo spaventi.
E forse questo ci sarà di insegnamento. Perché c’è differenza tra coraggio e incoscienza, tra equilibrio e strafottenza, tra libertà e menefreghismo. Forse la paura, per una volta, ci obbligherà ad avere fiducia nelle istituzioni e rispetto delle regole. A metterci nei panni dell’altro e vedere l’effetto che fa.

Prenderemo fiato.
Costretti finalmente a rallentare e a fermarci. A rinunciare all’organizzazione serrata delle nostre giornate, alla maledetta trappola del multitasking, all’equivoco della iperstimolazione ininterrotta. Imporremo una tregua forzata alla nostra sindrome di wanderlust, alla nostra smania di andare, di fare, di produrre. Di guadagnare, di spendere e di condividere ossessivamente le nostre esistenze perfette e invidiabili.

Prenderemo a cuore.
Il bene comune e l’interesse collettivo. I diritti dei più fragili, di quelli che di solito non hanno voce e ai quali, per una volta, presteremo le nostre corde vocali.

Prenderemo contatto.
A un metro di distanza dagli altri, ma uniti nell’attesa e nella consapevolezza. Uniti nel nostro destino di umani, che in definitiva è lo stesso per tutti, anche se tendiamo a dimenticarcene. Un contatto che, anche se a distanza, potrebbe finalmente tornare autentico: reale benché virtuale.

Prenderemo dei rischi.
Solo quelli indispensabili. Con prudenza e rispetto. Con intelligenza.

Prenderemo decisioni.
E si spera che saranno sagge e umane. Che non si porteranno dietro uno strascico inutile di rimpianto. Che non causeranno, soprattutto, conseguenze irreparabili.

Prenderemo coscienza.
Di quanto sia labile la vita, e per questo inestimabile. Di quanto possa cambiare all’improvviso, scuotendoci inesorabilmente dal nostro torpore. Di quanto sia indispensabile ridimensionare la nostra arroganza di umani e tornare a convivere in qualche modo con l’idea che non potremo mai avere il controllo sulla morte e sulla natura (e fortuna che è così, anche con tutto il male che fa).

Prenderemo coraggio.
E questo periodo surreale e faticoso passerà. Diventerà qualcosa che ricorderemo per la vita, forse anche con un monito di tenerezza per la piccolezza dei nostri figli e il tempo passato assieme a loro reinventandoci una vita che pensavamo di conoscere e invece era tutta da scoprire.

9 Marzo 2020 4 Commenti
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La prima volta che ti ho visto

by Silvana Santo - Una mamma green 30 Gennaio 2020

La prima volta che ti ho visto, mancavano pochi minuti alle sei del mattino. Ero esausta, sveglia da un giorno e mezzo, reduce da una notte di doglie, solo che in quel momento non ne ero cosciente. L’adrenalina scorreva nell’alveo del mio sistema circolatorio come un torrente a primavera, la testa mi girava appena, il cuore batteva più forte del solito. Avevo mezzo corpo paralizzato e insensibile, e un ago inserito dentro una vena, nell’incavo del gomito destro. Un piccolo squarcio orizzontale separava in due la mia pancia, un paio di persone con camice e cuffia svettavano su di me mentre trafficavano per richiuderlo. Qualcuno mi aveva appena comunicato, con una voce che mi sembrò arrivare da distanze siderali, che la placenta era stata estratta integra e senza complicazioni, e che il cordone era stato tagliato. Non so bene come siano riusciti a ricucirmi, dal momento che tremavo furiosamente di freddo, un freddo che non avevo mai provato prima, sintetico come la luce piatta che ci pioveva addosso. Avevano attivato un getto di aria calda per cercare di riscaldarmi, ricordo di essermi chiesta se fuori stesse ancora piovendo. Una donna sconosciuta balbettò qualche convenevole mentre ti avvicinava al mio sguardo miope, abbastanza perché riuscissi a mettere a fuoco la tua smorfia contratta nel pianto. Era un pianto stentoreo, assordante, che lì per lì mi parve rabbioso e che invece, credo adesso, era soltanto disperato. Per l’abbandono che forse temevi di aver subito, per la paura, per la fame, per la solitudine. E per il freddo, che in quel momento ci assediava entrambi, scoperti e spezzati da una separazione chirurgica e definitiva. Ci sfiorammo per un attimo o due, che mi bastarono per passare in rassegna i tuoi lineamenti congestionati, tumefatti dalla lunga permanenza nel mio utero allagato. Che mi bastarono per dire a me stessa che mio figlio non mi somigliava per niente.

Eravamo soli, io e te. Di quella solitudine totale e inconsolabile che ti coglie quando sei circondato dalla folla. Due individui improvvisamente distinti, che fino a tre minuti prima avevano condiviso l’ossigeno, gli ormoni, lo zucchero e il sangue. Avevo perso un pezzo di me, non solo in senso metaforico. Avevo subito la più dolce delle mutilazioni, anche se allora non ne ero cosciente. Avevo freddo, vedevo male, non sentivo nulla se non quel pianto furioso che riempiva l’aria, e che fece dire alla levatrice anziana che in quarant’anni non aveva mai udito “un pianto così”. Penso di aver chiesto se tutto andasse bene, o forse l’ho soltanto immaginato. Non mi hanno risposto, forse il tuo ululato aveva assordato tutti quanti. A un certo punto vidi un mio piede levitare a mezz’aria, qualcuno mi aveva sollevato una gamba e la stava spostando verso destra. Mi parve di guardarmi dall’esterno, non avrei mai provato nulla di tanto straniante, dopo quel giorno.
Ti avrei rivisto solo dopo un’ora o due, vestito coi panni che avevo scelto per te. Non mi sembravi piccolissimo, dopotutto. Non mi sei mai sembrato piccolo, forse perché ero io a sentirmi improvvisamente microscopica, perduta in un mondo improvvisamente immenso, isolata in un vuoto improvvisamente incolmabile.

Se qualcuno mi avesse detto che ci saremmo amati come ci amiamo adesso, forse non gli avrei creduto. Devono avermelo detto, a pensarci bene. E di certo io non ci ho creduto. Se qualcuno mi avesse detto che in te avrei riconosciuto me stessa per filo e per segno, avrei fatto senz’altro un commento sarcastico, di quelli che non si addicono a una puerpera e che invece a me venivano sempre spontanei.

La prima volta che ti ho visto, eri il bambino che avevo appena partorito. Saresti diventato mio figlio, un giorno alla volta, sempre di più. Sarei diventata tua madre, piano piano e per l’eternità, nel bene e nel male. Non avevo idea, la prima volta che ti ho visto, che stavo guardando anche me, per la prima volta, senza riconoscermi.

30 Gennaio 2020 1 Commenti
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essere madre

Cosa desideriamo per i nostri figli?

by Silvana Santo - Una mamma green 17 Gennaio 2020

Cosa desideriamo per i nostri figli?

Come li immaginiamo da adulti?

In salute, certamente. Questo penso sia il primo pensiero di qualsiasi genitore, istintivo e mammifero, dettato dal cuore, dal DNA, dagli ormoni e da ogni fibra del proprio essere: sperare per i propri figli un avvenire lungo e prospero, una vita libera dall’orrore e della paura della malattia e dell’infermità. Lo speriamo per loro, prima e più che per noi, perché da quando diventi genitore la tua stessa vita e la tua stessa salute finiscono col contare meno di quelle dei tuoi figli.

Desideriamo che i nostri figli, una volta adulti, stiano bene. Ma che altro? Che siano onesti, che siano risolti, che non siano soli e che, magari, mettano su una propria famiglia.

Ma mi sembra che in qualche modo siamo anche indotti ad auspicare per loro un futuro di successo, di “riuscita”, di realizzazione sociale e professionale. Li immaginiamo studenti di buon profitto, magari laureati, inseriti presto e bene nel mondo del lavoro. Economicamente indipendenti e, se possibile, benestanti o anche qualcosa di più. Difficile che, se gli si chiede cosa spera per suo figlio, un genitore escluda dai suoi desiderata istintivi una qualche forma di “soddisfazione sociale” o successo economico e lavorativo.

È naturale, credo. Siamo programmati per tramandare il nostro corredo genetico, per cui ci viene spontaneo augurarci che la nostra discendenza sia nelle condizioni di raccogliere e trasmettere la nostra eredità molecolare, generazione dopo generazione (e in effetti questo accade più facilmente in condizioni economiche e sociali di vantaggio).

Mi chiedo però se ci viene allo stesso modo istintivo augurare ai nostri figli quello che più conta, e cioè la capacità di essere se stessi e di essere liberi, e di conseguenza felici. Siamo così abituati a confondere la realizzazione personale con il successo professionale, economico e “sociale”, così avvezzi a dare per scontato che la felicità passi in primis da una carriera brillante, dai titoli accademici, da una “posizione”, da aver forse dimenticato quello che conta di più: la fedeltà a se stessi e la vera libertà. Che forse, prima che a nostri figli, dovremmo augurare a noi stessi.

17 Gennaio 2020 1 Commenti
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Mi chiamo Silvana Santo e sono una giornalista, blogger e autrice, oltre che la mamma di Davide e Flavia.

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