La pezza

L’ho ritrovata per caso un giorno qualunque, come succede periodocamente a intervalli irregolari. Era in fondo all’armadio, nello scatolone dei pigiami. L’ha trovata la mia mano, in realtà, frugando alla cieca in cerca di una camicia da notte pulita. Riconoscerei quella striscia di raso anche tra duemila anni, anche senza polpastrelli, anche in mezzo a tonnellate di stoffe e nastri.

La pezza è stata la mia coperta di Linus per anni. L’alleata più fedele contro i mostri annidati nel buio, ninna nanna silenziosa, luce di cortesia senza bulbo e senza corrente. Mai sarei riuscita ad addormentarmi senza passarmela tra le dita, senza strofinarla pianissimo sulla pelle tra il naso e il labbro superiore.

Era davvero una coperta, nella sua prima vita. Una di quelle copertone di lana rasata un po’ rigide e dal colore indefinibile che si usavano trent’anni fa, prima che piumoni e trapunte diventassero di moda anche nel mio caldo meridione. Non me ne separavo neanche nelle torride notti estive, pur di accarezzarne l’orlo rivestito di raso scivoloso. Un giorno mia nonna decise di tagliare via la parte superiore, per salvarmi, suppongo, dall’ennesima sudata notturna. Ero perplessa, mi sembra di ricordare. Ma poi lei mi restituì una striscia sottile della mia vecchia coperta con un doppio strato di raso, su entrambi gli orli. Io tirai il fiato mentre la mia pezza vedeva la luce.

Negli anni successivi è stata lavata decine di volte. Il raso, consunto dalle mie dita di bambina, sostituito a più riprese, quando diventava troppo liso e sfilacciato perché potesse assolvere ancora alla sua funzione transizionale.

È curioso, ma non ho memoria del giorno in cui mi decisi – o mi convinsero – ad abbandonarla. Rammento i tentativi reiterati dei parenti, le battute sulla pezza che “avrei portato con me fin sull’altare”, ma non ho idea di chi alla fine sia riuscito a separarci, né delle argomentazioni che abbia usato. Però la mia pelle ha custodito per tre decenni il ricordo preciso di quella striscia di lana e raso. Della sensazione di calma e sicurezza che mi dava. Della pace che regalava alle mie mani e al mio cuore.

È bastato sfiorarla, l’altra sera, per riattivare istintivamente, con una precisione assoluta, la stessa sequenza non casuale di gesti di allora. L’identico modo di arrotolarla tra le dita, di sfiorarla con le labbra. Di accarezzare con studiata pressione la stoffa liscia e le sue sporadiche rugosità.

E poi un sonno benigno, libero, senza fantasmi, come forse non accadeva da settimane.

Il bambino che è in noi non muore mai, anche se con gli anni impariamo a fingere di non sentire più la sua voce argentina.

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2 Commenti

lalaiza 1 Luglio 2015 - 15:25

Che bello scorcio… io non ho mai avuto un oggetto transizionale ma i miei due piccoli sì… sono “Lillo”, un pupazzo che mio figlio definisce “fresco” e “ilNanna”, un coniglietto. Sequenze di gesti, sì e sensazione di amore. Io quei due pupazzetti li amo e li curo con amore. Sono transizionali anche per me.

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theSwingingMom 2 Luglio 2015 - 16:19

i primi anni si imprimono dentro di noi a caratteri di fuoco. Un fuoco che vive sempre, sotto le ceneri dell’infanzia consumata e trasformata in età adulta.

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