Fame d’aria

La condizione generale di questi mesi, ora che riesco a guardare con un minimo di prospettiva le settimane oscure dell’emergenza più profonda, degli ospedali straripanti, delle camere mortuarie piene di feretri, mi pare che si possa sintetizzare dicendo che abbiamo avuto tutti fame d’aria (e in parte ce l’abbiamo ancora).

Non solo per le implicazioni cliniche di questa malattia sconosciuta e complessa, non soltanto i più sfortunati, cui il virus ha tolto letteralmente l’aria dai polmoni. È come se a un tratto tutti quanti, incluso chi ha avuto la fortuna di restare sempre sano, ci fossimo trovati in un certo senso a trattenere il fiato. E ad avere fame d’aria.

Abbiamo trattenuto il fiato per la paura.
Per l’angoscia per chi stava male, per chi moriva solo nelle terapie intensive e per chi, a casa, pregava un qualche dio di risparmiarlo dal dolore.
Per la preoccupazione costante, più per i nostri cari anziani o malati che per noi stessi.

Hanno avuto fame d’aria i bambini, chiamati a un sacrificio doveroso ma estenuante per tutelare altre generazioni da una minaccia invisibile. Abbiamo trattenuto il fiato noi, guardandoli in silenzio e temendo le conseguenze a lungo termine di questa condizione così innaturale.

Abbiamo trattenuto il fiato per non litigare più del dovuto. Per non infierire, per non vomitare sugli altri la nostra frustrazione, la nostra rabbia, la nostra ansia. Qualche volta ci siamo riusciti, altre volte no. Ma in ogni caso abbiamo dovuto coricarci, la sera, con una specie di fame d’aria che non riusciva ad abbandonarci. Anche se la saturazione dell’ossigeno nel nostro sangue era perfetta, anche se i nostri alveoli polmonari erano sgombri e funzionanti.

Abbiamo avuto fame d’aria perché costretti a restare per mesi in case spesso piccole e senza spazi esterni.

Una fame insaziabile e destinata, almeno per quanto mi riguarda, a rimanere feroce a lungo, anche ora che il lockdown è finito. Ho avuto fame di natura, di mare, di verde, di viaggi. Di alberi e di animali. Di vento forte e sole cocente. Una fame che mi rode da sempre, ma i cui morsi si sono fatti sempre più crudeli man mano che le settimane di chiusura si accumulavano una sopra l’altra. E che ora cerco di alleviare organizzando gite e passeggiate, rigorosamente all’aperto e alla luce del sole.

Vorrei che in qualche modo ci restasse in gola, questa metaforica fame d’aria che spinge tanti di noi, anche tra quelli che erano sedentari e pantofolai, a cercare di nuovo il contatto con gli elementi naturali. A tuffarsi in un mare ancora ghiacciato, ad azzardare una passeggiata ogni settimana più lunga e più impegnativa.

Non penso, purtroppo, che “sia andato tutto bene”. Nè che la pandemia ci abbia nel complesso migliorati, che abbia sublimato i nostri veleni o messo in fuga i nostri spettri (anzi!). Ma forse ci ha reso più consapevoli di quanto siano fondamentali per tutti noi gli spazi di natura. E di quanto, in loro assenza, ci sentiamo affamati.

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1 Commenti

Paola 13 Giugno 2020 - 01:49

Verissimo. E di spazi aperti. Molto aperti, molto spazio, molta aria, molto cielo. Dove vivo io siamo un passo indietro all’italia (in termini di pandemia) e questi spazi aperti li sogneremo ancora per un bel po’ di tempo. Ma saranno la più bella conquista quando finalmente potremo andare da qualche parte!

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