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solitudine

canzoni bambini
life

I liceali in corteo e quel tempo che non è mai passato (ma anzi sì)

by Silvana Santo - Una mamma green 10 Ottobre 2014

Succede che un giorno, mentre come ogni mattina accompagni tuo figlio al nido, ti imbatti in una rumorosa manifestazione studentesca, che al grido di “La gente che ci vede ci domanda: voi chi siete?” rallenta il traffico e invade anarchicamente ogni centimetro disponibile.

Accade allora che per qualche istante tu ti senta istintivamente una di loro. Sai che potresti mimetizzarti senza disagio tra quelle scolaresche chiassose. Riconosci i timbri vocali ancora immaturi dei maschi, le voci squillanti delle femmine, la fretta tutta giovanile dei loro passi. Annusi odore di adolescenza, un misto di ormoni e umori e marijuana, e ti pare di non aver mai lasciato quel mondo. Guardi quelle barbe ancora acerbe, quelle guance tormentate dall’acne, quegli apparecchi che scintillano nelle bocche sempre aperte. E le dita intrecciate delle ragazze, i gruppetti che si formano e si disfano come stormi di uccelli. Senti le chiacchiere fitte, necessarie, inevitabili. E ti pare di non essere mai uscita da quel mondo. Tutto ti sembra familiare, ordinario, normale. Semplicemente, tuo. Ricordi di aver provato molte volte, negli anni, la stessa sensazione. Passando fuori a una facoltà universitaria, a un circolo studentesco, a una biblioteca.

Ogni volta ti mescoli a quella caotica folla di studenti e credi per un attimo di essere ancora come loro.

È questione di secondi, poche decine. Poi riprendi coscienza della realtà. Realizzi che stai procedendo nella direzione opposta al corteo di studenti, e che anche se marci spedita, stai spingendo un passeggino e un pancione rotondo come un grosso pallone da basket. Ti osservi rapidamente, constatando che mentre tu, sotto una t-shirt grigia, indossi un jeans scampanato e dei sandali di cuoio di manifattura tedesca, loro portano pantaloni attillatissimi, sneakers basse dai colori fluorescenti e borse a tracolla molto diverse dallo zaino che conteneva il tuo mondo negli anni di scuola.

È un attimo, e ti rendi conto di avere 15 anni di più rispetto a più anziani di loro. Che i più giovani potrebbero essere figli tuoi e che il bambino che stai accompagnando all’asilo è anagraficamente più vicino a quegli studenti di quanto non lo sia tu.

Soprattutto, comprendi che tra voi passa in realtà una distanza incolmabile, che vi separa una differenza forse solo teorica ma comunque fondamentale: loro, i ragazzotti che sfilano senza troppa consapevolezza dietro striscioni improvvisati, hanno dinanzi una gamma infinita di possibilità, per lo meno ipotetiche. Tu, invece, hai già messo in fila una serie di decisioni, se non tutte irrevocabili, almeno pesantissime per le loro conseguenze a lungo termine. Università, lavoro, casa, matrimonio, figli.

Forse è questo, in ultima analisi, che dà il senso definitivo del crescere. La conclusione della giovinezza sta nella progressiva rinuncia a tutte le possibilità alternative cui dici addio per sempre ogni volta che prendi una decisione importante.

E anche se è bello constatare che sei felice delle scelte che hai fatto, che tornando indietro cambieresti ben poco del tuo passato recente, dover dire a te stessa che no, non hai più molto in comune con quei liceali, lascia un po’ di amarezza in fondo al palato.

Ma forse sono ancora i fumi dell’aerosol che hai dovuto fare a tuo figlio per l’ennesimo raffreddore che ha preso da quando ha cominciato il nido.

10 Ottobre 2014 3 Commenti
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essere madre

L’empatia delle madri. Che non esiste

by Silvana Santo - Una mamma green 30 Settembre 2014

Le prime, di solito, sono le nonne. La notizia di un nipotino in arrivo, specie se è il primo e se lo attendevano da tempo, le trasforma in delle perfette invasate, anche se prima erano sempre apparse persone di un certo equilibrio. Domande fin troppo personali, regali prematuri, progetti a lungo termine sulla vita del nascituro, consigli non richiesti di puericultura preistorica, appellativi morbosi all’indirizzo del “loro” bambino. Quella che fino a un attimo prima era una figlia o una nuora diventa semplicemente la madre del loro adorato nipotino. Pazienza se è infarcita di ormoni, spaventata, stanca e con un senso di inadeguatezza secondo solo al suo girovita. Le nonne parlano, agiscono, comprano, riferiscono, programmano, decidono, domandano. Senza chiedersi neanche per un attimo se il loro comportamento possa in qualche modo infastidire o far soffrire la gestante.

Poi, man mano che il tempo passa e il ventre lievita, arrivano le amiche, le conoscenti, le passanti. Il grande classico è il racconto del proprio parto, possibilmente corredato di particolari simil-scientifici su episiotomia, epidurale, emorragie e secondamento. Una volta, quando ero al terzo mese della mia prima gravidanza, una tizia che incontravo per la prima volta mi disse (cito testualmente, giuro che è la verità): “Ah, sei incinta? Io quando ho partorito ho pensato seriamente che sarei morta”. La variante preferita è quella sull’allattamento. Storie raccapriccianti su capezzoli purulenti, piagati, tumefatti, devastati. Fino a veri e propri casi di amputazione dell’intera areola ad opera del neonato vampiro.

Dopo il parto, la situazione non accenna a migliorare. L’allattamento non decolla e tu ti senti la peggiore delle madri? Non temere: incontrerai di certo la zia/cognata/vicina di casa/passante di turno pronta a spiegarti come crescono bene i bimbi allattati al seno, o a riferirti di quanta fatica stia facendo – poverina! – per togliere la tetta al suo marmocchio duenne. Tuo figlio cresce poco? No problem. In un batter d’occhio ti troverai circondata di genitrici entusiaste di sbandierare i percentili ipertrofici del loro frugoletto, che a 4 mesi veste come minimo la taglia 3 anni. Se poi il tuo neonato non ti fa dormire, come per magia appariranno intorno a te neomamme che non possono fare a meno di informarti che il loro angioletto di 9 settimane si spara 7 ore di sonno notturno consecutivo. Nella culla. In camera sua.

Moltissime madri, in parole povere, mostrano un’abilità impressionante nel dire a un’altra madre in difficoltà esattamente quella cosa che riesce a farla sentire ancora peggio. Tu vorresti un incoraggiamento, e ti arriva il paragone impietoso. Tu avresti disperatamente bisogno di un milligrammo di comprensione, e ti arriva la critica mascherata da consiglio amichevole.

Perché poi, al di là degli immancabili paragoni, la cosa peggiore è che spesso – molto più spesso di quanto avrei mai saputo immaginare “prima”, anche nel più pessimistico degli scenari – è che al confronto si aggiunge di solito l’insinuazione che ogni madre conosce.

Che la causa del problema, di qualunque natura esso sia, stia proprio nel comportamento materno.

Se l’allattamento non va come dovrebbe, forse è perché tu hai fatto/non hai fatto la tal cosa. Se il bambino non dorme, probabilmente non hai provato a fare/non fare la talaltra. E così via se il bebè non mangia, non cammina, si comporta “male”, non riesce a fare a meno del ciuccio/seno/biberon/pannolino, piange con gli estranei, non parla, non vuole andare all’asilo, eccetera eccetera eccetera. Insinuazioni molte volte fatte tra le righe, con educazione, in qualche caso finanche con ostentata dolcezza. Mascherate immancabilmente da opinioni imbevute di solidarietà.

Probabilmente, dirò di più, i commenti di questo tenore nascono spesso in buona fede e senza alcuna malizia (anzi, magari con le migliori intenzioni), ma sortiscono comunque, in molti casi, l’effetto opposto: far sentire una madre in crisi ancora più inadeguata e fallimentare di quanto non si sentisse prima del colloquio illuminante.

Perché quella delle mamme è in assoluto la categoria meno empatica con cui mi sia mai trovata a confrontarmi.

Eppure, basterebbe davvero poco.

Basterebbe chiedersi, prima di aprire bocca (oppure sospirare, alzare sopraccigli, stirare i muscoli facciali): come mi sentirei, IO, se dovessi lasciare mio figlio a mia madre/suocera e lei non facesse che sottolineare quanto suo nipote la adori “come una mamma”? Come mi sentirei, IO, se dopo un anno di notti insonni sentissi mia sorella sentenziare che “ho sbagliato a tenerlo nel lettone con me”? Come mi sentirei, IO, se la mia amica parlasse di un bambino molto simile a mio figlio come di un mammone, capriccioso o viziato (dopo che io mi faccio in quattro ogni giorno per renderlo una persona educata)?

Basterebbe ricordare che, anche se dette con le intenzioni migliori, le parole possono pesare come incudini e tagliare come cocci di vetro, specie se giungono a orecchie che vivono situazioni particolari, come la gravidanza, il puerperio o altre fasi delicate dell’avventura infinita della maternità. Che non tutti siamo uguali, che la sensibilità, la suscettibilità, l’insicurezza, variano considerevolmente da un individuo all’altro, e quello che a me scivolerebbe addosso potrebbe mandare in crisi un’altra persona (o viceversa).

Basterebbe ricordare, soprattutto, che una madre (e più in generale, una persona) in difficoltà, raramente è in cerca di consigli e “soluzioni”, per il semplice fatto che è molto raro che la risposta a questioni tanto personali come quelle implicate nella crescita di un figlio possa giungere dall’esterno. Una madre in difficoltà, di solito, chiede aiuto perché vorrebbe solidarietà, comprensione, compagnia, ascolto. Un abbraccio forte e una battuta scema, un bacio con lo schiocco e un “ti penso, tieni duro e passerà”. Il minimo sindacale di empatia, appunto.

E non una lezione di vita a buon mercato, che magari finisce col procurare più dubbi che risposte.

30 Settembre 2014 34 Commenti
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life

Il gene della felicità

by Silvana Santo - Una mamma green 4 Giugno 2014

Dev’esserci un gene ancora sconosciuto attaccato lì da qualche parte. Nascosto per bene nelle volute di uno qualsiasi dei cromosomi che ci portiamo dentro, ancora invisibile agli sguardi acuti dei microscopi a scansione più sofisticati. Un gene ballerino, intermittente. Un gene che non tutti posseggono.

Perché – mi sbaglierò – sono sempre più convinta che quella che la gente chiama felicità sia una condizione innata, una caratteristica genetica come il colore degli occhi o la tendenza a ingrassare. Magari non dipende da una sequenza di basi azotate, certo. Però rimane un’attitudine che ci portiamo dentro, una predisposizione che ci rende inclini a notare, nel famoso bicchiere, la metà piena d’acqua o quella inesorabilmente a secco.

Forse sono in cerca di alibi, lo riconosco. È più facile considerare con indulgenza la propria inguaribile tendenza alla malinconia e all’insoddisfazione. Ti solleva da una parte delle responsabilità, ti alleggerisce dell’onere di impegnarti ad essere ottimista per forza, di diventare ogni giorno più “felice” del precedente. Proprio come quelle persone un po’ in carne che scaricano ogni colpa sul loro metabolismo. «È genetico». Appunto.

A parte tutto, non faccio che scorgere, ultimamente, persone che nonostante una vita piena di salute, famiglia, amici, benessere, lavoro, viaggi, divertimenti, amore, combattono di continuo contro la frustrazione e lo sgomento. Contro la depressione, in qualche caso. Gente che istintivamente invidierei – per la bravura, la fortuna, le opportunità ottenute e sfruttate – salvo poi scoprirla costantemente impegnata nel convincersi della propria adeguatezza, della propria soddisfazione. Gente infelice, per dirla facile. E all’estremo opposto, invece, tanti altri che dalla vita hanno avuto poco, e che poco sono stati capaci di cavarne. Ma davvero bravi, oh se sono bravi, a concentrarsi su ciò che hanno, piuttosto che sul tanto che manca alle loro esistenze. Capaci di essere appagati senza farsi domande, sereni, arrivati. Felici, forse.

Sono loro i soli che meritano la mia invidia sincera, probabilmente. Quella categoria di persone nate con la speciale qualità di vedere (solo) il bello che c’è in se stessi e nella vita, a prescindere da ciò che hanno e da quello che fanno. A prescindere, oserei dire, anche da quello che sono.

Arrendersi a questa convinzione semplificherebbe un po’ le cose. Mi farebbe finalmente sentire in diritto di essere fino in fondo ciò che sono: una persona che vive, tutto e sempre, con una disperata intensità. Capace di scalare picchi vertiginosi di allegria e di sguazzare, un attimo dopo, in profonde paludi di malinconia. Una persona che non smetterà mai di cercare, di ambire a quello che ancora non ha, di interrogarsi su ciò che non conosce. Una che alla semplice ironia ha sempre preferito il sarcasmo, che sfida i cambiamenti sbattendoci contro e tormentandosi, che passa il tempo a farsi domande (quasi sempre senza risposta).

Una persona che attraversa la vita con la mente concentrata su quello che potrebbe essere, l’orecchio sempre teso a quello che è stato, lo sguardo perso su ciò che non sarà più. Non arrendersi allo spleen permanente, questo mai; evitare di indugiare nell’autocommiserazione perenne, d’accordo; ma concedersi di essere ciò che si è, sempre e comunque. Senza remore e senza colpe. Senza sentirsi malati o sbagliati perché non ci si accontenta mai. Avere ben presente nella testa che la tristezza e la depressione sono due cose diverse, che l’insoddisfazione (che in fondo è il motore del progresso) non coincide per forza con l’ingratitudine. Faticare ogni giorno per avvicinarsi alla propria realizzazione, ma permettere a se stessi di sapere che quell’obiettivo, forse, non potremo centrarlo mai, per il semplice fatto che non esiste. Perché che c’è chi nasce alto e chi nasce biondo. Chi ha l’orecchio assoluto e chi è allergico alle fragole. E c’è chi nasce ottimista e chi, invece, sta bene nella sua soddisfacente insoddisfazione.

Affrancarsi dall’obbligo morale di essere felici: ecco la vera, euforizzante, felicità.

4 Giugno 2014 4 Commenti
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life

Quello che non ho

by Silvana Santo - Una mamma green 17 Marzo 2014

Quello che non ho è una tovaglia bianca.
Quello che non ho è un taglio di capelli alla moda.
Quello che non ho è un paio di scarpe eleganti.
Quello che non ho è una macchina spaziosa.
Quello che non ho è un bracciale griffato.
Quello che non ho è un vassoio di cupcakes fatti con le mie mani.
Quello che non ho è un abito bianco chiuso nell’armadio.
Quello che non ho è una lezione di yoga.
Quello che non ho è un pavimento di parquet.
Quello che non ho è il reggiseno abbinato alle mutande.
Quello che non ho è una pausa pranzo.
Quello che non ho è una giacca vintage.
Quello che non ho è un appuntamento dall’estetista.
Quello che non ho è un outfit
Quello che non ho è una casa con arredi di design.
Quello che non ho è un tailleur appena stirato.
Quello che non ho è un selfie.
Quello che non ho è un divano di pelle.
Quello che non ho è un solitario all’anulare.
Quello che non ho è un vaso pieno di fiori freschi.
Quello che non ho è un paio di mani curate.

Quello che ho è la sensazione di essere sempre in ritardo (o in anticipo?) su tutti gli altri. Di avere imboccato la strada giusta, ma nella direzione sbagliata. La sensazione che ci sia sempre qualcosa che non riesco ad afferrare, come se la lingua che parla la gente intorno a me fosse la stessa che parlo io, ma con un’inflessione differente. Quello che ho è il dubbio di non aver capito niente della vita, o di aver capito troppe cose. E questo sarebbe forse addirittura peggio.

Eppure, eppure… Quello che non ho è quel che non mi manca.

http://www.youtube.com/watch?v=NUK6c59U384

17 Marzo 2014 5 Commenti
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essere madre

Pietre

by Silvana Santo - Una mamma green 19 Febbraio 2014

«Ho deciso di avere un bambino»
Ci sei cascata anche tu, l’orologio biologico ti ha messo paura. Ti sei imborghesita, alla fine sei esattamente come tutte le altre.
«Ho scelto di non avere figli»
Sei una zitella acida, quando cambierai idea, perché è pacifico che lo farai, sarà troppo tardi e ti pentirai amaramente della tua immaturità. Invecchierai sola, avvizzita e piena di rimpianti.

«Voglio un solo figlio»
Che donna egoista, tuo figlio sarà infelice e solo per il resto dei suoi giorni. Sarà viziato, senza spina dorsale, sociopatico e avrà pure l’alito cattivo.

«Aspetto un altro figlio. Desidero una famiglia numerosa»
Ma un anticoncezionale no?

«Partorirò naturalmente, senza epidurale»
Sei una bigotta retrograda. Cosa credi di dimostrare? Ti senti forse migliore delle altre?
«Farò l’epidurale»
Sei una donna debole e pigra. Il dolore è naturale.
«Ho fatto il cesareo»
In pratica, non hai partorito davvero. Non avrai mai idea di cosa sia il dolore.

«Allatto a richiesta»
Tuo figlio è viziato.
«Allatto a orario»
Non sai che si allatta a richiesta?
«Non allatto»
Che razza di madre sei?
«Faccio allattamento misto»
Allora non allatti.
«Allatto mio figlio che ha più di un anno»
Vuoi tenere tuoi figlio legato a te, lo stai castrando. Sei una pessima madre.

«Lascio il lavoro per stare coi miei figli»
Sei una mantenuta, sei patetica, praticamente una nullità. Finirai sicuramente obesa e frustrata. Se una madre non si realizza come donna, non sarà mai una buona madre.
«Ricomincio a lavorare a tempo pieno»
Sei una donna egocentrica e arrivista. Avida, senza scrupoli. Che razza di madre sei?
«Ho ottenuto il part time»
Raccomandata.
«Lavoro da casa»
Praticamente non lavori.

«Mando mio figlio al nido»
Si ammalerà continuamente, si sentirà abbandonato. E poi come fai a fidarti di educatrici sconosciute?
«Affido mio figlio ai nonni»
Lo vizieranno. Faranno sempre di testa loro, te lo porteranno via. Tuo figlio confonderà i ruoli, non rispetterà nessuno. Vorrà più bene ai nonni che a te.
«Lascio mio figlio con una baby sitter»
Speriamo non sia una di quelle maniache che si vedono in televisione…
«Sto a casa con mio figlio»
Vuoi dire che non lo mandi al nido? Sarà un mammone, un asociale, un disadattato. Si annoierà a morte, sarà lento rispetto agli altri bambini. Avrà problemi a scuola e sul lavoro.

«Di sera sto a casa con mio figlio»
Prenditi i tuoi spazi, esci da sola, devi frequentare degli adulti, una madre frustrata è una pessima madre, hai bisogno di separarti da tuo figlio.
«Porto mio figlio con me quando esco la sera»
I bambini hanno bisogno del loro ambiente, non sopportano la folla e la confusione. E poi alla gente non piace avere dei bambini che frignano seduti al tavolo accanto.
«Lascio mio figlio a casa per uscire la sera»
Ma cosa lo hai fatto a fare, un bambino? Per continuare a fare la bella vita di prima?

 

(Sintesi solo a tratti esasperata di quello che molte donne si sentono dire, anche se spesso tra le righe, in tema di maternità, famiglia e lavoro. Ovvero di quanto siamo ancora lontani da quella che chiamano emancipazione femminile).

19 Febbraio 2014 42 Commenti
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Meteo

by Silvana Santo - Una mamma green 21 Gennaio 2014

Quando piove, sono molto meno green del solito. Mi piacciono i cambi di stagione, e lo so che la pioggia fa bene alla campagna, è indispensabile per il mantenimento dei cicli biogeochimici, ricarica gli acquiferi e blablabla. Lo so da molto prima di studiare Idrologia che per riempire i fiumi, i laghi e i mari è proprio necessario che le nubi si gonfino piano piano, si inseguano sulle montagne mentre da bianche diventano grigie e poi nere, e tutto a un tratto si svuotino (in scrosci violenti o in lacrime impalpabili). Ne sono perfettamente consapevole e, con rispetto parlando, me ne infischio. Quando piove, io faccio il tifo per il riscaldamento globale, per la desertificazione, per i fenomeni erosivi e la siccità estrema. D’accordo, forse adesso sto esagerando, ma è chiaro che al primo rovescio persistente la mia sensibilità naturalista si annacqua come un Tavernello scaduto.

È che la pioggia peggiora i miei difetti. Amplifica la mia pigrizia, mi rende lenta e goffa come se l’aria umida mi ingolfasse le giunture e arrugginisse le mie sinapsi già cigolanti. Trasforma in una Caporetto al cioccolato fondente la mia guerra permanente contro la golosità, fa sì che mi risulti assolutamente insopportabile indossare qualcosa che non sia informe e accogliente come l’utero di una madre. Quando il cielo si mette a frignare, cedo quasi sempre alla tentazione di singhiozzare un poco anche io. Di piangere su me stessa e sulla mia vita (sulla vita che non ho avuto, soprattutto), ascoltando a ripetizione quelle canzoni tristi che piacciono tanto agli innamorati delusi e quindicenni. Quando piove, diciamola tutta, divento davvero insopportabile. Altro che premestruo.

Sotto il cielo grigio di questa mattina, però, mentre mio figlio trafficava con la carcassa di una vecchia macchina fotografica che mi era appartenuta una vita fa, ho pensato che in fondo sono proprio queste le giornate in cui mi sento più “madre”. Quelle passate in casa al caldo ascoltando gli ululati sommessi del vento che soffia implacabile là fuori. Quelli in cui la luce artificiale dà una lunghezza diversa alle ombre e in cui un’ora, specie al mattino, sembra durare almeno il doppio del normale. Giorni che un tempo sarebbero stati silenziosi, e che ora sono pieni di suoni e di risate. Nonostante il cielo tumido. Nonostante la pioggia.

La verità è che, prima, quando pioveva, mi sentivo sempre sola. In un modo inaccettabile e disperato. E se ora questo non succede più, o non succede tutte le volte, non è perché trovi la pioggia più tollerabile, ma semplicemente, banalmente, perché non sono più sola. E questo è vero, per la prima volta in vita mia, anche quando non c’è nessuno accanto a me.

21 Gennaio 2014 0 Commenti
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allattamento

Latte versato

by Silvana Santo - Una mamma green 17 Gennaio 2014

Cosa vorrei dire a una madre che inizia ad allattare (e a quella che ha scelto di non farlo)

Questo post è stato pensato alle 4 di mattina, mentre ero sdraiata a letto accanto a mio figlio che poppava. Un letto vuoto, a parte noi due, in seguito a una discussione notturna con il genitore maschio sul tema latte, nanna e dintorni. Mentre inseguivo un sonno che non sarebbe più tornato, ho pensato a quello che avrei voluto sentirmi dire in questi lunghi mesi di allattamento al seno, emozionanti e atroci, distruttivi ed esaltanti. A quello che avrei voluto sentire ma in pochi mi hanno detto, e non sempre nel modo giusto. A quello che direi io alla mamma di un figlio appena nato.

Prima di tutto, non è colpa tua. Non è colpa tua se l’allattamento non va per il verso giusto, se tuo figlio cresce troppo o troppo poco. Se tuo figlio non dorme abbastanza o piange troppo. Non è tua la colpa se vuole stare sempre al seno, se rifiuta il ciuccio, se non vuole saperne del biberon. Non è colpa tua se si addormenta solo ciucciando, se passano i mesi e tuo figlio non vuole staccarsi dal seno. Non è una colpa, al contrario, decidere di non allattare, non è una colpa arrendersi al dolore, al sangue, al mal di schiena, alla frustrazione di una poppata che non funziona bene. Alla stanchezza mortifera. Non è una colpa decidere di non volerci neanche provare. Non è una colpa, semplicemente, stabilire che il latte artificiale è la soluzione migliore per te e per tuo figlio. Non è una colpa allattare per pochi mesi o per qualche anno. Non è colpa tua.

Documentati, leggi, informati. E poi decidi in autonomia. Non permettere che altri, neanche il padre di tuo figlio, ti dicano cosa fare. Ascolta il tuo corpo e il tuo cervello, segui il tuo istinto. Quello materno, ma anche (e forse soprattutto), quello di sopravvivenza. Non fare paragoni con le altre madri e con i loro figli. Cerca di comunicare con il tuo bambino e saprai cosa fare.

Passerà. Qualunque difficoltà tu stia vivendo o ti troverai ad affrontare, ricordati sempre che passerà. Le fredde notti insonni non dureranno per sempre. Il dolore al seno, per quanto lancinante, scomparirà tra poco senza lasciare traccia. Il letto matrimoniale ritornerà presto ad essere tale, la fame e la sete si spegneranno. Il tuo corpo tornerà ad essere normale. Normale e tuo. Il tuo bambino non sarà un poppante per sempre.

L’allattamento è una cosa naturale, ma questo non vuol dire che sia facile. Anche le pestilenze sono naturali, come lo sono le doglie e il mal di denti. Anche morire è una cosa naturale.

Il dolore fisico, in molti casi, può essere prevenuto informandosi bene. Chiedi aiuto a chi ha già esperienza, purché sia una persona che ti conosce bene e di cui ti fidi. La Lega del Latte è un ottimo supporto, ma non è la depositaria della verità assoluta (come nessun altro, del resto).

Qualunque sia la tua scelta – seno, formula, una via di mezzo tra le due, allattamento breve o prolungato, cosleeping – troverai chi ti dirà che l’hai compiuta per egoismo, che hai deciso di percorrere la strada più “comoda”. Fregatene. Tu sai, eccome se lo sai, che la verità è un’altra.

Tuo figlio starà bene. In ogni caso. Amalo, passa del tempo con lui, goditi il tempo insieme a lui. E lui starà bene.
allattamento1Per quanto mi riguarda, allattare al seno non è stata una vera e propria decisione, nel senso che non mi sono mai neanche chiesta se non fosse per caso preferibile rinunciarvi. Istintivamente, ho sentito che la mia strada era quella. Questo però non ha reso le cose sempre facili, soprattutto a causa di consigli non richiesti, interferenze, giudizi sommari. Espressi, tra l’altro, quasi sempre da donne che non hanno mai allattato (e magari che non sono neanche madri).

Prima che partorissi, ad esempio, la parola d’ordine era incoraggiamento. Al grido di frasi come “Spero che tu riesca ad allattare, io ho avuto due figli e non ci sono riuscita!” oppure “Le ragadi sono insopportabili, io sanguinavo come una fontana, allattavo e piangevo”. Quando è nato mio figlio, l’iniezione di fiducia e di ottimismo ha raggiunto picchi grotteschi. La mia compagna di stanza in ospedale, al terzo parto, si vantava ad alta voce di quanto fosse bravo suo figlio a poppare, di quanto le sue tette si prestassero anatomicamente ad allattare, di quanto latte avesse a sole 24 ore dal cesareo. Nel letto accanto, nel frattempo, io ero in lacrime perché Davide faticava ad attaccarsi e perché non c’erano segnali della montata lattea.

Poi, decollato l’allattamento, sono arrivate le cosiddette coliche. Estenuanti e interminabili. E lì le mie incoraggianti congeneri si sono davvero superate. Per qualcuna mio figlio piangeva perché non avevo abbastanza latte, per qualcun’altra invece ne avevo troppo, oppure era indigesto. In ogni caso, la causa di tanta disperazione era nelle mie tette, e nella mia caparbietà nel continuare ad offrirle al mio bambino. Passate le coliche, è stata la volta della nanna (“Se non dorme tutta la notte è solo colpa delle tette, dagli il biberon!”), e poi dello svezzamento: quando Davide ha compiuto 4 mesi è iniziato il coro dei “Non sarebbe ora di svezzarlo? Gli stai dando almeno la frutta? Se aspetti troppo avrà problemi con il cucchiaino! E poi arriverà l’estate, farà troppo caldo (!) per dargli da mangiare”. Avviato lo svezzamento, per altro con una facilità imbarazzante, le argomentazioni non si sono esaurite. Da qualche mese il leitmotiv ruota intorno al fatto che Davide-ormai-è-grande, se non gli levi il seno adesso non ci riuscirai più, così tuo figlio diventa un “mammone”, un imbranato, un maniaco sessuale. Come se allattare un bambino di un anno, tra l’altro soltanto di notte, e solo quando lui reclama il seno piangendo disperato (non sono mai io a offrirglielo) equivalesse a una castrazione chimica.

Posso solo immaginare cosa debba sopportare una madre che non allatta.

Fortuna che ho avuto accanto anche madri empatiche e rispettose. Discrete e compassionevoli. Peccato che in molti casi si trattasse di donne conosciute da poco, fisicamente lontane, a volte mai incontrate di persona. Le ringrazio con tutto il cuore: senza di voi non ce l’avrei fatta. O forse sì, ma mi sarei sentita ancora più sola.

17 Gennaio 2014 66 Commenti
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essere madre

Una mamma grey

by Silvana Santo - Una mamma green 22 Novembre 2013

ArtùPiove da ore. Piove forte e la mia casa brilla di luce artificiale. La mia casa. Nido e galera. Il gatto dorme imperterrito, mio figlio pure, e si lamenta nel sonno. Mentre il Mac ronza, sento i miei fianchi tirare nella divisa jeans-e-felpa che ormai tolgo solo per dormire. Una dieta, adesso, è fuori discussione. Ci manca solo che mi metta a mangiare sano. Fuori piovono acqua e terra su una settimana che sta per finire. Una settimana in cui la voce che ho sentito più spesso è stata la mia, mentre ripeteva più che altro parole come “pong”. Oppure “piove”.

Sono sei giorni che non parlo con qualcuno che non sia il gatto, mio figlio o suo padre. E i nonni, certo. Che sono davvero cari, ma, con tutto il rispetto, hanno almeno il doppio dei miei anni. E parlerebbero soltanto di Davide, naturale. Ah, poi c’è stato il giro all’Ikea, dove ho finanche chiesto informazioni a un’impiegata in camicia gialla. “Mi sono persa. Sa dirmi come arrivo all’Ikea dei piccoli, da qua? Pong”. Fuori, intanto, pioveva.

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22 Novembre 2013 11 Commenti
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essere madremamma green

La solitudine di una mamma green

by Silvana Santo - Una mamma green 19 Settembre 2013

Pensieri inquinati di una madre non convenzionale

Che poi questa cosa io l’ho sempre saputa. Ben prima di diventare mamma, addirittura prima di diventare green. È inevitabile: la latitudine a cui nasci e cresci condiziona la tua vita in modo profondo e in parte irrimediabile. Non solo influenza le tue abitudini alimentari (e quindi l’aspetto fisico e, in qualche caso, le condizioni di salute), il modo in cui vivi i rapporti familiari, il grado di tolleranza al maltempo e la capacità di reggere l’alcol. Il posto in cui nasci e cresci finisce col decidere in larga parte quante e quali opportunità ti saranno concesse e, cosa forse ancora più importante, la natura della maggioranza delle persone che incontrerai. Nel caso di questa ragazza green, che a un tratto si è concessa pure il lusso di diventare mamma, ha comportato molte volte un supplemento di fatica per riuscire ad essere ciò che è, uno sforzo extra per superare certi confini che, prima che geografici, sembrerebbero mentali o culturali.

Nel posto in cui vivo, una mamma green nuota controcorrente, il più delle volte quasi sola. Non perché sia migliore delle altre madri, s’intende, ma perché, a differenza di molte, ha potuto scegliere. Decidere se vuole davvero conformarsi al modello opulento e convenzionale che di solito viene proposto come l’unico possibile. Se desidera, per sé e per la sua famiglia, quello che la maggioranza ritiene essere il meglio o quello che lei stessa e la sua famiglia, di volta in volta, giudicano la scelta più opportuna. Una mamma green, nel posto in cui vivo io, in un certo senso è una madre più libera, a cui è stato concesso di andare oltre – le apparenze, i falsi miti, le mode.

Ma è anche una madre più sola. Che non di rado riconosce un certo scetticismo nel suo interlocutore (specie se si tratta di un’altra madre, diversamente colorata), che spesso è chiamata a fornire una giustificazione supplementare alle proprie scelte. Che, anche quando il modello che propone viene guardato con interesse genuino, rimane in buona sostanza un “tipo originale”, una genitrice alternativa e magari un po’ viziata che, forse, persevera nelle sue stravaganze più per anticonformismo che non per reale convinzione. Una che, per dirla con quattro lettere, in fondo in fondo è un po’ snob.

Una mamma green, nel posto in cui vivo, è pure una mamma stanca, più stanca della media già significativa delle mamme. Perché sa che quello che ha scelto per suo figlio – un indumento, un giocattolo, un alimento, un sapone – quasi sempre non sarà disponibile nel negozio sotto casa, e neanche nel supermercato più fornito della zona. Dovrà cercarlo in qualche raro punto vendita specializzato, prenotarlo con settimane di anticipo, farselo procurare da un amico che vive altrove, acquistarlo online, oppure farlo da sé, ammesso che riesca a trovare le materie prime necessarie. Qualche volta, sarà costretta a rinunciare, ripiegando sul surrogato che le pare il compromesso migliore tra quello che vorrebbe e quello che può avere.

Di certo non è una mamma più povera, perché, a dispetto del luogo comune diffuso strumentalmente da chi sostiene e incoraggia il modello “tradizionale”, pesare meno sulla Terra, nella stragrande maggioranza dei casi, permette di alleggerire anche il bilancio familiare (e questa è un’altra verità che la mamma green che vive alle mie latitudini deve difendere con le unghie e con i denti dallo scetticismo e dal sarcasmo dei più). Ma ogni tanto, per lo meno nel mio caso, è una mamma più preoccupata, perché sa che domani suo figlio potrebbe incrociare gli stessi sguardi perplessi che ogni tanto gelano lei e chiederle per quale assurda ragione non lo abbia lasciato crescere nella stessa beata inconsapevolezza degli altri. Potrebbe rimproverarle di aver scommesso a suo nome sul cavallo perdente, di averlo reso meno simile ai propri simili, di avergli imposto una diversità che lui non voleva. Di averlo reso, in qualche modo, più solo. E questo, per una mamma di qualsiasi colore, sarebbe un peso davvero insopportabile.

Vero è, mi dico nelle notti in cui non riesco a dormire, che questo rischio – il rischio di vedersi presentare dai figli il conto dell’imposizione arbitraria dei propri criteri – esiste per qualsiasi tipo di madre, verde, rossa o gialla che sia. E la speranza, solida, tutto sommato, è che il tempo dia senso e peso alle mie scelte, legittimi le mie decisioni e le avvalori. Le renda meno bizzarre e più facilmente condivisibili. A quel punto, e forse soltanto allora, saprò che la mia solitudine di madre non sarà stato un sacrificio vano.

19 Settembre 2013 11 Commenti
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allattamentoessere madregravidanza e parto

La verità, vi prego, sul diventare mamma

by Silvana Santo - Una mamma green 16 Maggio 2013

Questo post richiede un paio premesse, un po’ come i film zozzi che devono essere contrassegnati dal bollino rosso o le pubblicità dei Sofficini in cui una piccola scritta ci avverte che il sorriso di formaggio che si forma affondando la forchetta è frutto si una spudorata simulazione al computer (avvertimento che tra l’altro non mi ha mai impedito di tentare inutilmente di riprodurre il suddetto sorriso, ma questa è un’altra storia…). Prima precisazione: quanto leggerete si basa esclusivamente sulla mia esperienza, in quanto tale limitata e priva di qualunque rappresentatività statistica. Secondo: sono perfettamente consapevole che il fatto di avere avuto un figlio sano sia una benedizione straordinaria (o una fortuna sfacciata, scegliete voi la formula che preferite). Convivere quotidianamente con la disabilità, la malattia, l’invalidità è semplicemente eroico – io, evidentemente, non avrei questa forza. Terzo e ultimo: non sono depressa e amo con tutto il cuore mio figlio. È solo che mi sta a cuore raccontare alcune cose sulle quali di solito le madri, neofite e navigate, nicchiano. Forse perché il mondo le farebbe sentire inadeguate se solo osassero ammettere la verità.

Latte, amore e frustrazione
Dopo la sua nascita, avvenuta l’8 febbraio scorso dopo un inutile travaglio durato tutta una notte (inutile perché alla fine me l’hanno strappato dalle viscere con un cesareo), mio figlio ha pianto senza posa per tre mesi. Ovvio, direte: è un neonato, cosa vuoi che faccia? Solo che lui piangeva di dolore, per ore e ore, senza poter essere consolato in alcun modo legale o raccomandabile per un bambino di poche settimane. Urlava come un disperato, andando in apnea, diventando cianotico e sudando freddo. Si dimenava, scalciando come un cavallo in calore e serrando i pugni con tutta la forza che un duemesenne può avere. Si graffiava il viso a sangue. Spargeva lacrimoni, sbarrando gli occhi e guardandoti come se stesse bruciando vivo e tu ti limitassi a contemplarlo con aria annoiata. Nelle giornate buone, che grazie a Dio sono progressivamente aumentate di numero col passare dei mesi, questo horror show andava avanti al massimo per un’ora, ma le crisi peggiori sono durate anche mezza giornata, spesso sotto lo sguardo inquisitore di parenti e conoscenti in visita. Roba da far saltare i nervi anche a Madre Teresa di Calcutta.
Il motivo di tanta sonora sofferenza? Quelle che un buontempone sconosciuto ha battezzato “colichette gassose del neonato” (-ette ‘sti cavoli!). In altre parole: dell’aria nella pancia ha messo a dura prova il mio sistema nervoso (e l’udito già labile di mio marito) per settimane. Un disturbo benigno, per carità. Niente che il bambino non dimentichi nel momento stesso in cui termina lo spasmo. Ma, lasciatevelo dire, un autentico strazio. Vedere il tuo minuscolo figlio che si contorce dal dolore senza poterlo aiutare efficacemente, arrivare a sentirlo piangere “nella tua testa” anche quando dorme beato, doverti sorbire i consigli geniali di tutto il vicinato e gestire le domande ansiogene di amici e parenti non è esattamente il modo migliore per recuperare dal parto. L’unica cosa che posso dire a chi si trova ancora alle prese con l’inferno dei mal di pancia (e lo dico piano piano, perché non si sa mai): prima o poi passa, o per lo meno inizia ad andare ogni giorno un po’ meglio…

L’allattamento al seno è una gran cosa. Ma è anche una fatica altrettanto grande.
Ho la fortuna di avere molto latte. Talmente tanto che la Lola mi ha proposto di tenere a balia il suo ultimo vitello e che sono in trattativa con la Sperlari per aprire uno stabilimento delle Galatine nella mia camera da letto. Che gran c**o, penserà qualcuno, e in effetti è la verità. Molti soldi risparmiati, pappa sempre pronta e facile da servire, nutrienti perfettamente bilanciati per il manz… ehm, per il pupo, un legame affettivo con lui che si consolida ad ogni poppata. Ma anche la responsabilità di essere  a disposizione del bimbo accaventiquattro, come si dice adesso. Giorno e notte, sette giorni su sette, per mesi interi. Difficile “evadere” anche solo per un paio d’ore, visto che il richiamo della tetta può scatenarsi, senza preavviso, in qualsiasi momento. E poi: rinunce alimentari, tensione mammaria, crampi uterini, niente farmaci se hai la sfortuna di ammalarti. Insomma, non proprio una passeggiata. Mentre scrivo, mio figlio sfiora gli 8 kg di peso, che per un bimbo di poco più di tre mesi è quasi un record, e io ho intenzione di proseguire con l’allattamento esclusivo fino a quando lui starà bene e io ne avrò le energie (almeno fino ai sei mesi raccomandati dall’Organizzazione mondiale della sanità), però non giudicherei mai una mamma che dovesse scegliere di astenersi e ripiegare sul biberon. Non sentitevi una caccola se siete tra queste, anche se la prima domanda che le madri benpensanti vi fanno, di solito, è: «Gli dai il tuo latte?».

Il lavoro? Parliamo d’altro
Se avete avviato una brillante carriera lavorativa prima di restare incinte, se avete intenzione di farlo e vivete in Italia, aspettatevi di avere qualche difficoltà, per usare un eufemismo spinto. Per la maggioranza dei datori di lavoro nostrani, anche molti di quelli “progressisti” e “illuminati”, la collaboratrice-madre è il male supremo. Il nemico da annientare a suon di sensi di colpa e ricatti morali (anche materiali, perché no: mai porre limiti alla fantasia dei boss italiani). Dunque: consideratevi fortunate se siete tra quelle che hanno mantenuto il posto di lavoro anche dopo la Cicogna. Se poi avete goduto anche di diritti come la maternità e i permessi per l’allattamento, non lesinate in lacrime di commozione e novene di ringraziamento ad almeno una divinità a vostra scelta.

Una donna per amica
Rassegnatevi. Se si dice “senso di fratellanza” e non “di sorellanza”, un motivo ci sarà. La solidarietà non è roba per donne. Se avrete fortuna come la sottoscritta, troverete al vostro fianco qualche amica, cugina (o sorella) o addirittura madri e zie capaci davvero di non giudicarvi, e di sostenervi in modo sincero e costruttivo. Ma, per il resto, le donne che vi circondano cercheranno in tutti i modi, più o meno consapevolmente, di rallentare il più possibile la vostra ripresa e di spingervi a grandi falcate incontro alla più feroce delle depressioni post partum. Oltre a seppellirvi sotto una coltre pesantissima di consigli non richiesti, le già-madri riusciranno a sfoderare i peggiori sguardi di sufficienza e a criticare, di solito in modo subdolo, finanche il colore dei calzini che avrete scelto per vostro figlio. Le non-ancora-madri, dal canto loro, si abitueranno a guardarvi con un misto di commiserazione e disgusto, sottolineando con luciferina nonchalance i chili di troppo che vi sono rimasti sui fianchi o le rinunce alle quali, inevitabilmente, sarete costrette ora che è nato il bambino (Ma «Ifiglisonolagioiapiùgrande», come no…).

I figli so’ piezze ‘e core
Poi, naturalmente, c’è l’invidiabile routine delle neomamme: veglie notturne, rigurgiti nauseabondi, carillon deprimenti, visite sgradite, poco sesso e zero tempo per sé (roba che anche fare la pipì può diventare un lusso). E inoltre, chili di cacca liquida, e su questo aprirei un piccolo inciso: ripulire il proprio figlio neonato dalle sue deiezioni è una cosa che, in fondo, una madre media fa senza troppo sacrificio. Ma da qui a dire che “lacaccadeibambininonfaschifo”, perdonatemi, ce ne passa. La storia della “cacchina santa”, per me, è emblematica dell’ipocrisia che ancora alligna intorno alla questione della maternità. Che sarà anche la cosa più istintiva del mondo, ma, sarebbe ora di ammetterlo senza falsi pudori, rappresenta un’impresa molto faticosa, talvolta alienante, oltre che una limitazione permanente della propria libertà. Vivere ogni giorno della propria vita sapendo che si è scelto di mettere al mondo un essere umano: riuscite a pensare a una responsabilità più grande, a una sfida più impegnativa? Che poi ne valga la pena, questo è un altro discorso.

16 Maggio 2013 5 Commenti
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Mi chiamo Silvana Santo e sono una giornalista, blogger e autrice, oltre che la mamma di Davide e Flavia.

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