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Tag:

solitudine

life

Sei cose che avrei voluto fare e che non ho mai fatto

by Silvana Santo - Una mamma green 15 Giugno 2017
Più una, per la quale invece non ho rimpianti.

1. L’Erasmus

Era una di quelle cose che ero certissima di fare (quasi come non far dormire i figli nel lettone), ma poi me lo hanno impedito questioni burocratiche: per tre anni ho frequentato un ateneo che lo permetteva solo dal quarto anno, poi al quarto anno ho cambiato città e università e infine avrei dovuto rimandare la laurea e non me la sono sentita. Errore irreparabile.

2. L’interrail

Mai trovato qualcuno che fosse realmente intenzionato a seguirmi. Quando avrei potuto aggregarmi, finalmente, a un gruppetto di amici, ho preferito restare col mio gruppo di sempre e partire con quello che sarebbe poi diventato, molti anni dopo, il padre dei miei figli. Posso sempre rimediare con un interrail per famiglie, ma non sarà comunque la stessa cosa.

3. Il tatuaggio

Da ragazza non mi piacevano i tattoo, e poi tutti lo facevano (o lo desideravano) e io non amavo omologarmi. Negli anni scorsi mi ero convinta di volerne uno a tutti i costi, ma o ero incinta oppure allattavo. E adesso che potrei, non mi decido a procedere.

4. L’autostop

Per mia nonna era la più pericolosa delle condotte. E io non mi sono mai azzardata a verificare se avesse ragione.

5. Tenere il broncio

Mai riuscita ad andare a dormire con una lite in atto. Piuttosto muoio discutendo fino all’alba, ma io devo sciogliere i nodi. E se pure siamo incazzati, il giorno dopo ti parlo comunque. Peccato che questo mi sia costato molti sbagli e tanto dolore evitabile.

6. Sciare

A parte una singola e pessima esperienza sugli sci di fondo. Che in realtà è l’unico tipo di sci che mi piacerebbe imparare a usare, visto che non mi piace tutto quello che ruota intorno allo sci alpino. Posso sempre imparare, credo.

7. Fumare una sigaretta

Ci ho provato. Ma mi fa davvero schifo, e il terrore di diventare dipendente mi ha sempre ulteriormente scoraggiato. In compenso adoro il narghilè, a Bali ho provato il sigaro e ho dei trascorsi che è meglio non dichiarare espressamente in un blog. Prima o poi mi compro una pipa. Questa, in effetti, è la sola cosa nell’elenco che sono certa di non poter mai rimpiangere. Anche se a volte sarebbe molto cool sapersi accendere una bionda.

15 Giugno 2017 4 Commenti
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life

Chi se ne frega

by Silvana Santo - Una mamma green 8 Giugno 2017

Ieri ho recuperato il mio accappatoio bianco dalla corda a cui era appeso, in balcone. Se ne stava lì da un paio di giorni, tutto solo, con le maniche tese nel sole. Più che un impiccato, sembrava un crocifisso di cotone a nido d’ape. Poco prima avevo riesumato dal fondo del frigorifero uno yogurt dimenticato da tempo. Era scaduto il 21 marzo. L’ho buttato via nell’indifferenziato, senza trovare la forza di volontà necessaria per svuotarlo e riciclare il vasetto.

Sto scrivendo questo post in ritardo, avrei dovuto pubblicarlo molti minuti fa e adesso andrà a finire che nessuno lo leggerà. Intanto, la borsa della palestra, tiepida e piena dei miei umori maleodoranti, giace ancora chiusa a pochi passi dalla porta d’ingresso di casa mia. Abbandonata da ore.

Ci sono telefonate che aspettano da giorni in punta di telefono. Conversazioni di cui prendo nota nella mia testa sempre affollata di voci e di scadenze. Disordine intorno a me, decisioni da prendere e questioni ormai irrancidite che andavano affrontate e risolte molto tempo fa.

Eppure il tempo non mi manca. Ho un lavoro part time, autonomo, una casa piccolissima e due figli felicemente a scuola fino alle quattro del pomeriggio.

A volte penso di aver esaurito la forza di volontà. Di avere attinto troppo a riserve che avevo ingenuamente stimato inesauribili.

È come se non avessi più voglia di dare sempre il massimo. Di essere efficiente e operativa. Di essere puntuale, che pure è una cosa di cui mi vanto da trentasei anni. Non mi va più di risolvere casini, di prevenirli, di immaginarli. Di preoccuparmi del benessere di altri che non siano i miei figli e la loro madre.

Vorrei attardarmi, delegare, dimenticare. Concedermi il lusso di distrarmi o, ancora meglio, di fregarmene deliberatamente. Smettere di sentirmi in colpa, o almeno farlo, finalmente, per qualche ragiona fondata. Smettere di pretendere da me la cosa giusta, e concentrarmi per una volta su quello che voglio. Su quello di cui ho bisogno. Pretenderlo, se possibile. Dalla vita e dagli altri.

Vorrei poter giocare con Davide e Flavia per tutto il pomeriggio, tutti i pomeriggi. Senza occuparmi del resto. Senza neanche pensarci, al resto. E senza per questo sentirmi colpevole, o addirittura vergognarmi. Stare con loro davvero. Godermi la loro compagnia, il loro amore così poco oggettivo e così lusinghiero. Sentirmi amata seppure imperfetta.

Vorrei stare con loro e basta, almeno per un po’. Il resto, in qualche modo, andrà avanti anche senza di me.

Quasi quasi lo faccio, e chi se ne frega.

8 Giugno 2017 4 Commenti
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lavorolife

La schiavitù del successo, la trappola del confronto

by Silvana Santo - Una mamma green 12 Maggio 2017

Quando hai più di un figlio, tutti ti raccomandano, com’è giusto che sia, di evitare ogni confronto tra di loro. Più in generale, l’invito è quello di non paragonare mai i propri figli a quelli altrui, di non ridurre la loro crescita a una “gara” a chi per primo brucia le varie tappe del percorso. Tutto bello, tutto importante, tutto sacrosanto.

Ma non è un po’ ipocrita, o perlomeno contraddittorio, ammonire i genitori sui rischi del confronto, se poi la competizione, la performance, il risultato sembrano essere i criteri su cui si regge la società intera? Se poi tutto o quasi viene ormai ridotto a cifre, primati, prestazioni? Se sono i like sui profili social, a quanto pare, a decretare il successo sociale – e spesso professionale – della gente?

Il valore di un lavoro, e la realizzazione che ne dovrebbe derivare, sembra misurabile solo in soldi guadagnati o in risultati raggiunti. Il valore stesso di una persona, sempre più spesso e drammaticamente, viene stimato sulla base del al reddito che produce, dei soldi che percepisce e di quelli che, di conseguenze, può spendere. Dei risultati che garantisce in termini di produttività. Tutto è gara, tutto è competizione, tutto, appunto, è confronto. Dall’ostentazione sul web di una felicità che a volte è solo di plastica, alle vacanze – che sembrano essere più belle tanto più siano “invidiabili”, ovvero esotiche, lussuose, esclusive –, dall’aspetto fisico alle proprie capacità genitoriali. Ogni cosa viene soppesata e sottoposta di continuo a valutazione e a confronto. Ci si vanta un po’ di tutto, anche di quello che in realtà dipende solo dal caso, o dalla fortuna, se preferite.

L’autostima viene confusa con la spocchia. L’ambizione con il carrierismo. La meritocrazia con la popolarità. Se sei consapevole dei tuoi limiti, sei una persona “insicura”. Se ti accontenti di quello che hai, sei in un certo senso un perdente. Il pungolo costante non è a fare quello che ti rende felice, e neanche a fare il meglio che puoi, ma a fare meglio in senso assoluto. Possibilmente meglio degli altri, magari meglio di tutti. E il meglio, questo è il problema, viene stabilito sulla base di numeri. Che siano voti scolastici, palloni mandati in porta, follower di Facebook o incassi al botteghino. Se non sei “all’altezza degli altri”, se non rendi quanto gli altri, se non piaci quanto gli altri, sei peggiore di loro. È questo, spesso, il messaggio che passa. Che può causare – a me succede spesso – frustrazione e sofferenza. Vergogna, se va peggio. Invidia e rabbia, nei casi peggiori.

Invece dovremmo crescere i nostri figli convincendoli che una squadra di calcio ha bisogno di un mediano tanto quanto di un bomber, e che l’uno non è peggiore dell’altro. Spiegando loro che il talento di un musicista, o di uno scrittore, non si misura sempre dal numero di biglietti o di libri che vendono. E che il valore di un uomo o di una donna non si misura dal suo talento. Che un essere umano è molto di più del lavoro che fa, e che la realizzazione non passa solo, o non passa affatto, dal consenso e dal cosiddetto successo.

Forse, se lo spiegassimo a loro, finiremmo col crederci noi per primi. E smetteremmo di sentirci in gara su qualsiasi cosa, o di consentire che il mondo pretenda da noi di fare a gara con gli altri, di competere, di confrontarci. Smetteremmo di pretendere da noi stessi di piacere a tutti, sempre e comunque.

Ma forse sto attribuendo agli altri quello che in fondo è solo un mio problema. L’obbligo di garantire delle “prestazioni” sempre eccellenti e misurabili – sul lavoro come nella vita privata – per sentire riconosciuto da me stessa il mio valore.

12 Maggio 2017 6 Commenti
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life

Sto crescendo dei diversi?

by Silvana Santo - Una mamma green 17 Marzo 2017

“Mamma, come mai noi torniamo sempre a casa a piedi, mentre (quasi tutti) i miei amici vanno sempre via in macchina?”. Me lo ha chiesto Davide, ieri, con tranquillità, mentre rientravamo dall’asilo insieme a sua sorella. Io gli ho risposto senza fare paragoni, elencando semplicemente tutti i motivi per cui è bello tornare a piedi: ci godiamo il sole, facciamo “ginnastica”, risparmiamo benzina, guardiamo gli aerei passare, accarezziamo i cani che vanno a spasso, eccetera eccetera.

Lui mi è parso accontentarsi della mia risposta, e abbiamo proseguito nella nostra quotidiana passeggiata. Era successa una cosa del genere qualche tempo fa, quando all’improvviso mi aveva chiesto dove fosse finito il suo biberon. Gli avevo detto, con sincerità, che lui non lo aveva mai usato, perché lo avevo allattato per molto tempo e poi aveva cominciato a bere direttamente il latte dalla sua tazza. Quella volta era rimasto perplesso per un po’, come se faticasse ad accettare di non essere “come tutti gli altri”.

È una cosa che mi spaventa molto, questa del confronto con gli altri e della consapevolezza della propria “diversità”. Non voglio che i miei figli si sentano strani, o sbagliati (come a volte succede a me) per decisioni che abbiamo preso al posto loro. Per scelte non proprie, ma dei loro genitori, si ritrovano già ad aver vissuto molte esperienze non proprio comuni, perlomeno nel contesto in cui sono inseriti. Sono quasi gli unici, tra i bambini che frequentiamo, ad essere stati allattati a lungo e portati in fascia. Sono tra i pochissimi a viaggiare molto e fin da piccoli. Hanno una madre che lavora, ma che sta quasi sempre con loro. Dormono, a differenza di tutti gli altri, “ufficialmente” e in modo stabile insieme ai genitori. Vanno a letto ben prima della media dei loro coetanei e, di conseguenza, hanno ritmi e abitudini diverse, a volte relativamente incompatibili con quelle delle altre famiglie (spesso noi raggiungiamo la destinazione di una gita fuori porta mentre gli altri ancora dormono, e ci svegliamo dalla siesta quando i più si sono appena alzati da tavola). Quando andiamo al parco giochi cittadino, Davide e Flavia sono i soli che non si arrampicano sull’altalena per bimbi in carrozzina, per non rischiare di danneggiarla usandola impropriamente.

I miei figli sono spesso i soli, tra i coetanei che frequentano, a fare o non fare molte cose. Non è che a lungo andare finiranno col ritrovarsi soli e basta?

Ognuno di questi singoli dettagli – quanto siano stati allattati, dove abbiano dormito per i primi anni di vita, quanti viaggi abbiano fatto e via dicendo – nell’economia complessiva delle loro esistenze non avrà peso alcuno. Ma se fosse l’insieme di tutte queste cose, la direzione generale che stiamo dando alle loro vite, a condizionarli dolorosamente negli anni? Io l’ho sofferto spesso, questo senso di solitudine e di “stranezza”. Ho sentito molte volte, specie negli ultimi anni, che in pochi potessero davvero capirmi. E non per disamore o disinteresse altrui, ma perché, senza merito né colpa, il mio sentiero – e il mio sentire – spesso diverge da quello della maggioranza della gente. Non voglio che i miei figli soffrano a causa delle mie scelte anticonformistiche. Ma non voglio neanche rassegnarmi a cambiare quello che sono, e il modo in cui mi piace stare al mondo, per paura che loro si sentano bizzarri, o diversi.

Com’è difficile. Com’è difficile trovare il compromesso migliore tra l’espressione di sé e la necessità di sentirsi parte di una comunità, di sentirsi simili ai propri simili. Come sarà difficile dover ragionare con dei figli che saranno – che già sono – altro da me, e che dalle mie scelte, magari proprio per conformarsi agli altri, vorranno prendere le distanze. Aiutarli a pensare con la propria testa, specie quando non sarà in accordo con la mia. Ad essere se stessi e a bastarsi, pur senza fare a meno della condivisione e della comunione con gli altri.

Sarà difficile. E sarà impossibile non fare errori. Speriamo almeno di non farci troppo male.

17 Marzo 2017 23 Commenti
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essere madre

Amica senza figli, non ti invidio (più)

by Silvana Santo - Una mamma green 14 Settembre 2016

Quando ho deciso di avere un figlio non sapevo un sacco di cose. Non sapevo, ad esempio, che avrei avuto la fortuna di scoprirmi incinta dopo appena poche settimane, un paio di mesi prima di compiere 31 anni. Non sapevo che avrei pianto per buona parte della mia gravidanza, oppressa da un malessere emotivo che in pochi avrebbero accolto e compreso. Non sapevo, per dirla tutta, se un figlio lo volessi davvero, lì e ora, immediatamente e senza nemmeno il tempo di rendermene conto. Sapevo in astratto che desideravo essere madre, che la mia vita non sarebbe stata completa senza un figlio e cominciare a cercarlo quando ero ancora relativamente giovane mi sembrava sensato e ragionevole, ma non è che andassi a dormire sognando il pancione, ecco. La mia vita senza figli mi piaceva, eccome.

Sarà per questo, o perché crescere un bambino, e poi due, è un impegno talvolta estenuante. Sarà perché in pochi, nella mia cerchia di frequentazioni, hanno voluto o potuto fare la stessa scelta. Sarà che io sono sempre stata una che rimugina, che ci ripensa, che non si accontenta mai.

Fatto sta che a lungo ho guardato alle amiche senza figli con un certo rimpianto. Con un po’ di invidia, oserei dire. La possibilità di disporre del proprio tempo senza limitazioni e compromessi. La facoltà di improvvisare, di cambiare programma, di articolarne uno complesso ed estenuante senza dover tenere conto delle esigenze di una persona di pochi anni. L’opzione sempre possibile di non averne affatto, di programmi. Di passare il proprio tempo libero semplicemente oziando. Ciondolando senza sensi di colpa, oppure dedicandosi ad attività completamente superflue.

Vivere senza il fardello costante della responsabilità totale (per quanto condivisa) di un altro essere umano mi è sembrata molte volte una condizione lieve e dolcissima a cui avevo maldestramente e frettolosamente rinunciato. Una mutilazione dolorosa e cronica della mia libertà, seppure ripagata da un indubbio carico di amore, emozioni ed esperienze di straordinaria intensità.

La cortina di nebbia si è diradata piano, negli anni. Constatando che non sempre la vita dei miei coetanei senza figli è più “leggera” della mia, più libera, o più felice. Realizzando che, se anche non avessi mai avuto Davide e Flavia, le mie giornate sarebbero scandite (e talvolta appesantite) da impegni di lavoro da onorare, scadenze burocratiche da rispettare, obblighi sociali impossibili da disattendere. Che diventare adulti, in altri termini, ti inchioda comunque a una serie di responsabilità, di vincoli, di seccature. Figli o non figli.

Che la felicità, la libertà personale e la leggerezza non hanno, in definitiva, molto a che fare con l’avere o meno dei bambini.

Amica senza figli, io non ti invidio. Perché se anche fossi al posto tuo, se anche non avessi deciso di allargare la famiglia, la mia vita non sarebbe comunque quella che a volte mi capita di rimpiangere. Quella lieve e spensierata che mi pare di ricordare adesso quando ripenso alle lunghe estati degli anni che furono (che poi, lieve e spensierata non lo era nemmeno, fintanto che la stavo davvero vivendo).

Non ti invidio perché non ho nulla da invidiarti. Invidio, a chi ancora la possiede, la giovinezza che ho perduto, che poi è quella che hai inesorabilmente perso anche tu. Rimpiango il tempo in cui era tutto possibile, per te e per me, almeno sulla carta. In cui era naturale e ammissibile sognare qualsiasi cosa. In cui le tue scelte e le mie non ci avevano già incatenate alla vita che abbiamo adesso.

Io non ho ragione di invidiarti, amica senza figli, come tu non hai motivo di invidiare me. Perché in ultima analisi siamo molto più simili di quanto possa sembrare.

14 Settembre 2016 10 Commenti
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essere madre

Una madre mediocre

by Silvana Santo - Una mamma green 5 Settembre 2016

Sono una mamma “green”, ma fino a un certo punto.
Uso i pannolini lavabili, ma anche gli usa e getta ecologici (di notte e in viaggio); evito i “parchi divertimento” con gli animali ma mi piacciono gli acquari e i bioparchi; cerco di fare acquisti consapevoli, ma utilizzo anche prodotti industriali e ho un debole per le cucine straniere; mangio carne una volta alla settimana e in viaggio; giro quasi sempre a piedi ma non vado in bicicletta; faccio una raccolta differenziata maniacale, ma ho un giardino incolto e viaggio spesso in aereo; uso quando posso rimedi fitoterapici, ma non credo nell’omeopatia.

Sono una mamma che allatta, ma non a termine.
I miei figli non hanno mai assaggiato il latte in polvere, ad eccezione di una o due poppate per Davide nel reparto maternità. Nonostante allattare sia stato inizialmente orrendo, spesso estenuante e a tratti molto doloroso, non ho mai usato il biberon e li ho allattati a lungo e a richiesta. Ma Davide ha sempre usato il ciuccio, e tuttora ne ha bisogno per addormentarsi o consolarsi in caso di crisi. E so già che non ho voglia di allattare Flavia come si suol dire “a termine”, aspettando che si stacchi dal seno in totale autonomia, ma che cercherò di interrompere prima il suo allattamento (ci ho già provato, anzi. Ma lei non ne ha voluto sapere).

Sono una mamma che viaggia, ma non troppo.
Il mio primogenito ha messo piede in una decina di paesi in tre anni e mezzo di vita. Entrambi i miei figli hanno avuto il loro battesimo dell’aria a pochi mesi di età, abbiamo già fatto un’esperienza di volo intercontinentale e diversi viaggi itineranti. Viaggiare, insieme a leggere, è la mia passione più grande. Ma non ho itinerari avventurosi da raccontare, mete esotiche cui ripensare con nostalgia, destinazioni alternative e “coraggiose” all’attivo. Conto di uscire ancora dall’Europa insieme alla mia famiglia, ma so già che, a meno di vincite fortuite e consistenti, accadrà in occasioni rare.

Sono una mamma che lavora, ma così così.
Dichiaro un reddito personale dal 2007, dall’anno successivo sono iscritta a un ordine professionale e dal 2010 ho la partita Iva. Ho una laurea e due master pertinenti con quello che faccio da dieci anni. Scrivo articoli e post che mi vengono pagati, verso ogni anno dei contributi alla cassa previdenziale, ho percepito per due volte un indennizzo di maternità. Viaggio per lavoro, e in passato ho partecipato a meeting, conferenze stampa, convegni. Ho ricevuto accrediti stampa per conferenze Onu, eventi musicali, per il Giro d’Italia. Una volta sono stata a una rassegna per giornalisti scientifici che si teneva a bordo di una nave in giro per il Mediterraneo. Eppure non ho un reddito fisso su cui contare, uno straccio di garanzia di quello che accadrà tra un anno o anche solo tra sei mesi. Ho tante colleghe e collaboratori, ma ci sentiamo solo al telefono o via internet. Lavoro quasi esclusivamente da casa, in solitudine, seduta alla mia scrivania poco illuminata. Guadagno oggettivamente poco, specie negli ultimi anni.

Sono una mamma in forma, ma anche no.
Durante la prima gravidanza ho messo su 11 chili, meno di 9 la seconda volta. Attualmente peso circa 5 chili di meno rispetto a quando sono rimasta incinta di Davide e non ho quasi smagliature. Ma sono molle, grigiastra e senza fiato. Mi mangio le unghie e non mi trucco quasi mai. Ho la cellulite e non faccio cose tipo i work out per mamme. Ci ho provato pure, una volta, ma ho resistito tre giorni.

Sono una mamma chioccia, ma non fino in fondo.
Non esco mai di sera senza i miei figli (al massimo un aperitivo mentre loro stanno col papà), tanto meno partirei per un viaggio senza di loro. Dormiamo tutti insieme in un letto a tre piazze. In questi primi anni della loro vita ho scelto di delegare il meno possibile, cercando di occuparmi di loro sempre insieme a mio marito. Eppure mio figlio ha iniziato il nido a poco più di un anno e mezzo, con un inserimento straziante e interminabile che non mi ha scoraggiato dal perseverare. Sua sorella, che compie due anni tra un paio di mesi, ha appena cominciato a sua volta, e speriamo che per lei sia meno doloroso.

Sono una mamma canguro, ma zoppico un po’.
Ho portato mio figlio in marsupio e mia figlia, tantissimo, anche in fascia. L’esperienza del babywearing ha arricchito profondamente la mia vita (di conoscenza, di ricordi, di amicizie) e ha cambiato il rapporto con mia figlia. Ma da quando lei cammina le occasioni di portarla addosso sono molto diminuite, e attualmente usiamo il marsupio o la fascia ad anelli solo raramente, in viaggio o in vacanza. Un fatto abbastanza insolito, tra le “vere” mamme portatrici di bimbi che non hanno ancora due anni.

Sono un po’ di tutto, tante cose insieme. Né carne, né pesce. Ma tutto quello che sono mi sembra imperfetto e approssimativo. Privo di coerenza e mediocre. E così mi sento a disagio tra le mamme fissate con l’allattamento e quelle che ce l’hanno con quelle fissate con l’allattamento. Mi sento diversa dalle mamme portatrici e da quelle che non sanno cosa sia una fascia. Distante anni luce dalle mamme che vanno in vacanza sempre sullo stesso litorale, ma “non abbastanza” per quelle che girano il mondo con lo zaino in spalla. Esposta al giudizio delle mamme vegane, ma irrimediabilmente stravagante per quelle che non userebbero mai una coppetta mestruale.

Se fossi una liceale americana, non sarei una cheerleader ma neanche una nerd. Perennemente fuori posto, sempre troppo o non abbastanza. Faticosamente alla ricerca di una strada che mi conduca esattamente dove voglio arrivare, ma che cambia direzione di continuo, e spesso mi costringe a battere sentieri non troppo frequentati.

Sono vent’anni che vorrei riuscire a etichettarmi. A incasellarmi, a definirmi. Al liceo leggevo Che Guevara e andavo in chiesa ogni domenica, ero bravissima a scuola ma adoravo lo sport e il cazzeggio. Credevo che il tempo mi avrebbe reso più inquadrabile, più coerente. Più normale.

E invece no. Resto sempre complicata, incoerente, volubile. Per certi versi inevitabilmente sola. Praticamente un’adolescente di 35 anni, e soprattutto mediocre. Una professionista, un’amica, una moglie e una donna incompiuta. Una madre mediocre.

5 Settembre 2016 29 Commenti
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interviste

Quel tempo perso per sempre: intervista sulla depressione post partum

by Silvana Santo - Una mamma green 22 Luglio 2016

Valentina Colmi è una giornalista e blogger, ed è la mamma di Paola e di Vittoria. Il nome della sua secondogenita non è stato scelto a caso, ma per celebrare la liberazione di sua madre dalla depressione post partum, che l’aveva quasi spezzata dopo la nascita della prima figlia. Valentina scrive di depressione perinatale nel suo sito Post-partum.it, e a questo tema così importante e ancora così sottovalutato, ha dedicato il suo libro Out of the Blue – Rinascere Mamma, edito da Lazy Book in formato digitale (lo trovate su Amazon e nei principali store della rete). L’ho intervistata perché la sua vicenda, per tanti versi, è la vicenda di molte. E poi perché mi piacciono tanto le storie a lieto fine.

Cosa avresti voluto che facessero i tuoi cari quando avevi la depressione post partum, e cosa invece non è accaduto?

In realtà quando stavo male ho avuto l’appoggio dell’unica persona che in quel momento stava vivendo con me tutto il dramma, ovvero mio marito. Su questo posso dire di essere stata molto fortunata, visto che non ha mai reagito negativamente quando stavo male, anzi mi consolava e soprattutto c’era. La mia famiglia – intendo i miei genitori – probabilmente non ha capito subito che si trattava di qualcosa di più che una semplice tristezza e mi dicevano in continuazione di tornare alla normalità. Avrei forse voluto essere presa più sul serio.

Come hai fatto a capire che avevi bisogno di aiuto, e cosa hai fatto per chiederlo?

A tre mesi dalla nascita di Paola, il senso di angoscia che provavo non si attenuava. Mi attanagliava, mi sentivo sempre arrabbiata, ansiosa, in prigione. Per questo ho deciso di chiedere aiuto. In rete ho trovato l’indirizzo dell’Ospedale Niguarda: ho telefonato e da lì ho preso un appuntamento per iniziare le sedute. Una delle decisioni migliori che potessi prendere.

Ci sono stati commenti, silenzi o comportamenti che hanno ulteriormente aggravato la tua sofferenza per la depressione post partum?

No, perché in realtà non lo sapeva nessuno tranne mio marito. Avevo bisogno di vivere questo percorso da sola, senza avere addosso sguardi preoccupati. Ai miei genitori l’ho detto solo a terapia avanzata.

Nel tuo libro mi è sembrato di percepire una certa rabbia per la scarsa attenzione che si rivolge alla depressione post partum. Cosa, in particolare, andrebbe fatto sul piano sociale e sanitario per prevenirla e curarla?

Hai detto bene. Io ho ancora una grande rabbia per quello che mi è successo, perché per me Paola non è esistita per cinque mesi e quel tempo non me lo ridarà più nessuno. Eppure non mi avevano avvisato che sarebbe potuto accadere; al corso pre parto hanno dipinto la maternità come il momento più bello della vita. Pensa che l’incontro con lo psicologo era facoltativo! Io non l’ho frequentato perché credevo con molta superficialità che a me non sarebbe capitato nulla, che la depressione post partum non mi avrebbe sfiorato. Da una parte quindi dovrebbe esserci più informazione e prevenzione – ci sono ottimi progetti che però vengono chiusi per mancanza di fondi – e dall’altra le future madri non dovrebbero trincerarsi dietro a frasi tipo “è un periodo felice, non voglio sentire notizie negative”, perché poi è molto peggio. D’altronde chi l’ha detto che le donne incinte non debbano essere toccate da nulla del mondo esterno?

Quando aspettavo il mio primo figlio ho vissuto un periodo di profonda angoscia e insicurezza, che ha lasciato strascichi coi quali ancora combatto. La depressione può colpire anche prima del parto? Perché non se ne parla mai?

Certo, la depressione può colpire anche prima del parto e si chiama appunto depressione pre partum. Ha più o meno gli stessi sintomi di quella post: ansia, sensazione di non farcela e soprattutto ambivalenza nei confronti del nascituro. Molto spesso le future mamme tendono a reprimere queste sensazioni, magari dandosi delle colpe. È importante invece che sappiano che l’ambivalenza – quando è sana – permette di costruire un rapporto sincero e profondo con il proprio bambino. Non se ne parla per quello che ti dicevo prima: la gravidanza viene definita “stato di grazia”, come si fa a turbare questo cliché?

Cosa diresti a una mamma che non si sente felice come tutti le dicono che dovrebbe essere?

Innanzitutto che è molto coraggiosa e che fa bene a dirlo. E poi di non avere timori a parlarne prima con le persone che le vogliono bene e poi con un terapeuta.

E a una ragazza che sta per diventare madre?

Ad una ragazza che sta per diventare madre direi solo una cosa: “Prima di essere madre sei una persona, anche se dopo che avrai partorito comincerai ad essere conosciuta come “la mamma di” non più con il tuo nome. Tuo figlio avrà bisogno di te e delle tue cure, ma lui non è te e per questo non sentirti indispensabile”.

Come si fa a capire che si ha la depressione post partum?

Purtroppo i sintomi sono tanti e variabili, per questo si fa fatica ad avere una diagnosi adeguata. Possono andare da cause organiche (per esempio un brutto parto o un cesareo difficile) a psicologiche (ad esempio il rapporto con la propria madre), alla condizione economica, al compagno o marito inesistente. In genere si manifestano ansia, pianto improvviso e immotivato, stanchezza, si dorme troppo o troppo poco (ci si sveglia perché si teme che il bambino possa stare male), scarso appetito o eccessivo consumo di cibo a tavola, si perde l’interesse per la vita di tutti i giorni, fino ad arrivare a pensieri di morte verso sé stesse. Questi sintomi si presentano generalmente tra la sesta e la dodicesima settimana dopo la nascita e devono essere continuativi per più di due settimane.

Come stai oggi?

Ho finito la psicoterapia e devo dire che sto bene. Sono piuttosto stanca perché le mie figlie sono molto impegnative, ma rifarei tutto ciò che mi ha portato fino a qui, depressione post partum compresa.

22 Luglio 2016 3 Commenti
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mamma green

Paura

by Silvana Santo - Una mamma green 23 Marzo 2016

La paura è il tuo angelo custode sempre in servizio. Il giubbotto antiproiettile che ti è stato assegnato quando sei arrivato nel mondo, il ricordo vivo di quando ti stringevi col tuo branco al buio di una caverna, le bestie feroci all’esterno a ululare affamate alla luna. La paura allerta i tuoi sensi, li amplifica, li esalta. È l’incarnazione più concreta del tuo istinto di sopravvivenza. Le devi la vita tua e dei tuoi figli, se ne hai già avuti o se mai ne avrai. La capacità di schivare un colpo improvviso, di ritrarre una mano prima che il fuoco la avvolga, di afferrare saldamente un bambino piccolo prima che la risacca lo trascini lontano per sempre.

La paura è una alleata fedele dell’umanità. Anzi. È una condizione necessaria per la sopravvivenza di ogni animale che se ne va a spasso sulla Terra, da sempre e per sempre.

Bruxelles Santa Caterina

Ma la paura funziona come il vino buono: un paio di bicchieri di troppo e finisce con l’impastarti i sensi dopo averli accesi. Ti annebbia la vista e rallenta i tuoi riflessi, ti toglie lucidità e consapevolezza. Sottrae ossigeno al tuo cervello, forza al tuo cuore e profondità al tuo sguardo.

Se la paura diventa panico, e angoscia, e paranoia, ti ammazza lentamente invece di salvarti. Ti condanna a un progressivo isolamento, ti nega per sempre la gioia di vivere, che in ultima analisi rappresenta il senso stesso della vita.

La paura è una spalla leale finché sei tu a condurre il gioco. Se le lasci il timone, dirotta la tua esistenza fino a farla deragliare. E diventa il vero mostro da cui dovrai difenderti per non morire.

Bruxelles Grand Place

Usare la paura come il sesto dei nostri sensi, senza mai ignorare la voce potente degli altri cinque. Prestarle ascolto senza distrarci dal vivere. Rispettarla senza abdicare, senza rinunciare a tracciare la rotta.

Stemperarla col miele della gioia di vivere, ammorbidirla col balsamo della speranza.

Non abbiamo altra scelta. #prayforbruxelles

23 Marzo 2016 1 Commenti
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essere madre

Ne vale davvero la pena?

by Silvana Santo - Una mamma green 17 Febbraio 2016

Quando i giorni rotolano identici l’uno accanto all’altro. Senza leggerezza, senza requie. Scanditi da colpi di tosse e pianti isterici, dalle attese dal pediatra e dalle indicazioni nei bugiardini delle medicine. Quando si concludono con la sensazione di essere stati sprecati. Senza la doverosa gioia, senza pazienza, e soprattutto senza fantasia. Senza atti d’amore, direbbe un poeta che veneravo nella mia vita precedente.

Quando le cose da fare sembrano talmente faticose, da non riuscire a farne bene nemmeno una. Quando dovresti lavarti i capelli da giorni, quando il tuo gatto vorrebbe solo giocare qualche minuto con te. E tu non sai se continui a rimandare l’una cosa e l’altra perché ti manca il tempo o piuttosto la voglia per farle.

Quando le notti incombono feroci come la minaccia di ore estenuanti, invece di promettere ristoro e silenzio e morbidezza. Quando i sogni, che spesso sono incubi, vanno in scena concitati e rotti nelle prime ore del mattino.

Quando l’ansia, esagerata dalla fatica e dal rimorso, ti consuma più del dovuto, e la paura di quello che potrebbe accadere ti impedisce di ringraziare, come dovresti, per quello che non è ancora successo (e che pure hai davanti agli occhi di continuo).

Quando il ritardo si accumula, inesorabile. Le occasioni sfuggono tra le dita fiacche e le idee scivolano via dalla mente provata. Quando la tua vita resta immobile a languire sotto coltri di polvere e tela di ragno, mentre tu ti accontenti di arrivare in qualche modo a primavera.

Quando ogni azione quotidiana, banale e piccola, richiede un impegno estenuante. Negoziati infiniti, lusinghe, promesse e, nei casi peggiori, urla e minacce.

Quando sapere perfettamente che i tuoi problemi sono piccoli e ordinari, davvero poca roba dinanzi alle sfide epiche che la vita riserva ogni giorno a tanta gente, non sempre ti basta per affrontarli col necessario sorriso.

Quando ti sembra che in fondo i tuoi sforzi siano vani. Che l’impegno che profondi da anni con quotidiana fatica non porti ad alcun risultato durevole. Che le cose a cui hai rinunciato con amore siano soltanto un colossale spreco. Quando ti appare evidente che il tuo stesso amore non generi negli altri la felicità che speravi.

È allora che in qualche fossa abissale di te prende forma la domanda che non dovresti mai nemmeno concepire. Si insinua tra le rughe della tua materia grigia. Sgradevole, oscena. Fa vacillare il senso stesso della tua esistenza, squassa le fondamenta che reggono l’impalcatura delle tue scelte più importanti. Ti arriva alle orecchie come la più inutile delle bestemmie, erompe sulle tue labbra in conati di rammarico e sensi di colpa. Amara come il pentimento, sterile come il senno di poi. Traditrice come il miraggio di una pozza tremolante sull’asfalto infuocato di agosto.

La risposta, per fortuna, la conosci. Ce l’hai stampata dentro, ti scorre nel sangue e ti fa fremere la pelle e il ventre. La risposta è la tua stessa vita, che va nella sola direzione possibile, inarrestabile e fortissima. Però quanto ti costa, certe volte, ricordarla a te stesso. Zittire quella voce eretica e andare avanti. Senza rimpianti e senza paura.

17 Febbraio 2016 13 Commenti
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due figli
life

La ragazza che cammina

by Silvana Santo - Una mamma green 12 Gennaio 2016

Nel posto in cui vivo c’è una ragazza che cammina. Cammina sempre, per ore, tutti i giorni. Che io esca quando il mattino è ancora madido di rugiada, quando le finestre spandono i profumi del pranzo o all’ora in cui la luce dei lampioni piove gialla sull’asfalto, la scorgo invariabilmente all’orizzonte, con la sua sagoma ormai inconfondibile e l’andatura che mi si è fatta familiare.

A passo spedito, con le gambe esili come zampe di airone e i capelli scuri, lunghi fino alla schiena. Cammina con il cellulare in mano, gli getta occhiate frequenti e orizzontali, ogni tanto se lo porta all’orecchio con il braccio sottile e inizia una conversazione tranquilla. Sola, quasi sempre. Fronte dritta, un passo dietro l’altro, lei cammina.

Cammina come se il solo scopo del suo andare fosse il camminare stesso. Senza una destinazione, senza un appuntamento o un porto da raggiungere. Camminare è il fine, l’obiettivo, il senso ultimo della sua marcia. A volte arresta bruscamente il suo procedere, fa una mezza giravolta e inverte la sua direzione. Arbitrariamente, senza una ragione che da fuori si possa intuire. Cammina e basta. Tutto il giorno, tutti i giorni. Cammina come se non dovesse farsi raggiungere: da se stessa, sospetto. E dalla carne che faticosamente ha tirato via dal suo corpo, fino a diventare impalpabile come una lama di sole.

L’ho incontrata sempre più spesso, nell’ultimo anno. Un anno passato ad occuparmi dei miei figli quasi ininterrottamente, a stare con loro, a portarli con me, specialmente la più piccola, in giro per la nostra città. Sono anche io, in fondo, una ragazza che cammina: per necessità e per diletto, con calma o frettolosamente, nel freddo e sotto il sole. Per scelta e volentieri, quasi sempre. Con un figlio per mano e l’altra sulla schiena. Spingendo un passeggino, sostenendo un piccolo corpo addormentato, allattando strada facendo, cantando, chiacchierando, qualche volta implorando o masticando rabbia in silenzio. Con una direzione imprecisa e una meta che ogni tanto scompare nella foschia.

Ultimamente, quando io e la ragazza che cammina ci incrociamo per la strada, ci guardiamo e ci scambiamo un sorriso discreto. Un cenno lieve del capo, come di intesa e confidenza. Di solidarietà, in un certo senso. Non so niente, di lei, a parte il fatto che cammina. Non conosco il suo nome e non so quanti anni abbia. Non potremmo essere più diverse: lei col suo fardello leggerissimo, ma che deve sembrarle sempre troppo gravoso, mai abbastanza lieve per le sue aspettative irraggiungibili. Io col mio carico vivente e tiepido, che ogni mese che passa si fa più pesante di ossa e carne, ma anche di ricordi e amore e vita condivisa. Lei col suo corpo etereo, flessibile, quasi trasparente. Io con le mie braccia grosse di madre, col ventre che non torna liscio e il seno tiepido pieno di latte. Lei quasi sempre sola, io praticamente mai. Lei col suo tempo senza tempo, io braccata dall’orologio e dalle ore che non bastano mai.

Eppure a me sembra, a guardarla da lontano, di essere un po’ come lei: entrambe andiamo per il mondo, spesso in silenzio, con il peso delle nostre scelte addosso. Entrambe procediamo, fronte alta, un passo dopo l’altro, giorno dopo giorno e stagione dopo stagione. La ragazza che cammina va, e io incrocio il suo passare e mi specchio nel suo sguardo. Lei mi sorride, e io le sorrido. E un momento dopo ricominciamo a camminare.

12 Gennaio 2016 8 Commenti
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Chi sono

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Mi chiamo Silvana Santo e sono una giornalista, blogger e autrice, oltre che la mamma di Davide e Flavia.

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