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solitudine

life

L’eredità di mia madre

by Silvana Santo - Una mamma green 14 Giugno 2022

L’eredità di mia madre risiede in una quantità di cose piccolissime eppure importanti e inestimabili. Cose probabilmente mai indispensabili, ma che in fondo sono le sole in grado di fare davvero la differenza. Quel genere di cose superflue e allo stesso tempo necessarie. Non dovute, ma che, quando a un certo punto ti rendi conto di averle perse per sempre, ti mancano con una disperazione che prima non avresti mai saputo immaginare.

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14 Giugno 2022 1 Commenti
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life

Il senso che non c’è

by Silvana Santo - Una mamma green 24 Novembre 2020

Dovevamo diventare migliori.

Più consapevoli. Più grati. Più altruisti.

Dovevamo diventare più empatici e – per usare una parola che ho imparato nei primi anni 2000 per l’esame di Ecologia e che adesso non sopporto perché si usa troppo e non sempre a proposito – più resilienti.

Ma come avremmo potuto, di fronte alla prova a cui siamo stati chiamati?

Ci siamo progressivamente schierati tutti contro tutti. Divisi in categorie – i genitori e i non-genitori, i giovani e i vecchi, i settentrionali e i meridionali, i responsabili e gli incoscienti, i dipendenti e le partite iva, gli insegnanti e tutti gli altri lavoratori – eppure soli, arroccati disperatamente nell’unico dolore che conosciamo, il nostro.

Siamo stati progressivamente travolti da un flusso ininterrotto e ridondante di informazioni, spesso contraddittorie, vaghe o semplicemente incomprensibili. A volte destinate a essere smentite, ridimensionate o corrette nel giro di poche ore o di pochi giorni. C’è chi ha finito col non sapere più a chi o a cosa credere.

Le nostre interazioni sono state affidate a mezzi aridi e spesso asincroni, fraintendibili e freddi. Basati su filtri che ci consentono di tirare fuori senza vergogna il peggio di noi, di additare il colpevole di turno, trincerati nel nostro anonimato informatico. Qualcuno si è abituato a urlare, tanti si sono ridotti a un silenzio difensivo e disarmato.

Siamo stati chiamati a prendere decisioni terribili. A vivere con il peso di responsabilità schiaccianti. A farci medici dei nostri genitori anziani, a diventare insegnanti, allenatori e psichiatri dei nostri figli piccoli. A scegliere il male minore tra due prospettive a volte disarmanti, a decidere con quale paura o con quale senso di colpa convivere, sapendo peraltro che qualsiasi scelta ci tirerà comunque addosso critiche, allusioni e commenti.

Abbiamo distillato lentamente il veleno della nostra frustrazione, inchiodati alle differenze che ci affliggono da ben prima del fantomatico “paziente zero”. Abbiamo stilato l’aberrante classifica dei privilegiati tra i privilegiati, facendo a gara per stabilire chi se la stia passando peggio e chi abbia più diritto a lamentarsi.

Forse poteva andare solo nel modo in cui è andata. O magari stiamo pagando un prezzo altissimo a causa di errori che potevano essere evitati. Io non lo so, ho smesso di chiedermelo molto tempo fa perché in fondo non ha alcuna importanza.

Vorrei solo trovare un senso a questa roba faticosa che è diventata la vita, ma forse è troppo presto. O più probabilmente, non esiste alcun senso: siamo solo animali, dopo tutto, in balia di meccanismi naturali più grandi di noi.

24 Novembre 2020 2 Commenti
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carico mentale
life

Sopraffatte dal carico mentale

by Silvana Santo - Una mamma green 5 Novembre 2020

Se vi chiedessi quanto condividete coi vostri compagni la fatica quotidiana di badare alla casa e di accudire i figli, cosa mi rispondereste? Molte di voi, in assoluta buona fede, direbbero che nella propria famiglia tutto viene diviso “al 50 e 50”, e che anche i propri compagni si occupano di cucinare, pulire la casa, fare la spesa, cambiare pannolini e mettere a letto i bimbi. Benissimo. Ma se vi chiedessi quanto sono coinvolti i padri nell’organizzazione del quotidiano, quanto sopportano con voi il carico mentale estenuante che c’è dietro la gestione di una famiglia, allora che cosa mi rispondereste? Chi tiene i rapporti con il pediatra, chi si ricorda di prenotare le vaccinazioni e poi tiene a mente gli appuntamenti? Chi dialoga “quotidianamente” con insegnanti e rappresentanti di classe, chi tiene i rapporti con gli amichetti e i loro genitori? Chi si occupa di comprare i regali quando si viene invitati a un compleanno, chi fa caso al corredo scolastico mancante, chi è che si rende conto che è quasi ora di fare il cambio di stagione, e di integrare eventualmente il guardaroba dei bambini? Se la risposta è “entrambi allo stesso modo”, fidatevi: siete parte – per merito, per caso o per fortuna, poco importa – di quella sparuta minoranza di famiglie in cui non solo il lavoro “materiale”, ma anche quello “gestionale” e logistico viene ripartito equamente tra padre e madre.

Lo chiamano “carico mentale”, appunto, e a volte è così pesante da diventare una zavorra insostenibile, che ti schiaccia fino a toglierti il fiato e la lucidità. Per me, più che altro, è come una folla di voci che mi si accavallano dentro la testa, una quantità di informazioni sovrapposte su cui il mio cervello non riesce a mantenere il controllo o a stabilire delle gerarchie di priorità. E che sembrano fuggire nel vento come post-it attaccati malamente a una bacheca troppo affollata. È una sensazione fisica, proprio. La sensazione di una mole di dati che trabocca incontenibile dal mio cranio, che frana verso il basso e minaccia in ogni istante di seppellirmi.

Per anni, anche a casa nostra, il carico mentale era decisamente sbilanciato a mio sfavore. Lo schema, di solito, era sempre lo stesso: cominciavo una qualsiasi attività – un articolo da consegnare, una lavatrice, la lista della spesa, la fattura per un cliente – e mi ricordavo all’improvviso di altre scadenze, responsabilità, incombenze improcrastinabili in attesa da troppo tempo. E così, magari, lasciavo in sospeso ciò che stavo facendo per dedicarmi a quella che, nel caos, mi pareva in quel momento la questione più urgente (per esempio: scrivere al pediatra per programmare finalmente il controllo), ma nel frattempo pensavo già agli zaini per la palestra da preparare, al bollo auto scaduto la settimana precedente, ai quaderni nuovi che andavano tassativamente comprati entro sera, alle pappe per il gatto da ordinare con urgenza. Alla fine, spesso e volentieri, mi ritrovavo sfinita. Sopraffatta dalla mole insostenibile di responsabilità, di scadenze da tenere a mente, di imprevisti da fronteggiare. E non riuscivo a fare al meglio nessuna delle cose tra le quali mi sarei dovuta barcamenare.

Non è solo una questione di organizzazione o di metodo. Più semplicemente, a volte quello che ci viene richiesto (magari anche da noi stesse) è davvero troppo. “I pensieri”, li chiamava mia nonna – a volte vorrei avere un pensatoio come Albus Silente, per alleggerire il peso che grava sulla mia testa. In realtà si chiama carico mentale, ma è lo stesso. E quello che accade è che spesso e volentieri questo carico non sia distribuito in modo equo nella coppia genitoriale, ma finisca col ricadere principalmente sulle madri (e sulle donne in genere, perché vale anche per esempio per chi ha genitori anziani da accudire).

Ma non esiste alcuna ragione biologica per cui debba spettare alle donne il compito di tenere le fila di “quel che c’è da fare”. I padri, e i maschi in generale, non sono al mondo per fare “il braccio armato”, gli esecutori materiali di istruzioni impartite dalle proprie compagne. Quello che ci condanna a questa iniqua spartizione della fatica e dello stress è solo un pregiudizio. Un retaggio culturale che poteva funzionare, forse, quando le donne lavoravano “soltanto” dentro casa, ma che adesso è un modello obsoleto, inefficace e totalmente ingiusto.

La coppia di cui faccio parte, dopo un periodo davvero critico per la sottoscritta, sta tentando da tempo di imparare a dividersi il carico mentale più alla pari. È un processo lungo e complesso, che ha comportato (e ancora causerà) discussioni, contrasti e incomprensioni. Notti trascorse a parlare, accessi di rabbia, fatica. Sofferenza. Perché anche se chi sta “dall’altra parte”ha tutta la buona fede del mondo, non è facile e non è immediato cambiare visione e abitudini nel profondo. Rendersi conto di quello che bisogna provare a modificare. Ma per quanto tempo ed energie richiederà, riuscire nell’impresa di redistribuire il carico mentale è una sfida irrinunciabile, una conquista cruciale per il benessere della nostra famiglia. E sono certa che sia così anche nelle case di molti di voi.

*La bellissima illustrazione è della mia amica Elisabetta Bronzino “Minoma”, che ringrazio per aver tradotto in arte, con talento e grande efficacia, quello che le mie parole volevano esprimere.

5 Novembre 2020 7 Commenti
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life

Il dolore degli altri è dolore a metà

by Silvana Santo - Una mamma green 26 Ottobre 2020

C’è chi ha un lavoro stabile e garantito, ma si ritrova a farlo da casa mentre deve occuparsi di un bambino piccolissimo, e si sente sopraffatto dalla responsabilità e dalla fatica, fino al punto di non riuscire più a respirare. Chi ha contratto debiti per mettere a norma una palestra, un teatro, una sala di registrazione e che ora si chiede perché mai debba chiudere, consegnandosi all’indigenza, nonostante tutti gli sforzi compiuti. Chi ha investito ogni risparmio in un piccolo ristorante e adesso non riesce a dormire pensando alle nubi che si addensano sul proprio avvenire. Chi un lavoro ce lo aveva e lo ha perso, chi ha una partita IVA e non fattura niente da mesi, chi un’occupazione decente la stava cercando e adesso dispera definitivamente di trovarla.E c’è chi al lavoro non ha mai smesso di andarci: nella trincea degli ospedali sovraffollati e malsani, nella calca dei supermercati presi al sacco dalla folla spaventata, nelle fabbriche servite da treni e bus stipati all’inverosimile. E si chiede ogni tanto cosa abbiano mai da lamentarsi tutti gli altri.

C’è chi fa l’insegnante con passione, ma ha una patologia cardiaca, una immunodeficienza, un coniuge che cerca di guarire dal cancro o un genitore molto anziano di cui prendersi cura dopo il lavoro. E sente che entrare in un’aula piena di ragazzi rappresenta davvero un rischio inaccettabile. C’è chi si ritrova a insegnare a scrivere a suo figlio davanti a un tablet che funziona a scatti, e la ritiene una completa aberrazione. Chi ha perso il sonno perché il suo, di figlio, avrebbe dovuto laurearsi nei prossimi mesi, e ora non sa bene quali pesci prendere. E chi pensa con invidia agli uni e agli altri, perché è genitore di un bambino con bisogni speciali, che adesso saranno completamente disattesi – ancora più del solito – e chissà quale voragine cupa lasceranno. C’è chi i figli non li ha avuti, oppure li ha cresciuti da trent’anni, e quali possano essere le difficoltà odierne dei genitori non riesce nemmeno a immaginarlo. Così non può sottrarsi alla tentazione di minimizzare, di dirsi che a resistere ancora per qualche settimana, in fondo “cosa ci vorrà”.

C’è chi ha rimandato un matrimonio, chi non vede figli e nipoti da un anno, chi ha rinunciato a un progetto, a un trasloco, a un sogno qualsiasi. Chi sente mordere più forte una depressione che sperava di essere riuscito a tenere finalmente a bada. Chi non riesce a curarsi come dovrebbe da un cancro, da una malattia neurologica, da una disabilità o da una cardiopatia. E c’è chi annaspa intubato in un letto di rianimazione, chi ha perso un genitore, un nonno, un compagno, senza poterlo neanche salutare un’ultima volta. E trova che nessun’altra ragione sia sufficientemente importante per dolersi e recriminare.

Il dolore degli altri è dolore a metà, se tu per primo sei alle prese col dolore. E forse non è davvero colpa di nessuno. Forse è del tutto inevitabile, del tutto normale, che nella difficoltà sempre crescente si finisca col concentrarsi su se stessi. Con il tentare di sopravvivere col minor danno possibile, di mettere i propri figli in salvo sulla prima scialuppa disponibile. Forse è normale rivendicare il proprio strazio perché è l’unico che si conosce davvero, l’unico con il quale giorno e notte ci si trova fare i conti. Non è facile obbligarsi ad ascoltare, a compatire, a consolare chi sente di stare “peggio di te”, se tu per primo non stai bene, e avresti un disperato bisogno di qualcuno che ti ascolti, ti compatisca e ti consoli. Non è facile dare agli altri qualcosa, se quel qualcosa, da un tempo non esattamente breve, manca anche a te stesso. Si può solo decidere di provare il più possibile a tenersi per sé la tristezza, la rabbia, la paura. Consapevoli che gli altri, nessuno escluso, stanno già portando il loro fardello. Si può solo provare a resistere da soli, e sperare di riuscire a farlo abbastanza a lungo. L’empatia non è un lusso per i tempi bui. E il dolore degli altri, ora più che mai, è dolore a metà.

26 Ottobre 2020 2 Commenti
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Tornare alla normalità

by Silvana Santo - Una mamma green 22 Maggio 2020

Nelle prime settimane di quarantena, non senza imbarazzo, avevo scritto un lungo post in cui raccontavo che, tutto sommato e con l’importante eccezione dei viaggi, non sentivo poi così tanto la mancanza della mia vita “normale”. In qualche modo, purtroppo, le circostanze eccezionali in cui ci siamo trovati nostro malgrado avevano temporaneamente livellato le condizioni di vita di quasi tutti noi, almeno da alcuni punti di vista.

Le difficoltà che io – come tante altre persone, donne in primis – mi trovo ad affrontare ogni giorno da anni erano diventate all’improvviso un problema comune. Tutte hanno dovuto, dalla sera alla mattina, abituarsi a mettere ogni giorno un pranzo decente in tavola. Tutte, private senza preavviso dei servizi scolastici, si sono ritrovate a fare i conti con l’impegno quotidiano della supervisione dei compiti e della motivazione di figli talvolta reticenti, stanchi o pigri. Tutte hanno dovuto riconoscere, provandola sulla propria pelle, la difficoltà di conciliare la cura dei figli e della casa con il lavoro da remoto. E tutte hanno dovuto affrontare la spinosa questione della suddivisione del carico materiale e mentale di lavoro coi rispettivi compagni. Tutte, improvvisamente, hanno dovuto confrontarsi con la difficoltà di essere madri in un mondo che da un giorno all’altro, a causa dell’epidemia, si è ritrovato privo di servizi per le famiglie, di supporto, di sostegno. Tutte le madri italiane, esattamente come me.

Questo, in qualche modo, mi ha fatto sentire a lungo meno sola. Meno in difetto, meno penalizzata, meno sfigata. Meno perdente, se vogliamo. Finalmente, la mia realtà quotidiana non mi appariva come una vita “di serie B”, in un contesto arretrato e male amministrato. Finalmente, anche se solo per un po’, ho sentito che milioni di persone condividevano lo stesso fardello mio e di tante donne che vivono in aree d’Italia che sono penalizzate dal punto di vista dei servizi, della mentalità, delle opportunità e delle prospettive di lavoro. Ho sentito che tutti, adesso, avrebbero capito quanto può essere dura, perché lo avrebbero sentito sulla propria pelle, anche se solo per poche settimane. Per la prima volta, nonostante la disperazione per la malattia, per i morti, per il dolore di tantissime persone, ho coltivato l’illusione che le cose sarebbero davvero cambiate anche per noi, anche per me.

Solo che poi, grazie al cielo, la curva dei contagi si è appiattita, la quarantena è finita e la bolla in cui mi ero chiusa è scoppiata. E adesso, mentre tutti fremono per tornare alla rimpianta normalità, io mi trovo costretta a prendere atto che per molte di noi nulla cambierà in meglio, nemmeno questa volta. Che mentre un sacco di gente ritroverà festante la sua vita felice e moderna, chi era stato lasciato indietro – perché privato di servizi essenziali, di luoghi di aggregazione appaganti, di spazi di natura, di prospettive di lavoro e di guadagno dignitose e stabili, di un contesto culturale adeguato e moderno, di una scuola efficiente e performante – si ritroverà di nuovo, inesorabilmente, ad annaspare nelle ultime file.

Sarà per questo che il malessere che in tanti denunciavano durante il lockdown, io purtroppo lo sto vivendo adesso, in questa confusa e precipitosa “fase 2”. “Mal comune, mezzo gaudio”, dice un adagio che mi ha sempre dato fastidio e che raramente ho trovato condivisibile, ma che questa volta fotografa esattamente quello che ho provato io. Condividere temporaneamente i disagi, la solitudine e la fallace sensazione di inadeguatezza con un sacco di altre persone li aveva in effetti alleggeriti, e ora mi fa soffrire il pensiero che, per me (e non solo) la “riapertura”, anche quando sarà definitiva e totale, lascerà irrisolte tante questioni.

22 Maggio 2020 1 Commenti
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Elegia dell’equinozio di primavera

by Silvana Santo - Una mamma green 20 Marzo 2020
Più delle persone, mi manca la Terra.
 
Suona male da dire, me ne rendo conto. Ma è la verità.
 
La mia, per certi versi, è da tanti anni una vita piuttosto solitaria, e questo, nella crisi che tutti insieme stiamo attraversando, si è rivelata una fortuna insperata. Il mio quotidiano, rispetto a quello di molti di voi, è cambiato in misura tutto sommato marginale e quindi più accettabile.
 
Lavoro da casa, in solitaria, da un intero decennio: non ho colleghi di cui sentire nostalgia, pause pranzo da rimpiangere, cene di lavoro a cui rinunciare o riunioni da convertire faticosamente in video-conferenze. Durante la settimana, le mie uscite si susseguivano già sporadiche, quasi solo al seguito dei figli: la scuola, il basket, le feste di compleanno dei compagni. Abito in un posto dove la mensa scolastica e il tempo pieno sono ancora una chimera, per cui il pranzo casalingo e la supervisione ai compiti a casa erano già la norma, per me. E continueranno a esserlo anche quando le scuole riapriranno e la nostra vita tornerà a scorrere su binari più o meno consueti. Ero già abituata a trascorrere con i miei figli intere giornate, di solito lavorando contemporaneamente. Una casualità fortuita che oggi mi rende meno esposta all’avvilimento e alla stanchezza di tanti genitori che prima potevano passare a casa al massimo un paio di ore al giorno.
 
Gli aperitivi, che in effetti sono una mia passione, per consuetudine e per economia li facevo in casa già da molto prima di questo marzo da tregenda. Il cinema, che pure amo tanto da sempre, riesco a surrogarlo con efficacia grazie a un divano a due posti e una vecchia smart TV su cui il gatto ha lasciato da anni due unghiate impietose. L’ultimo concerto a cui sono andata risale forse a una dozzina di anni fa. E anche per il resto, in effetti, non ho dovuto aggiungere troppe rinunce a quelle che già mi ero già trovata a digerire negli anni, per scelta, per caso, per colpa mia o della sfortuna. Quasi tutte le mie amiche e i miei amici, per esempio, vivono relativamente lontano da me: è il destino di chi cresce in una terra di emigranti, una terra che da sempre chiama i suoi figli alla diaspora. Passano mesi – a volte intere stagioni – senza che riusciamo a vederci, anche quando il pianeta non è assediato dalla pandemia.
 
Per questo, credo, più delle persone, in questo Equinozio di primavera mi manca la Terra.
 
Mi manca il mare in questa stagione, non ancora assediato dai bagnanti e dal traffico. Le spiagge ancora sgombre di ombrelloni e sdraio, il bagnasciuga ancora territorio esclusivo di gabbiani, alghe e paguri. Mi manca la montagna, lasciata libera dal popolo con gli sci ai piedi. Restituita al silenzio, al brulicare sommesso della primavera in embrione. Mi manca la natura resiliente di città: i soffioni che crescono nelle crepe dell’asfalto, i gechi che tornano a fare capolino sui vecchi muri di tufo, i gabbiani depistati di chilometri dal tanfo delle discariche umane. A breve sarà la stagione dei nidiacei, quelle piccole vite orrende e pigolanti da tentare di strappare alla legge feroce del caso e dell’evoluzione. Quest’anno, a quanto pare, me la perderò.
 
E mi manca la meraviglia immortale dell’arte. La maestà del marmo e del travertino, la solidità dei basalti, la luce dei graniti. Il silenzio, la bellezza, il colore in cui sempre – sempre – ho trovato rifugio quando ero assediata dal buio. Con il cuore spezzato da un amore finito o da un’amicizia tradita, con la testa annebbiata dal dubbio, con il ventre squassato dai rimorsi. Uscendo da una corsia di ospedale o da un cimitero, annaspando per la solitudine, per il rimpianto, per il fallimento: è sempre nell’arte che ho trovato riparo, sicurezza, fiducia. Che ho trovato pace, soprattutto.
 
Mi manca sognare il prossimo viaggio, più ancora che viverlo. Dare fuoco alle polveri dell’immaginazione, accendere la miccia della curiosità. Presagire la scoperta, la conoscenza, l’esperienza del diverso e l’incontro con l’altro.
 
Sono fortunata, tra tanti. E non solo perché la mia famiglia, almeno per il momento, è in salute e al sicuro. Ma anche perché sono già in parte avvezza all’isolamento sociale che per tanti, ora, è una bestia dura con cui fare i conti. Mi colpisce meno duro, mi lascia meno sgomenta.
 
Ma la Terra mi manca. E mi fa male constatare che, in fondo, lei sta meglio senza di noi.
20 Marzo 2020 0 Commenti
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quando odio fare il genitore
essere madre

Quando odio fare il genitore

by Silvana Santo - Una mamma green 17 Febbraio 2020

Odio fare il genitore quando i miei figli riescono a dire esattamente la frase che fa più male. Quella che ti spiazza, che ti lascia in disarmo. Che ti fa vacillare la terra sotto i piedi. E tu sai che dovresti darle poco peso, scrollare le spalle e relativizzare, eppure dentro di te si forma una crepa sottile che ogni volta si allarga un po’ di più. E a te non resta che provare a richiuderla con l’oro liquido del tuo amore incondizionato e archetipico, come in un esercizio quotidiano di kintsugi che non si esaurisce mai.

Odio fare il genitore quando i miei figli mi sembrano “infelici” e io mi convinco di essere la causa principale della loro infelicità.

Odio fare il genitore quando sento di aver dato tutto quello che avevo, eppure non è stato comunque sufficiente. Quando ho fatto davvero il meglio del mio meglio, e magari mi sono inventata pure qualcosa in più. Eppure i miei figli non sono contenti, non sono tranquilli, non sono soddisfatti. Quando ho preparato con le mie mani un pasto succulento che resta a freddarsi triste in un piatto. Quando ho costruito un gioco che viene subito dimenticato, distrutto, ignorato. Quando ho dedicato tempo, energie, gioia e amore, ma questo non è abbastanza per evitare i malumori, i litigi, la rabbia reciproca. E io mi lascio abbattere, mettere in discussione e intristire per questo.

Odio fare il genitore quando mi sorprendo delusa o dispiaciuta perché le cose non vanno come io vorrei. Perché i miei figli non rispondono ad aspettative che neanche dovrei coltivare, quando non riesco ad accogliere come dovrei anche le loro fragilità, i loro limiti, i loro inevitabili e innegabili difetti.

Odio fare il genitore quando non so fare il genitore. Quando sento che quello che sto facendo non funziona, ma mi pare di non avere altre opzioni, di non sapere come aggiustare il tiro. E lo odio ancora di più quando invece so perfettamente cosa dovrei fare, eppure per qualche ragione non ne sono capace. Quando so che dovrei essere (ancora un po’) più paziente ed empatica, (ancora un po’) più saggia e illuminata. E invece riesco solo a minacciare e punire e chiudermi nella mia frustrazione.

Odio fare il genitore quando i miei figli mi sembrano irriconoscenti e insensibili. Quando mi vedono affranta, esausta, avvilita e, pur sapendo benissimo che io mi sento affranta, esausta e avvilita, si guardano tra loro ridacchiando. E io mi odio perché lascio che il loro naturale infantilismo mi ferisca, che mi faccia sentire piccola e inutile, che mi metta in crisi ancora di più.

Odio fare il genitore quando mi ritrovo a dover rispondere a dei messaggi WhatsApp con le parole senza vocali e le k al posto del “ch”. E che cominciano con “Ciao mamme!”. Quando, per il bene dei miei figli, devo passare del tempo con persone con cui non mi sento del tutto a mio agio, o in luoghi in cui non metterei mai piedi spontaneamente. Quando scegliere tra me e loro comporta necessariamente una rinuncia.

Odio fare il genitore quando mi tocca spiegare ai miei figli che “non importa quello che fanno gli altri, a casa nostra funziona così”. E devo combattere contro le cattive abitudini altrui, contro la superficialità altrui, contro la pigrizia altrui e l’altrui mancanza di senso civico. Odio fare il genitore quando penso che se vivessi altrove, se fossi nata lontano e se lontano stessero crescendo i miei figli, sarebbe tutto più semplice, meno faticoso, meno logorante.

Odio fare il genitore quando lascio che una parola altrui, un giudizio più o meno esplicito, un confronto inopportuno mi mettano in crisi e mi facciano sentire inadeguata.

Odio fare il genitore quando i miei figli si ammalano e io ho paura per loro. Quando un figlio non mio si ammala di un male che non si può guarire, e io mi sento mancare il fiato al pensiero che un giorno potrebbe capitare ai miei. Quando penso che potrei stare male io e lasciarli troppo presto.

Odio fare il genitore quando non ho il tempo per farlo come vorrei e saprei.

Fare il genitore non è banalmente “una cosa meravigliosa”, il “senso di tutto”, la gioia più grande. È anche fatica, solitudine, rabbia. È una missione che non finisce mai. Un viaggio in cui si naviga sempre a vista, in un mare che a volte si fa oscuro e tempestoso. Fare il genitore è una limitazione autoinflitta e permanente della propria libertà, una responsabilità che va ben oltre le notti insonni, le ragadi al seno e i pannolini pieni di merda.

È anche un’avventura straordinaria, naturalmente. L’esperienza umana forse più intensa che sia dato di vivere e l’ancora di salvezza più solida quando senti che stai affogando (e magari avresti la tentazione di lasciarti andare). Ma non c’è vergogna per chi ammette che a volte è estenuante, difficile, doloroso. Come la vita, che è fatta di arcobaleni luminosi ma anche di pozzanghere di melma. Che è zucchero e fiele, goduria e tormento. Che è passione, in ogni senso che a questa parola sia possibile dare.

17 Febbraio 2020 2 Commenti
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essere madre

Breve storia del mio senso di colpa materno

by Silvana Santo - Una mamma green 13 Gennaio 2020

Il mio senso di colpa materno è il mio effettivo primogenito, nel senso che ha visto la luce prima ancora che il mio primo figlio emettesse il suo vagito inaugurale. Evidentemente, si annidava in qualche piega della mia coscienza ipertrofica da molto prima che diventassi madre, pronto a tendermi i suoi agguati già durante la gravidanza. Mi stancavo o lavoravo più del solito? Forse stavo nuocendo al mio bambino. Mi concedevo una dose generosa di comfort food non esattamente salutare? Ero davvero una madre degenere. Mi facevo prendere dai dubbi sulla mia imminente maternità? Che pessimo destino attendeva mio figlio! E giù di rimorsi e senso di colpa.

Da allora, anche a causa del clima giudicante e ipocritamente perfezionista che circonda le neomamme, non credo esista qualcosa per cui, rispetto al mio ruolo di genitore, non mi sia sentita in colpa almeno una volta: per aver vestito troppo poco i miei figli e per averli vestiti troppo; per aver dato loro troppo da mangiare o, viceversa, troppo poco; per essere stata troppo indulgente o troppo severa, troppo distratta o eccessivamente presente. Per aver parlato o taciuto, per aver lavorato troppo o troppo poco, per certe cose che ho pensato e altre che invece non mi sono proprio venute in mente. A volte – e davvero mi pare emblematico – mi capita di sentirmi in colpa per il troppo sentirmi in colpa.

Nel tempo (e con un significativo ma benedetto investimento in psicoterapia), ho capito che il modo migliore per esorcizzare il mio patologico senso di colpa materno sarebbe stato probabilmente quello di farci la pace. Di accettarlo come una caratteristica della mia personalità, scomoda e ingombrante ma anche potenzialmente molto utile. Un po’ come la pelle grassa, che mi ha rotto le scatole al liceo ma mi ha permesso di arrivare alla soglia dei 40 anni senza nemmeno una ruga d’espressione. Mi si conceda di nuovo il gioco di parole: non è colpa mia se tendo a sentirmi in colpa, e questo non fa di me una madre fragile, condizionata o negativa. Non mi rende un pessimo esempio per i bambini che la vita mi ha affidato.

Oggi, da potterhead attempata quale sono, provo a guardare al mio senso di colpa materno come a una specie di mistico mantello dell’invisibilità, nel senso che mi rende trasparente ai miei stessi occhi e mi impedisce di entrare in contatto coi miei veri bisogni, con i miei desideri profondi, con la mia vera natura. Il che in effetti non è un bene, ma a volte può servire per mettersi totalmente nei panni e a disposizione dell’altro (e questo vale non solo per i miei figli). Se non avessi questa cronica tendenza a giudicarmi con severità e a sentirmi in colpa, forse sarei meno empatica e meno concentrata sul cercare di migliorarmi con costanza come madre, ma più in generale come donna e come cittadina. Forse verrebbe meno una potentissima spinta a diventare ogni giorno la migliore versione possibile di me.

La sfida rimane quella di non farsi travolgere, di saltare fuori dal mantello quando arriva il momento, sacrosanto e sanissimo, di pensare solo a me stessa. Di concedermi il diritto inalienabile di sbagliare più o meno scientemente, di essere una madre (e una persona) imperfetta, umana e fallibile. Di ricordare che il senso di colpa, appunto, va bene finché si limita a essere uno stimolo a guardare in faccia la realtà e a migliorarsi di continuo, ma è controproducente quando paralizza e condanna all’insoddisfazione perpetua. La sfida, in definitiva, rimane quella di trasformarlo in uno strumento al proprio servizio, nella ricerca costante dell’autenticità che permette di essere liberi e felici.

13 Gennaio 2020 0 Commenti
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essere madre

Non è che io non ti voglia ascoltare

by Silvana Santo - Una mamma green 18 Dicembre 2019

Non è che io non ti voglia ascoltare. Che io non sia interessata a quello che mi stai raccontando, che non mi importi di te, di quello che ti è accaduto e di quello che la tua immaginazione partorisce nella tua testolina adorabile. Non è che io ritenga più importante altro rispetto a te, ai tuoi sentimenti, alle tue idee, ai tuoi ricordi. È che sono adulta. E come tutti gli adulti non sono mai del tutto libera. È che se non provvedo a consegnare quel certo lavoro entro stasera, poi mi troverò nei guai, in primis con la mia coscienza e la mia autostima (due tipe incazzose che temo tu abbia ereditato da me). È che se non tolgo la cena dal forno proprio adesso, finirà bruciata e immangiabile. È che se non ritiro il bucato dal balcone, l’umidità della notte lo inzupperà, e mi toccherà rifare tutto da capo. È che mentre tu mi chiedi di ascoltarti con quei tuoi occhi enormi luccicanti di curiosità, saltellando perché sei incapace di stare fermo, nel mio cervello strepita a tutto volume un allarme orrendo e insopportabile che non so disattivare. L’allarme che mi ricorda quanto io sia in ritardo su tutto, quanti doveri ancora mi chiamano, quante scadenze si avvicinano pericolosamente, quanti problemi richiederebbero con urgenza la mia attenzione.

Non è che io non abbia voglia di giocare con te. Non è che mi dispiacerebbe restare con te sul tappeto a lanciare dadi, a costruire castelli, a ninnare bambole. Non è che io mi ritenga troppo cresciuta, o troppo saggia, o troppo matura per intrattenermi con te nel tuo mondo sognato. Non sono cresciuta. Non sono saggia, non sono matura. Sono soltanto adulta. E la mia vita semplice e regolare di adulta sana e benestante del terzo millennio pretende da me un sacco di tempo e di energie. Un sacco di risorse nervose e muscolari ogni santo giorno, per guadagnare soldi e spenderli, per soddisfare bisogni indotti (miei o di altre persone), per intrattenere conversazioni inutili e mantenere in vita relazioni che non portano alla felicità. È che mentre tu mi supplichi di giocare con te, con indosso il tuo vestito luccicante da maga, o le tue ali rosa da unicorno, lacci invisibili mi inchiodano alle mie responsabilità, reali o presunte che siano. Voci silenziose mi richiamano all’ordine, esigono il mio tempo e le mie residue energie.

Non è che non mi vada di guardare un film assieme a voi, o di leggere un libro facendo le voci. Di sprofondare nel divano con il gatto sulle cosce e di sgranocchiare bruscolini dallo stesso sacchetto, mentre ridiamo o cantiamo a voce alta. Mentre ci stringiamo sotto una coperta, consapevoli e grati perché ci siamo, perché stiamo insieme e stiamo bene. Perché siamo felici. È solo che se non faccio adesso le cose che devo fare, domani saranno raddoppiate, e diventeranno talmente pesanti da schiacciarmi il petto e annebbiarmi i pensieri. È solo che se mi concedo questo tempo con voi, dovrò inventarne altro per tutto il resto, e davvero non sarei capace. Non ne avrei la forza.

Non siamo genitori di figli piccoli che per una manciata di anni. Una piccola pila di lune che ogni mese si assottiglia sotto i nostri occhi, affaticati dal sonno mancante, dalle preoccupazioni, dalle responsabilità che si accumulano e ci sopraffanno. In queste poche decine di lune dovremmo poter vivere nella costante consapevolezza, nella certezza inaffondabile che i nostri bambini sono la nostra priorità assoluta. Che stare insieme a loro – starci davvero – dovrebbe essere l’obiettivo temporaneo delle nostre vite, non solo perché i nostri figli ne hanno bisogno e ce lo chiedono a gran voce, ma perché fa bene a noi, anche se non sempre ce ne rendiamo conto. E invece siamo oberati e schiacciati. Distratti, contesi. Distrutti da ritmi quotidiani innaturali e insostenibili, dalla dipendenza dai social, da uno stile di vita insensato e deprimente, da tutto quello che ci hanno convinto significhi essere adulti e genitori “responsabili”: guadagnare bene, avere una bella casa in ordine, aderire a certi canoni sociali, vivere con certi standard. E l’unica soluzione possibile, laddove ci sia una qualche soluzione, sembra essere quella di rinunciare a starci, insieme ai bambini. Di delegare la nostra presenza ad altri, così che noi possiamo “serenamente” occuparci del resto. Peccato che presto questi figli smetteranno di chiederci ascolto e presenza, smetteranno di avere cose da dirci, giochi da condividere, libri da farsi leggere. Speriamo che a noi e alle nostre responsabili vite da adulti, alla fine della giostra, non resti solo un gigantesco rimpianto.

18 Dicembre 2019 5 Commenti
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essere madre

Darvi al mondo

by Silvana Santo - Una mamma green 10 Aprile 2019

Lo sapevo, lo sapevo bene. Lo sapevo fin da prima che nasceste. Non sareste mai stati miei, o al limite lo sareste stati per un momento ineffabile e illusorio. I figli si mettono al mondo perché è al mondo che appartengono, ed è nel mondo che devono stare. Lo so adesso e l’ho sempre saputo. Ma non starò a dire, come ho letto o sentito spesso con una sicurezza tanto granitica e ostentata da sembrarmi finta, che darvi al mondo non faccia male, che sia un fatto semplice, addirittura naturale, che sia istintivo. Non lo è, non per me. Era bello tenervi dentro, nascosti allo sguardo degli altri ma ben presenti a vostra madre, e a lei soltanto, in ogni secondo del giorno e della notte. Era faticoso, atterriva, a tratti faceva male, ma riempiva il corpo, l’anima e le ore vuote. Era bello parlare una lingua cifrata che nessun altro poteva comprendere, riconoscere parole, gesti, vagiti, come in un alfabeto non verbale che noi stessi andavamo codificando un giorno dopo l’altro. È stato bello, per un tempo che mi è parso infinito e invece scopro essere già agli sgoccioli, rappresentare il vostro riferimento primo, e talvolta anche l’ultimo. L’orizzonte metaforico entro cui vi muovevate, a vostro agio, senza paura.

È stato come se, per la prima volta nella mia vita, io davvero non fossi mai sola.

Non fingerò che finora non sia stato gratificante sentirsi speciali ai vostri occhi, più di chiunque altro al mondo. Non ho intenzione di mentire, di censurare i miei sentimenti, perché non c’è ragione per cui io debba farlo. Non c’è colpa, non c’è vergogna in quello che sento. Si fanno i figli per l’istinto animale di lasciare al mondo qualcosa di noi, ma si fanno anche per regalare a se stessi un’esperienza prossima alla creazione. Un piccolo, quotidiano, delirio di divina onnipotenza del quale in pochi, tra i genitori, sono consapevoli, ma al quale in pochissimi riescono davvero a sottrarsi.

Non andrò raccontando, soprattutto a me stessa, che mi lascia indifferente vedervi diventare, ogni giorno di più, qualcosa che è altro da me, che da me si differenzia e prende distanze sempre maggiori. Lascio alle madri più illuminate, più contemporanee, più consapevoli di me questa narrazione edificante dell’amore gratuito, per pretesa o autentica che sia. Lascio ad altre il merito di resistere sempre e comunque alla delusione dell’aspettativa e alla tentazione della malinconia. Non tacerò la verità su quanto sia difficile riconoscere i segni estranei che il mondo sta già lasciando su di voi. Le parole che avete udito da altri e che andate ripetendo senza che io le capisca, gli scherzi da cui sono esclusa, le abitudini che avete acquisito senza condividerle con me. I bisogni che altri inducono in voi, le paure e i desideri che il mondo sta già seminando nei vostri piccoli cuori.

Il mio materno delirio di onnipotenza, se mai è cominciato, non è durato che un pugno di anni. La condizione intima ed esistenziale dell’umana solitudine si è presto ristabilita in seno alla mia vita. Io sono io e voi siete voi. Siete i miei figli, siete stati edificati con materia rubata al mio stesso corpo, col calcio e il fosforo e il ferro dilavati settimana dopo settimana dal mio stesso organismo. Alcune delle cellule che faranno parte di voi tutta la vita provengono direttamente dalla fabbrica del mio ventre. Siete stati nutriti dal mio sangue e dal mio latte prima, dal mio esempio traballante poi. Vi ho letteralmente costruito, un pezzo alla volta, per mesi e anni. Siamo plasmati della stessa materia, eppure voi siete voi e io sono io. E tutti noi apparteniamo al mondo.

Una volta ho letto che alcune cellule fetali restano per decenni dentro l’organismo delle rispettive madri. Microchimere, le chiamano. Come se io fossi diventata un essere mostruoso che in un certo senso è fatto anche di voi. Forse è questo il punto. Forse il punto è che voi non mi appartenete, ma sono io che oramai appartengo ai miei figli, in un legame che è un miracolo ma anche, non me ne vogliate, una specie di ergastolo sentimentale, morale e genetico. Farò quel che deve fare una madre, ho già cominciato a farlo dal momento stesso in cui siete nati. Darvi al mondo è quello che mi tocca, in qualche modo che è solo mio e diverso non può essere. Ma non crediate, nemmeno per un momento, che non sia maledettamente difficile.

10 Aprile 2019 3 Commenti
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Mi chiamo Silvana Santo e sono una giornalista, blogger e autrice, oltre che la mamma di Davide e Flavia.

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