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solitudine

essere madre

Darvi al mondo

by Silvana Santo - Una mamma green 10 Aprile 2019

Lo sapevo, lo sapevo bene. Lo sapevo fin da prima che nasceste. Non sareste mai stati miei, o al limite lo sareste stati per un momento ineffabile e illusorio. I figli si mettono al mondo perché è al mondo che appartengono, ed è nel mondo che devono stare. Lo so adesso e l’ho sempre saputo. Ma non starò a dire, come ho letto o sentito spesso con una sicurezza tanto granitica e ostentata da sembrarmi finta, che darvi al mondo non faccia male, che sia un fatto semplice, addirittura naturale, che sia istintivo. Non lo è, non per me. Era bello tenervi dentro, nascosti allo sguardo degli altri ma ben presenti a vostra madre, e a lei soltanto, in ogni secondo del giorno e della notte. Era faticoso, atterriva, a tratti faceva male, ma riempiva il corpo, l’anima e le ore vuote. Era bello parlare una lingua cifrata che nessun altro poteva comprendere, riconoscere parole, gesti, vagiti, come in un alfabeto non verbale che noi stessi andavamo codificando un giorno dopo l’altro. È stato bello, per un tempo che mi è parso infinito e invece scopro essere già agli sgoccioli, rappresentare il vostro riferimento primo, e talvolta anche l’ultimo. L’orizzonte metaforico entro cui vi muovevate, a vostro agio, senza paura.

È stato come se, per la prima volta nella mia vita, io davvero non fossi mai sola.

Non fingerò che finora non sia stato gratificante sentirsi speciali ai vostri occhi, più di chiunque altro al mondo. Non ho intenzione di mentire, di censurare i miei sentimenti, perché non c’è ragione per cui io debba farlo. Non c’è colpa, non c’è vergogna in quello che sento. Si fanno i figli per l’istinto animale di lasciare al mondo qualcosa di noi, ma si fanno anche per regalare a se stessi un’esperienza prossima alla creazione. Un piccolo, quotidiano, delirio di divina onnipotenza del quale in pochi, tra i genitori, sono consapevoli, ma al quale in pochissimi riescono davvero a sottrarsi.

Non andrò raccontando, soprattutto a me stessa, che mi lascia indifferente vedervi diventare, ogni giorno di più, qualcosa che è altro da me, che da me si differenzia e prende distanze sempre maggiori. Lascio alle madri più illuminate, più contemporanee, più consapevoli di me questa narrazione edificante dell’amore gratuito, per pretesa o autentica che sia. Lascio ad altre il merito di resistere sempre e comunque alla delusione dell’aspettativa e alla tentazione della malinconia. Non tacerò la verità su quanto sia difficile riconoscere i segni estranei che il mondo sta già lasciando su di voi. Le parole che avete udito da altri e che andate ripetendo senza che io le capisca, gli scherzi da cui sono esclusa, le abitudini che avete acquisito senza condividerle con me. I bisogni che altri inducono in voi, le paure e i desideri che il mondo sta già seminando nei vostri piccoli cuori.

Il mio materno delirio di onnipotenza, se mai è cominciato, non è durato che un pugno di anni. La condizione intima ed esistenziale dell’umana solitudine si è presto ristabilita in seno alla mia vita. Io sono io e voi siete voi. Siete i miei figli, siete stati edificati con materia rubata al mio stesso corpo, col calcio e il fosforo e il ferro dilavati settimana dopo settimana dal mio stesso organismo. Alcune delle cellule che faranno parte di voi tutta la vita provengono direttamente dalla fabbrica del mio ventre. Siete stati nutriti dal mio sangue e dal mio latte prima, dal mio esempio traballante poi. Vi ho letteralmente costruito, un pezzo alla volta, per mesi e anni. Siamo plasmati della stessa materia, eppure voi siete voi e io sono io. E tutti noi apparteniamo al mondo.

Una volta ho letto che alcune cellule fetali restano per decenni dentro l’organismo delle rispettive madri. Microchimere, le chiamano. Come se io fossi diventata un essere mostruoso che in un certo senso è fatto anche di voi. Forse è questo il punto. Forse il punto è che voi non mi appartenete, ma sono io che oramai appartengo ai miei figli, in un legame che è un miracolo ma anche, non me ne vogliate, una specie di ergastolo sentimentale, morale e genetico. Farò quel che deve fare una madre, ho già cominciato a farlo dal momento stesso in cui siete nati. Darvi al mondo è quello che mi tocca, in qualche modo che è solo mio e diverso non può essere. Ma non crediate, nemmeno per un momento, che non sia maledettamente difficile.

10 Aprile 2019 3 Commenti
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life

La molletta da bucato

by Silvana Santo - Una mamma green 25 Febbraio 2019

Ieri pomeriggio camminavo brevemente sotto casa, sola e a buona andatura. Guardavo in basso, un’abitudine che mantengo dall’infanzia, per quello che posso ricordare. A un certo punto ho arrestato il mio cammino e sono tornata sui miei passi per raccogliere una molletta da bucato abbandonata sul marciapiedi. Evidentemente precipitata da un balcone, era un po’ malconcia ma ancora salvabile, pulita nonostante la tempesta di vento dei giorni scorsi. Una molletta bianca. L’ho recuperata e l’ho portata a casa, riponendola nel cestino di plastica appeso alla ringhiera della cameretta. L’ho fatto per un moto incontenibile di senso pratico: le mollette in casa nostra servono sempre: ne perdo a dozzine, quando stendo il bucato. Ogni volta mi accorgo che stanno per sfuggirmi giusto un attimo prima che le mie dita perdano la presa, ma non riesco mai a salvarle, e le osservo precipitare con un pizzico di sgomento, finché non si schiantano al suolo contro l’asfalto malridotto del viale sotto il mio balcone.

Così, quando ne trovo in giro, le prendo e me le metto in tasca, per rimpinguare almeno in parte il nostro parco mollette domestico, e anche per eliminare un rifiuto dalla strada. Ma ieri sono tornata indietro a raccogliere quella molletta bianca anche per un’altra ragione, del tutto irrazionale e forse anche un poco puerile. Mi ha fatto pena, perduta e abbandonata, un pochino malridotta eppure ancora salvabile. Mi sono sentita come quando ero piccola, e riconoscevo ai giocattoli, ma anche a tanti oggetti di uso comune, una dignitià al limite dell’umano. Ho adottato la molletta randagia e le ho dato una casa nuova. Un senso, una famiglia.

Forse è che ogni tanto, da un arco temporale che ormai dovrei smettere di definire “da un po’ di tempo”, mi capita di sentirmi come mi è parso che si dovesse sentire quella molletta perduta ieri pomeriggio. E vorrei che qualcuno fosse disposto a tornare suo suoi passi per raccattarmi dalla strada e portarmi altrove. Che mi dicesse, anche senza parlare, che in fondo posso ancora funzionare. Che mi piazzasse in un cestino di plastica pieno di altre mollette esattamente uguali a me. Molletta tra le mollette, che condivono la funzione e un destino incerto e a tratti avventuroso.

Magari è solo che devo smettere di guardare in basso quando cammino. Oppure comprarmi un’asciugatrice.

25 Febbraio 2019 6 Commenti
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life

Pomeriggio d’inverno, in una casa sconosciuta

by Silvana Santo - Una mamma green 15 Febbraio 2019

Se metteste piede in casa mia in uno qualsiasi di questi pomeriggi d’inverno, trovereste la cucina in ordine e le candele accese. L’acquaio già sgombro delle stoviglie della colazione e del pranzo condiviso poche ore prima col mio figlio maggiore. Il bollitore sul fuoco e la mia tazza in terracotta, ricordo di un lontano viaggio in Bretagna, già pronta con tè al gelsomino, zucchero di canna e un goccio di latte. I cuscini di velluto nero sul microscopico divano grigio di Ikea, le scarpe allineate nel mobiletto all’ingresso, il gatto addormentato placidamente su una superficie a caso. Notereste, dopo qualche passo, una fila di piccole luci a forma di stella appese su foto in bianco e nero che raccontano di quando i figli erano neonati, di quando i loro genitori erano più giovani, di certi posti speciali scoperti viaggiando. Una copia del mio libro discretamente in mostra su una delle librerie, rari souvenir artigianali acquistati durante le vacanze e, poco lontano, il mio computer ancora acceso sul lavoro del giorno, qualche file ancora da chiudere, finestre aperte su siti e messaggi elettronici.

Se entraste in casa mia in uno qualsiasi di questi pomeriggi d’inverno, probabilmente pensereste a me come a qualcuno da invidiare. Una donna realizzata, appagata, con una vita piena e in equilibrio tra la famiglia, il lavoro, le esigenze personali. Pensereste forse che sono stata brava, e di certo che ho avuto fortuna. Magari, addirittura, riconoscereste in me una specie di modello da imitare, qualcuno a cui ispirarsi come spesso mi scrivete di fare dopo la lettura del mio blog.

E in effetti, non avrei molti elementi per smentire il visitatore casuale e sconosciuto che si trovasse ad avere questa sensazione entrando in casa mia. Quella che conduco è realmente una vita piena, privilegiata e serena. Una vita benestante e semplice, una vita “da invidiare” o, vista da chi ci sta dentro, una vita per cui ringraziare.

Eppure.

Il lavoro che faccio è sottopagato e intrinsecamente, irreparabilmente, precario, e la serenità economica su cui posso contare non si deve certo miei meriti. La frustrazione, il rimpianto, la vergogna sono minacce che incombono di continuo, soprattutto nei casuali risvegli notturni, quando gli spettri si radunano nel buio a ulularti le loro oscenità.

La coppia quasi ventennale di cui faccio parte deve fronteggiare di continuo le sfide della stanchezza, dello stress, della routine asfissiante del quotidiano, della distanza che il tempo sembra a volte aver tracciato tra gli individui che la compongono. Deve, soprattutto, imparare ogni giorno ad essere una coppia decente di genitori, inventando compromessi, ricomponendo divisioni, facendo fronte comune laddove la tentazione fortissima sarebbe quella di scagliarsi l’uno contro l’altra. Divisi e lontani invece che complici e compagni.

I figli per i quali cerco di fare ogni giorno del mio meglio sono spesso preda della rabbia, della paura, dell’insicurezza e di una gelosia reciproca dilaniante che li fa litigare ogni giorno per le ragioni più improbabili.

La città in cui vivo non mi piace. La casa in cui abito è disperatamente piccola. Il mio gatto è obeso e mordace, viziato all’inverosimile per quanto riguarda il cibo e molto aggressivo quando ha fame. La famiglia in cui sono cresciuta, come tutte, paga un dazio pesante alla vecchiaia, alla malattia, alla fatica e alle incomprensioni. I miei veri amici si contano sulle dita di una mano sola, le persone con cui riesco ancora a parlare delle cose che mi interessano sono forse ancora meno. Spesso mi sento sola, non nel senso di “poco amata” ma di intimamente incompresa, e non certo per colpa degli altri. So cucinare poche cose, e non sempre ho voglia di farlo, dovrei lavarmi più spesso i capelli e tenere la mia casa decisamente più pulita.

Le vite degli altri sembrano sempre lustre. Patinate, lineari, ciambelle col buco perfetto, torte lievitate a meraviglia e sfornate al punto di doratura ideale. Le vite degli altri, specie se le conosciamo appena, o le osserviamo ignari dai social, ci sembrano sempre più felici, più fortunate, più appaganti della nostra. Ci sembrano il risultato di azioni più sagge, di scelte più coraggiose, di strategie più lungimiranti di quelle che hanno guidato la nostra esistenza. E di una dose di fortuna che a noi, al contrario, non è stata riservata. Ma la verità è diversa. Nessuna vita è facile, nessuna famiglia è perfetta, nessuna persona – a meno che non sia del tutto inconsapevole o capace di mentire a se stessa – può dirsi completamente priva di rimpianti e di sogni spezzati.

Ricordatevelo, se vi dovesse capitare di affacciarvi all’improvviso, in un pomeriggio d’inverno, in una casa sconosciuta.

15 Febbraio 2019 2 Commenti
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essere madre

Mai abbastanza

by Silvana Santo - Una mamma green 6 Febbraio 2019

Mi capita, ogni tanto, di sentirmi così, di sentire che non sono mai abbastanza. Che non è abbastanza ciò che faccio, non è abbastanza quello che do, anche se a tratti è molto più di quanto pensavo di avere. Di sentire che io, in fondo, non sono mai abbastanza.

Non guadagno mai abbastanza, non lavoro mai abbastanza, non produco mai abbastanza. Non è abbastanza quello che sono riuscita a raggiungere finora, nonostante le premesse che c’erano, il potenziale che avevo, gli strumenti con cui sono nata e quelli che mi sono stati dati negli anni. La lavoratrice, la professionista che sono, non è mai abbastanza, e mai probabilmente lo sarà.

Mai abbastanza come moglie. Mai abbastanza per un marito che ce la mette tutta ma che a sua volta sente di non essere mai abbastanza per me. E che in fondo, forse, ha ragione a sentirsi come io lo faccio sentire. Sono una moglie mai abbastanza empatica, mai abbastanza presente, mai abbastanza complice, mai abbastanza positiva e soddisfatta.

Mai abbastanza come figlia. Sempre in fuga, sempre chiusa, sempre dura. Sempre arroccata dentro i muri che mi salvano dalle mie stesse insicurezze. Dalla sensazione di non essere, in fondo, mai abbastanza.

Mai abbastanza come madre, manco a dirlo. Mai abbastanza paziente, mai abbastanza lucida, mai abbastanza capace di amare senza condizioni, senza pretese, senza distinguo. Anche quando sento che ho preso la mia vita e l’ho consegnata alla madre che un giorno sono diventata, anche quando mi sembra che sto dando più del mio più, più del mio meglio, più del tutto ciò che sono ciò che ho dentro (evidentemente la risposta è che non sono mai abbastanza).

Mai abbastanza come donna, come persona, come individuo. Arresa alla stanchezza, alla solitudine, all’incomunicabilità. Mai abbastanza come cittadina, paralizzata dall’impotenza e dallo sgomento per l’odio che dilaga, per il delirio nazionalista, per la liturgia dell’arroganza e della forza bruta celebrata ogni giorno sui social e non solo. Mai abbastanza come amica, troppo impegnata a stare a galla per riuscire a dare qualcosa anche agli altri. Per sentirmi appena brillante, socievole, di compagnia. Per ritenere raggiunto il minimo sindacale di “atteggiamento positivo”, che sembra una formula magica indispensabile per sentirsi accettabili. Mai abbastanza come cugina, come nipote, come nuora, come collega e vicina di casa. Mai abbastanza finanche come proprietaria di un gatto, che è troppo grasso, troppo pigro e troppo annoiato per colpa di quello che io non faccio per lui.

Non so da dove arriva questa mia incapacità di guardarmi e dirmi che va bene così. Che sono brava, tutto sommato, e non per quello che riesco a fare, a dare, a ottenere in cambio. Ma perché ogni cosa che faccio la penso prima almeno cento volte, e quando la sbaglio è perché non avrei saputo fare diversamente, e dopo in ogni caso sono disposta a chiedere scusa, e a cercare un rimedio. Non so da dove arriva, ma è la mia compagna più fedele da tanti di quegli anni che neanche me li ricordo più. Una compagna che mi guarda fisso e poi mi dice piano, tranquilla: “Mi dispiace, ma non sei mai abbastanza”.

6 Febbraio 2019 6 Commenti
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essere madre

Tra le mie braccia

by Silvana Santo - Una mamma green 6 Novembre 2018

Qualche tempo fa, Davide mi ha chiesto di prenderlo in braccio per riuscire a scorgere qualcosa che era troppo in alto per lui. Non ricordo cosa ci tenesse tanto a guardare, ma questo adesso non ha nessuna importanza. Il punto è che ho fatto fatica a sollevarlo, più di tutte le volte precedenti, e ho realizzato che un giorno, nemmeno troppo lontano, lo prenderò in braccio per l’ultima volta, senza sapere che sarà stata l’ultima. È struggente, questa transitorietà di gesti che pure sono così familiari e quotidiani per una parte della nostra vita. L’ineluttabilità del tempo che passa, l’irreversibilità dei cambiamenti che avvengono sotto i nostri occhi, senza che ne abbiamo reale coscienza. L’imprevedibilità completa di quello che sarà, pur nell’ambito di un cammino comune a miliardi di esseri umani sulla Terra.

Essere madri e padri è un’esperienza intensa e totalizzante al punto da farti perdere di vista il senso della prospettiva. Quello che stai vivendo è talmente grande, e impegnativo, e assoluto, che in qualche modo sembra destinato a durare in eterno. E invece tuo figlio non resta neonato che per un pugno di settimane, solo in apparenza “interminabili”. E diventerà grande al punto che un giorno, senza alcun preavviso, non riuscirai più a prenderlo in braccio, ammesso che lui te lo chieda ancora.

Mi chiedo come abbia fatto a estinguersi quel tempo così ovattato che sembrava non passare mai. Che ne sia stato di quei pomeriggi lentissimi e di quelle notti senza alba, dove sia finita la me che guardava il grande orologio della cucina a intervalli che le sembravano eterni, per scoprire che invece erano trascorsi appena dieci minuti. Forse avrei dovuto vivere diversamente la prima infanzia del mio primogenito. Sprecare meno energie a occuparmi di cose trascurabili, difendere me stessa (e quindi mio figlio) da tanta sofferenza inutile, evitabile, senza senso. Forse avrei dovuto essere più consapevole, più matura, più libera. Forse. Adesso non ha alcuna importanza.

Sono sicura, se non altro, di aver preso in braccio mio figlio tutte le volte che ne ha avuto bisogno, o che ne ho avuto voglia io. Verrà il giorno in cui non riuscirò più a tenerlo tra le braccia, e sarà strano rendersene conto, inevitabilmente a posteriori. Ma quel giorno, mi auguro, potrò guardare indietro e ripensare a tutte le volte in cui l’ho sollevato e mi sono fatta carico del suo peso oltre che del mio. Potrò guardare indietro a cuor leggero, senza rimpianti.

6 Novembre 2018 2 Commenti
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gravidanza e parto

Perché ho taciuto a tutti la mia seconda gravidanza

by Silvana Santo - Una mamma green 29 Giugno 2018

Ho taciuto la mia seconda gravidanza per oltre quattro mesi. Neanche mia madre, né le cugine che sono per me delle sorelle, sapevano che fossi di nuovo incinta. Una scelta che non tutti hanno compreso, e che qualcuno ha ritenuto sgradevole, se non proprio offensiva.

Ma le ragioni che l’hanno pretesa, quella decisione, sono tante. E per me sono state imprescindibili, all’epoca. Una riservatezza di fondo (sì, anche per una che ha un blog con tanti lettori), i viaggi in programma (e la volontà di evitare i commenti preoccupati e ansiogeni dei parenti), la necessità di proteggermi da eventuali battute (innocenti, ma per me potenzialmente dolorose) sul fatto che Davide allora aveva appena un anno. La voglia, soprattutto, di schivare la miriade di commenti, considerazioni, consigli e testimonianze che, per quanto tutti in ottima fede, avevano reso molto faticosa la mia prima gravidanza.

Perché la verità è che aspettare Davide, per me, è stato assai difficile sul piano emotivo. Anche se mio figlio era stato cercato, anche se io mi sentivo bene ed ero nelle condizioni ideali per diventare madre. La verità è che la mia prima gravidanza mi ha spalancato sotto i piedi una botola profondissima, che affacciava sulle mie insicurezze più oscure, su paure che mai avevo provato e dalle quali, forse, non riuscirò mai più a liberarmi del tutto. La mia prima gravidanza ha fatto venire al pettine tutti i nodi aggrovigliati dentro di me, inclusi quelli che non sapevo di avere, ha esposto al sole e al vento la pelle ancora scottata dalle esperienze del passato, da certi errori, da certi rapporti tossici e da tante, troppe pene autoinflitte. La verità è che ritrovarmi con un figlio attaccato per l’ombelico ha riaperto dolorosamente tutti gli ombelichi che avevo dovuto annodare nella mia vita. Ha riaperto metaforicamente il nodo che mi aveva separato da mia madre, tanti anni prima. Mi ha scaraventato nel pozzo nero delle mie fragilità. Sono stata male. Oppressa dall’angoscia e dalla solitudine. Ossessionata da paure inconfessabili. Depressa, forse. Incapace di difendermi da certe situazioni, da certe parole, da certe considerazioni che mi  riempivano la testa di fantasmi che non sono più riuscita a scacciare.

Così, la seconda volta, ho deciso di proteggere me stessa e il figlio che avevo nella pancia nell’unico modo che in quel momento mi sembrava possibile: chiudendomi in me stessa. Per qualcuno, quel lungo silenzio è stata una mancanza di fiducia, per altri l’esclusione del prossimo dalla mia felicità. Per me, semplicemente, è stata la scelta più istintiva per evitarmi preoccupazioni e paranoie superflue che, conoscendomi, non avrei saputo scansare in altro modo.

E ha funzionato, in qualche modo. Quelli in cui ho aspettato Flavia sono stati mesi di serenità e positività, nonostante la preoccupazione per una gravidanza così ravvicinata alla nascita del primo figlio. Mi sono serviti per ascoltare, nel silenzio totale, la mia voce. E per entrare in contatto con mia figlia senza interferenze. Mi hanno restituito una parte dell’esperienza che non avevo avuto la volta precedente, mi hanno permesso di acquisire un minimo di fiducia in me stessa e di autocontrollo. Lo rifarei senza esitare, nonostante le critiche, e qualche perdita, che mi è costato.

Le scelte degli altri, a volte, ci sembrano incomprensibili, se non addirittura esecrabili. Ma spesso è solo che non siamo in grado di intuirne le ragioni profonde.

29 Giugno 2018 3 Commenti
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life

Le vite degli altri

by Silvana Santo - Una mamma green 13 Aprile 2018

Le osservo da lontano, le vite degli altri. Allungando lo sguardo dietro i vetri sporchi della mia frustrazione. Della mia solitudine. Della mia diversità. Le guardo attraverso il filtro dei social network e dell’ipocrisia inconsapevole e dilagante. Le vite degli altri, smaglianti, rettilinee. Vite col punto esclamativo. Le guardo senza invidia, con la curiosità di un alieno piovuto dal cielo. Le guardo chiedendomi come sarebbe stato viverle, le vite degli altri. Come mi starebbero addosso, come starei io se fossi in una qualsiasi di quelle vite.

Le vite degli altri, così ingannevolmente tra loro e così, solo in apparenza, diverse dalla mia. Le vite degli altri, che in realtà sono un mistero enorme, come ogni umana esistenza. Le vite degli altri, piene di miseria e di fulgore, piene di tremiti e di perché, anche se su Facebook non si vede, anche se quando chiedi “Come stai?” tutti rispondono invariabilmente che stanno bene. Tutto a meraviglia. Le vite degli altri, che sono spettacolari e tremende, torride e gelate, faticose e morbide quanto quella che ogni giorno mi invento io, anche se da lontano non si vede. Forse, almeno credo. Mi conviene ripetermi che è così.

Le vite degli altri, che osservo a distanza senza capire, senza sapere. Sfiorandole appena, lontana e impassibile. Le vite di quegli altri che, magari, guardano me dalla stessa distanza e pensano che mi sia andata meglio che a loro. Che io sia più brava, più felice, più fortunata. Le vite di quegli altri che (si) raccontano ogni giorno quello che è più facile raccontare, che provano a convincersi e che magari ci riescono pure, molto meglio di quanto saprei mai fare io con me stessa.

Le vite degli altri, che forse sembrano quello che non sono, o che magari finiscono con essere quello che dovrebbero sembrare. Le vite degli altri con cui, stupidamente, continuo a misurarmi dal basso delle mie giornate storte, senza elementi, senza argomenti, senza diritti. Le vite degli altri, di cui non so nulla, se non che non sono come appaiono a me, e forse neanche come chi le sta vivendo crede che siano. Le vite degli altri, così uguali alla mia, così differenti. Così perfette e così disperate. Le vite degli altri, la mia vita, la vita e basta.

13 Aprile 2018 4 Commenti
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essere madre

Perché le madri hanno paura della verità?

by Silvana Santo - Una mamma green 6 Aprile 2018

Ci ho messo molto tempo, a capirlo. Da persona che raramente dice bugie, tendo sempre a dare per scontato che neanche gli altri mentano mai. Beata ingenuità. Ma poi, piano piano, ho cominciato a rendermi conto che per alcune persone è relativamente normale omettere la verità, o mistificarla, edulcorarla o addirittura trasformarla. Non per cattiveria, ci mancherebbe: in molti casi si mente anche a se stessi, senza neanche esserne del tutto consapevoli. E anche le mamme, qualche volta, hanno paura della verità.

Le mamme paura di dirla agli altri, la verità. E forse anche di dirla a se stesse. Perché riconoscere che un figlio non è solo l’amore-più-grande, ma anche, ogni tanto, una grande rottura di palle, espone al giudizio dei benpensanti (che spesso sono altre madri, magari più stagionate) e in qualche modo al giudizio di se stesse. E allora si fa prima a dichiarare al mondo di “aver cominciato a vivere davvero solo in sala parto”. Come se poi fosse qualcosa di cui gioire, tra parentesi. Perché dire che tuo figlio si sveglia cinquanta volte per notte, o che fa dei capricci degni di un Gremlin incazzato potrebbe lasciare trapelare la tua incapacità di madre. La tua responsabilità, la tua debolezza, la tua inettitudine a educare il tuo bambino. O, ancora peggio, potrebbe dare l’impressione che tu “stia criticando” tuo figlio, che non lo ami abbastanza, che pensi di lui ogni male. E allora conviene far sapere a tutti che il pupo “è tranquillissimo”, che dorme da solo tutta la notte da quando aveva 13 giorni. Così tutti sapranno che lui è bene educato e che tu sei una brava madre. Tutti, inclusa te stessa.

Se tuo figlio va male a scuola, è meglio dire che “è uno spirito libero, un creativo”, o che ha delle maestre che non lo capiscono. Se partite per un viaggio e lui piange tutti i giorni, conviene riferire che “è andato tutto a meraviglia” e che lui “è stato bravissimo”. Se il rapporto di coppia, dopo la maternità, è diventato più difficile, piuttosto che ammetterlo è sempre meglio affidare ai Social il ritratto di una passione inossidabile e smagliante. Se non sopporti tua suocera, è più opportuno dire in giro che non le fai vedere tuo figlio perché “quando aveva 4 mesi gli ha dato il cioccolato fondente”. E se un giorno hai la sacrosanta voglia di uscire senza bambini, è preferibile che il mondo sappia che “ti obblighi a farlo perché loro non devono dipendere da me”. Se vuoi mantenere il tuo lavoro full time perché ti fa sentire realizzata (e perché stare molte ore con tuo figlio ti manderebbe al manicomio), è meglio non dirlo a chiare lettere, e dichiarare con aria compunta che sei obbligata dalle necessità economiche.

La più vera delle verità è che le mamme, per qualche ragione collegata con la pressione sociale e il timore del giudizio altrui e di quello proprio, hanno spesso paura della verità (e concedetemi il mediocre gioco di parole). E forse, a ben guardare, ne hanno paura un po’ tutti. Sia mai dire cose sgradevoli, impopolari, negative. Sia mai essere sinceri.

Pesi 45 chili? Mica fai la fame, è che hai il “metabolismo veloce”.
Puoi permetterti un alto tenore di vita? Non è che sei benestante, sei “bravo a risparmiare”.

E così via, ovviamente con le dovute eccezioni. Abbiamo troppa paura. Paura di non essere all’altezza, paura di essere “meno degli altri”: meno bravi, meno realizzati, meno felici, meno in gamba. Paura che qualcuno lo insinui, e in qualche modo riesca a convincere anche noi. Paura che la nostra vita non sia mai abbastanza, che noi non siamo mai abbastanza. Stentiamo ad ammettere cose che invece sono del tutto normali, universali, fisiologiche. E per le quali non ci sarebbe davvero nulla di cui vergognarsi.

Beh, ve la dico io, la verità. La vita perfetta non esiste. La felicità granitica non esiste. Non esistono le coppie che non vacillano mai, o i bambini da manuale, o le vacanze senza il minimo imprevisto. E chi vi racconta il contrario, semplicemente, sta mentendo. Di solito anche a se stesso.

6 Aprile 2018 4 Commenti
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essere madre

Le mamme ce la fanno

by Silvana Santo - Una mamma green 10 Ottobre 2017

Le mamme ce la fanno sempre. Anche quando sono convinte di non avere più energia, di essere troppo stanche, troppo sole, troppo spaventate. Anche quando pensano di essere al limite. Le mamme ce la fanno.

Magari si lamentano, protestano, piangono, ma alla fine fanno quello che devono fare e vanno avanti. Affrontando quello che viene, anche se mai avrebbero pensato di avere tanta forza da qualche parte in fondo al cuore.

Comincia col travaglio. Fa male, fa sempre più male, non hai idea di quando finirà, e a un certo punto pensi che no, tu non ce la puoi fare. E invece stringi i denti e in qualche modo ce la fai. Torni a casa con quel microscopico umano delicato e incomprensibile, pensi alla mole di cose che dovrai imparare per occuparti di lui, lo senti piangere per qualche ragione che ti è ancora oscura, e ti dici che è troppo, che tu non ce la puoi fare.

Ma poi lo farai, esattamente come tutte le altre mamme dalla notte dei tempi. E sarà fatica, ma soprattutto amore. Arrivano le notti senza sonno, i pianti a oltranza, i malanni, i capricci estenuanti. Le infinite prime volte che sembrano altrettante sfide insuperabili, e invece le affronti una ad una e vai avanti. Ce la fai. Ce la fai sempre.

L’asticella delle mamme si sposta semplicemente a seconda di quello che c’è da fare, e le mamme la saltano e basta, in scioltezza o in affanno, con un balzo o dopo qualche schianto. Poco importa. Cercare una gravidanza per anni, una delusione dopo l’altra. Affrontare una gestazione complicata, accettare il fatto che una gravidanza, invece, non ci sarà mai. Resistere settimane intere davanti a un’incubatrice. Tenere un neonato disperato in braccio per un’ora, poi due, poi cinque. Uscire con due figli piccoli e febbricitanti sotto il diluvio, perché bisogna correre dal medico. Fare un lungo viaggio in solitudine con un neonato. Reggere una notte intera senza dormire, e poi un’altra e un’altra ancora. Sopportare una malattia, un ricovero, un abbandono o addirittura un lutto. Crescere un bambino da sola, per qualche mese o per anni interi. Riuscire a far quadrare i conti, conciliare il lavoro e la famiglia, incastrando turni, treni, tate e parenti. Un giorno dopo l’altro, per settimane, mesi e lustri.

Pensare, ogni tanto, che basta, la stanchezza stavolta ha avuto la meglio. Che i problemi, le responsabilità e la paura sono più forti, sono insostenibili. E scoprire a sera che, invece, quello che andava fatto è stato fatto. Come il giorno prima e quello prima ancora. Le mamme pensano di continuo che non ce la fanno più, ma poi ce la fanno, tutte loro. Le mamme ce la fanno sempre.

10 Ottobre 2017 5 Commenti
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life

L’amicizia ai tempi della maternità

by Silvana Santo - Una mamma green 26 Giugno 2017

Diventi mamma, all’improvviso – anche se hai passato nove mesi ad aspettarlo, tuo figlio, è pur sempre un cataclisma – e quello che era sempre stato normale, ordinario, più o meno facile, diventa nuovo e complicato.

Metti l’amicizia, per esempio.

Ci sei tu. Che non sai bene chi sei, cosa vuoi, cosa sai. Anche se nei momenti migliori ti sembra di riconoscerti, da qualche parte nascosta sotto la confusione, la stanchezza, le sorprese e l’emozione che ti coglie quando tutto il resto arretra. Ci sei tu, che devi imparare tutto, e magari ti vergogni dei tuoi sbagli, dei tuoi limiti. Delle cose che prima avevi ritenuto facili e che invece adesso non ti riescono bene, per quanto ti sforzi fino a farti dolere il cervello e lacrimare gli occhi. Ci sei tu, che magari non sei la madre che ti aspettavi, e che forse si aspettavano i tuoi amici. Che ti senti tradita da te stessa, perché non ti comporti come avevi previsto di fare, perché sei cambiata senza preavviso. Che hai disatteso in qualche modo le aspettative tue e non solo le tue. E allora hai paura di mostrarti, di rivelarti, di esprimerti. Perché se neanche tu sei più in grado di capire te stessa, di perdonarti, di amarti; se neanche tu stessa sei sicura di riconoscerti e di piacerti ancora, come potranno mai capirti gli altri? Come potranno amarti, adesso che sei cambiata in un modo così inatteso?

Ci sei tu, e c’è tuo figlio. Che magari è diverso da come lo avevi immaginato, che ha bisogno di cose che tu non avevi previsto, nonostante i corsi, i libri, i forum online. Che a volte stenti a capire, anche se l’hai portato dentro e partorito e allattato ogni giorno da quando è nato. C’è tuo figlio, che costa fatica. E richiede un impegno spasmodico e ininterrotto. E piange, e puzza, e urla e pesa e non dorme mai. Che non è come tu e i tuoi amici davate per scontato che siano i bambini, prima. E forse non è neanche così bello come pare che siano tutti i neonati del mondo. E se non sei in grado di capirlo tu, quel bambino che è sangue del tuo sangue; se a te stessa costa grandi sforzi, a volte, sopportare il suo pianto che sembra non conoscere ristoro, come potranno amarlo gli altri, che magari figli non ne hanno e neanche ne hanno mai voluti?

Ci sei tu, c’è tuo figlio e c’è suo padre. Che forse è più stanco di te, e quando vostro figlio dorme vuole solo silenzio e pace. Che si è trovato travolto quanto e più di te, e vorrebbe solo imparare a conoscere il bambino che avete fatto insieme. Ma ha bisogno di tempo, di tranquillità. Di fiducia. E non riesce ad avere persone intorno. Anche se le ama. Che trova conforto ed evasione nel lavoro, e magari non coglie fino in fondo la solitudine della sua donna, che il lavoro lo ha lasciato – temporaneamente o meno – per occuparsi del neonato.

Ci sei tu, c’è tuo figlio, c’è suo padre. E ci sono loro, i tuoi amici e le tue amiche. Che magari non sono genitori, oppure sono genitori molto diversi da te. O ancora non lo saranno mai, perché i bambini non fanno parte del loro progetto di vita. Che ti hanno conosciuto e amato per quello che eri prima, e non è detto che continuino ad amare quello che sei adesso. Che prima condividevano le tue certezze su come si crescono i figli e su come dev’essere un genitore, solo che ora tu non ne hai neanche una, di certezze residue. Perché le hai sovvertite tu stessa. Le hai sgretolate. Polverizzate di fronte a tuo figlio, che ti ha pretesa nuova e disperatamente sua. E hai paura di averli delusi, traditi, offesi, quegli amici che ti immaginavano diversa. Che il riflesso di te che rimandano i loro occhi sia inaccettabile per te stessa, e quindi anche per gli altri.

Ci sei tu, c’è tuo figlio, c’è suo padre, ci sono i tuoi amici e le tue amiche. E ci sono la stanchezza, il sonno, il lavoro, i soldi. La difficoltà, a volte, di incontrarsi a metà strada, di tendersi la mano, di aspettarsi a vicenda. Ci sono la pigrizia, la diffidenza, la paura. La fragilità e gli errori reciproci. Silenzi assordanti e parole di troppo. Cose non dette e cose che sarebbe stato molto meglio tacere. Nodi che forse erano stati stretti molto tempo prima, e che adesso non si riesce più a sciogliere neanche a tirare con le unghie da una parte e dall’altra.

Poi c’è il tempo che passa e ti restituisce te stessa.

A volte anche gli amici, altre volte no. Ma anche questo è la vita. Annodare l’ennesimo ombelico e andare. Senza rimpianto, senza rimorso, senza rancore.

26 Giugno 2017 3 Commenti
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Mi chiamo Silvana Santo e sono una giornalista, blogger e autrice, oltre che la mamma di Davide e Flavia.

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