Il mio coming out sulla quarantena

Mi chiedo da settimane se scrivere questo post sia opportuno. Se sia rispettoso di chi attraversa il lutto o sopporta la malattia. Se sia fraintendibile o potenzialmente offensivo per tanti. Ma quello che mi guida sempre, nello scrivere e non solo, è l’autenticità. Se dico il vero – mi racconto sempre – e se lo dico con il cuore in mano e con rispetto, non sarò equivocata. E magari qualcuno potrà riflettere le proprie emozioni nelle mie, sentendosi meno solo e meno sbagliato (come spesso, con una generosità che non smette mai di sorprendermi, mi scrivete).

Ed eccola qui, dunque, la mia verità per certi versi inconfessabile, e che in parte ho già lasciato trapelare in qualche altro post. Il fatto è che, se non fosse per la ragione funesta, straziante e inconcepibile che ci ha costretti alla chiusura e all’isolamento; se non fosse per l’ansia strisciante e per il dolore insostenibile per chi ha perso la vita o una persona amata in questa sciagurata epidemia; se non fosse insomma che a rivoluzionare le nostre esistenze sia stato un fattore mortifero e atroce, penserei che l’esperienza che stiamo vivendo non sia poi così negativa.

Anzi, ammetto che, se da una parte pensare alla “riapertura” mi fa provare un indicibile sollievo – perché vorrà dire che la furia del contagio sarà ormai alle spalle, che le persone avranno smesso di morire e di stare male, che il sistema sanitario avrà ripreso fiato (e con loro medici, infermieri, addetti alle pulizie, ma anche commessi, cassieri, trasportatori, farmacisti e tante altre categorie di lavoratori), vorrà che potremo magari ridimensionare la preoccupazione per noi stessi e soprattutto per le persone che amiamo, che in tanti potranno finalmente tornare a lavorare e guadagnare – dall’altra sono, ed è questo il mio coming out, in qualche modo atterrita dalla prospettiva della “ripresa”.

Perché se mi mancano, come credo a tutti, i contatti e gli abbracci con le persone che amo, se mi mancano, ovviamente, la libertà di andare in giro, di stare al sole, di frequentare spiagge, parchi, boschi, ma anche teatri, musei, laboratori e cinema, se mi manca la possibilità di viaggiare o almeno di sognare di farlo, ci sono anche tante cose della “vita di prima” che in tutta onestà non mi mancano affatto.

Non mi manca lo stress quotidiano, non mi mancano le scadenze che si rincorrono, i ritardi che si accumulano, i sensi di colpa che si inseguono. Lo sprone sempre battuto all’indirizzo dei figli – Sveglia! Alzati! Muoviti! Più veloce! Fai presto! – il tempo sempre risicato, se non proprio inesistente, per fare qualsiasi cosa che non entri nel novero dei miei “doveri” (di madre, di lavoratrice autonoma, di moglie, di figlia, etc). Non mi manca la rinuncia forzata all’ennesima lettura della sera, l’impossibilità di concedersi cinque minuti per dare ai bambini una risposta più compiuta, più empatica, più ragionevole. Per indulgere in un abbraccio e fare un sospiro in più prima di cedere alla frustrazione e alla rabbia.

Non mi mancano gli obblighi sociali imprescindibili, il non potermi sottrarre, talvolta, alla frequentazione di persone con cui non mi trovo a mio agio. Non mi manca la corsa quotidiana tra scuola, pasti, compiti, sport, lavoro, pulizie, adempimenti burocratici, feste di compleanno, parenti etc etc etc. Non mi manca mangiare sempre le stesse cose, per ridurre al minimo gli sforzi nell’economia di giornate in cui nulla, in termini di tempo, risorse e progettualità, può essere lasciato al caso. Non mi manca, soprattutto, il ritrovare mio marito solo a sera, e finire con l’investirlo con una serie di comunicazioni serrate, che spesso si riducono a sfoghi, richieste di aiuto, recriminazioni o peggio a una sequenza di incombenze da suddividere in fretta tra di noi nel modo più efficiente possibile. Non mi manca l’impossibilità materiale di condividere con lui il quotidiano, la fatica banale e sempre identica della tavola da apparecchiare anche per il pranzo, dei piatti sporchi da lavare, dei compiti da supervisionare, del bucato da stendere e da ritirare (una fatica che alla quale ero già avvezza prima del lockdown e alla quale tornerò anche quando la quarantena sarà finalmente conclusa).

E non mi manca, soprattutto, la responsabilità costante e pesantissima delle mie decisioni, delle mie azioni e delle loro conseguenze sugli altri. La chiusura forzata, la limitazione della mia libertà con tutte le sue variabili e implicazioni, mi hanno in un certo senso liberato da me stessa. Mi hanno sollevato dall’ansia di dover scegliere continuamente per il meglio, di fare sempre e comunque “la cosa giusta”, alleggerendomi, almeno in parte, dalla zavorra dei sensi di colpa che mi trascino dietro da tutta la vita. Mi hanno sottratto temporaneamente dal confronto con gli altri, dal quale sento di uscire sempre colpevolmente sconfitta. Mi hanno imposto un’indulgenza nei miei stessi confronti che mai ero riuscita a concedermi: se non faccio tutto quello che dovrei, se non riesco a stare dietro a tutto, se non rispondo alle altrui aspettative, se non sono “abbastanza”, questa volta – per una volta! – la colpa in fondo non mia. Il lockdown, in qualche modo, mi ha obbligato, finalmente, a perdonarmi.

Non che io desideri restare reclusa e isolata per sempre, ci mancherebbe. Non lo vorrei nemmeno se la causa di queste misure non fosse così insopportabilmente drammatica e ansiogena come la pandemia mortale che stiamo sopportando. Ma non desidero nemmeno, quando sarà, riprendere pedissequamente la vita che facevo prima. Non mi illudo di potermi lasciare alle spalle, assieme alla quarantena, tutte le cose che prima mi facevano soffrire e che in queste settimane non mi sono mancate per niente. Ma vorrei comunque riuscire a dare un senso a questa esperienza straniante e dolorosa migliorando la mia esistenza e la mia condizione future. Perché dover prendere atto di essere stata, in ultima analisi, più “libera” durante il lockdown che in tempi normali sarebbe semplicemente insopportabile. Una bestemmia, un oltraggio alla mia vita e alla vita in generale. Sarebbe nient’altro che un’eresia.

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6 Commenti

Serena 3 Aprile 2020 - 06:31

Grazie per aver dato forma a questi pensieri che, magari con qualche variante, mi girano per la testa da vari giorni. Sembra quasi brutto dirlo e quindi ce lo si tiene per sé, ma essere staccati a forza da una serie di routine, di abitudini prese per sopravvivere alla frenesia o alla pressione sociale, può anche essere benefico.

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Silvana - Una mamma green 3 Aprile 2020 - 11:05

Dovremo fare una riflessione sul nostro domani!

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L'angolo di me stessa 4 Aprile 2020 - 20:38

Anche io ho alcuni pensieri come i tuoi. Sono venuta su da mia madre appena chiuse le scuole e ho un giardino grande, tanto spazio, il verde, gli uccellini, tante cosucce in casa da sistemare e mi sento bene, in fondo. Perché non corriamo, perché facciamo colazione con calma, perché ci godiamo la natura…e ogni volta che devo stare dietro alla piattaforma della didattica a distanza mi da quasi fastidio. Ho molta paura per il dopo, ma spero anche che nel dopo le persone si ricordino di tutte le cose belle che questo isolamento ci sta portando e glielo ripeto sempre ai miei figli, perché noi ne abbiamo davvero tante di cose per cui ringraziare.

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Tornare alla normalità - Una mamma green 22 Maggio 2020 - 12:04

[…] prime settimane di quarantena, non senza imbarazzo, avevo scritto un lungo post in cui raccontavo che, tutto sommato e con l’importante eccezione dei viaggi, non sentivo poi […]

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valentina 22 Maggio 2020 - 15:29

da giorni cerco con insistenza questo post che avevo letto a suo tempo. Volevo ringraziarti ancora, soprattutto per la parte finale in cui metti in chiaro con lucidità cristallina i miei pensieri di oggi.

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Silvana - Una mamma green 26 Maggio 2020 - 09:51

Grazie a te, di cuore!

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