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figli

cose da bambini
life

Cose da bambini?

by Silvana Santo - Una mamma green 22 Febbraio 2021

I bambini si abituano a quello che conoscono, e non possono amare ciò che non hanno mai provato.
Mi capita spesso che amiche, conoscenti o lettrici mi scrivano, per esempio, che avrebbero il desiderio di fare un viaggio itinerante coi loro figli, ma (pandemia a parte, sigh) non hanno il coraggio di provarci. “Perché i bambini hanno bisogno della routine in spiaggia, del villaggio con l’animazione, e via dicendo”. Oppure mi sento raccontare con una certa amarezza di bambini che passano i pomeriggi davanti ai video dello youtuber di turno o che hanno bisogno necessariamente di un dispositivo elettronico per ingannare l’attesa al ristorante, in aeroporto, dal medico etc (sempre Covid permettendo, stra-sigh), “ma purtroppo lo fanno tutti i bambini della loro età, sai com’è”.

Io invece penso che, entro i confini del comune buon senso e al netto delle inevitabili preferenze personali, finché sono relativamente piccoli i bambini si abituano a quello che conoscono. Se a un bambino vengono proposte sempre e solo vacanze al mare, macchinine giocattolo (tanto per fare un esempio stupido) e intrattenimento a base di cellulare, è scontato che le volte successive tenderà ad aspettarsi più o meno le stesse cose: in ferie “si va” al mare, al ristorante si guardano i video, al compleanno mi regaleranno delle macchine.

Il punto non è, meglio precisarlo, imporsi di cambiare le proprie abitudini di famiglia: se le vostre vacanze “stessa spiaggia, stesso mare” vi rendono felici, non c’è alcuna ragione per cui dobbiate iniziare i vostri figli a qualcosa di diverso. Se amate i video di youtube, o comunque vi sta benissimo che i vostri figli impieghino il loro tempo libero guardandoli, non pensateci e basta. Ma se a volte vi sentite di stare rinunciando a qualcosa che amate troppo, o viceversa, di essere costretti in dinamiche che detestate, ma che vi appaiono inevitabili solo perché “sai, sono bambini!”, sappiate che forse vale la pena fare un tentativo per cambiare lo status quo.

Ve lo dico, semplicemente, perché lo vivo da sempre sulla mia pelle: fin da quando i miei figli erano molto piccoli, uscire fuori a cena rappresenta un’esperienza stressante e qualche anno fa era proprio un mezzo calvario. La stanchezza generale trasformava l’uscita in un vero strazio, un cocktail esplosivo di ansia, capricci, imbarazzo e nervosismo. La stessa cosa valeva quando si trattava di fare un giro per negozi assieme a loro, per fare acquisti non rimandabili. Eppure, come mi facevano notare in tanti, non mi perdevo d’animo davanti a una mostra d’arte, un’escursione in natura o a un viaggio all’estero, magari itinerante o con tante ore di volo. La verità è che per me uscire a cena non è mai stato davvero necessario: in passato era il pretesto per stare con gli amici di sempre, ma ad eccezione di determinati locali particolarmente originali o amati, per me erano importanti la compagnia e il cibo (e i beveraggi!), non la location. Ancora adesso preferisco di gran lunga un picnic all’aperto o un delivery in buona compagnia, e di conseguenza è questo che mi è sempre risultato “facile” assieme ai miei figli. Stesso discorso per lo shopping e le passeggiate “per vetrine”, che non mi sono mai piaciuti particolarmente e che ho totalmente abolito negli anni (diventando invece una vera campionessa degli acquisti sul web, dove riesco a scovare sempre quello di cui sono in cerca).

Questo per dire che inesorabilmente i miei figli detestano cose che per alcuni coetanei sono esperienze del tutto comuni e spesso molto piacevoli – come un pomeriggio al centro commerciale o 15 giorni di vacanza fronte spiaggia – e sono invece avvezzi a cose che altri giudicherebbero “non da bambini”, come un’escursione in montagna, una visita in un museo, un tour itinerante con 7 cambi di hotel. Perché i bambini, e vengo al punto, non hanno esigenze precostituite o stereotipate, ma si adattano e si abituano alle esperienze che fanno insieme alla loro famiglia.

Non date per scontato che per un bambino l’unica villeggiatura appagante sia il mare, o magari il villaggio con il miniclub. Non rinunciate a musei e teatri (sempre alla faccia del Covid, sob e strasob!) perché “non sono cose per bambini”. Non convincetevi che certe esperienze vi siano precluse a prescindere o siano, viceversa, inevitabili solo perché avete dei figli piccoli. Continuate a fare quello che amate e ad evitare quello che vi ripugna, assieme ai vostri figli, con buon senso e rispettando la loro piccolezza, i loro ritmi, la loro fisiologia. E vedrete che saranno felici assieme a voi, pronti a scegliere, tra qualche anno, quello che a loro volta preferiscono e quello che proprio invece non li appassiona.

22 Febbraio 2021 0 Commenti
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figli piccoli, problemi piccoli
essere madre

Quando finisce il nostro ruolo?

by Silvana Santo - Una mamma green 10 Febbraio 2021

Figli piccoli, problemi piccoli. Questo dice l’adagio, che però a me ha sempre dato un certo fastidio.
Non solo perché svilisce la fatica dei neo-genitori e avvilisce le loro speranze e prospettive, ma anche perché, in generale, trovo poco sensato lanciarsi in una gerarchia dei problemi e delle sofferenze. Come a dire che non tutte le difficoltà sono meritevoli della stessa empatia, che non tutte
Non è vero che occuparsi di un neonato sia una responsabilità meno gravosa che seguire un bambino, o magari un adolescente.

Al contrario, è vero semmai, e in quasi un decennio di permanenza controversa nella nebulosa delle madri e dei padri me ne sono definitivamente convinta, che sulla primissima infanzia e sui neo-genitori viene esercitata una pressione sociale (e social) indicibile, che inspiegabilmente si estingue tanto, e quasi all’improvviso, quando i bambini raggiungono l’età scolare.

Se per i primi anni di vita di tuo figlio vieni bersagliata da mille critiche, domande non richieste, indicazioni e teorie, e ti trovi a misurarti con aspettative del tutto irrealistiche, a un certo punto – puf – sembra che i ragazzini e la loro educazione (anche e soprattutto affettiva) diventino una questione paradossalmente secondaria. Come se, una volta che li hai svezzati e inseriti a scuola, “il più fosse fatto”.

Le madri fresche di parto (chissà perché i padri, novellini o già rodati, non sembrano mai così inclini a preoccuparsi o discutere delle scelte in fatto di maternage – che in effetti non si chiama “paternage”, e qualcosa vorrà pur dire) si scannano nei gruppi e nelle pagine Facebook sul latte artificiale e sull’allattamento al seno, sul passeggino e sulla fascia, sul cosleeping e sul metodo “Fare la nanna”. Le casalinghe foraggiano i sensi di colpa delle “madri lavoratrici”, che a loro volta guardano le altre con una malcelata sufficienza. E giù trattati, sondaggi, editoriali e polemiche sull’importanza del nido, dei giochi montessoriani, destrutturati, naturali, sugli effetti a lungo termine del bonding madre-figlio, sull’alto contatto, sull’educazione empatica, sullo spannolinamento e via discorrendo. Se non pasci tuo figlio con germogli biologici da te prodotti con terriccio fertilizzato con il limo derivato dalle esondazioni del Nilo, sei una pessima madre. Se non stimoli adeguatamente tuo figlio parlandogli in sanscrito e sottoponendolo a giochi educativi e montessoriani, sei una madre degenere. Se ti perdi la sua recita di Natale all’asilo, meriti una convocazione dai servizi sociali.

Ma basta che i bambini raggiungano l’età scolare e la musica cambia. L’attenzione al ruolo dei genitori sbiadisce, i dibattiti e le dissertazioni in tema educativo e parentale smettono di suscitare interesse. Come se, una volta svezzati, questi ragazzini diventassero sostanzialmente e improvvisamente autonomi, e il ruolo delle loro additatissime genitrici finisse all’improvviso col diventare marginale, relativo, tutto sommato aleatorio nello sviluppo della personalità e nel benessere globale dei loro figli.

Difficilmente ci si imbatte in polemiche sull’alimentazione di bambini “grandi” e preadolescenti, sulla quantità e qualità del loro sonno, sulla quantità e qualità del tempo che le madri trascorrono con loro, degli stimoli che gli propongono, dell’empatia che riescono a mostrare nell’accudimento quotidiano. La scuola, che spesso si occupa dei bambini e dei ragazzi per la maggior parte della giornata, diviene l’oggetto principale delle discussioni e delle querelle sui social network. Il capro espiatorio dei problemi educativi, del bullismo, delle fragilità, dei vuoti e delle sofferenze di intere generazioni.

Nessuno, o quasi, sembra indignarsi o preoccuparsi se i ragazzini passano la maggior parte delle loro giornate lontani dai genitori, se trascorrono lunghe ore soli davanti a uno schermo, se si alimentano in modo casuale o malsano. Al massimo, dopo ogni tragedia presunta o reale che assurge agli onori della cronaca, ci si accapiglia per qualche giorno sull’uso della tecnologia e dei social nei ragazzini molto giovani, sull’opportunità di vigilare, limitare, filtrare.

Eppure, almeno secondo me, un bambino in crescita e poi un (pre)adolescente e un giovane adulto ha ancora più bisogno di avere accanto, e successivamente “alle spalle”, una guida attenta, un esempio consapevole, una sponda e un rifugio. Anche, e forse soprattutto, negli anni della sua vita in cui è assolutamente convinto di poterne invece fare a meno.

Paradossalmente, per come la vedo io, il “tempo di qualità e quantità” con i figli diventa ancora più prezioso e importante quando questi figli diventano un po’ più grandi, quando il processo educativo si fa serio e complicato, quando le influenze dall’esterno diventano significative, nel bene e nel male.

E invece mi sembra che, in nome della presunta “autonomia” dei figli, la tendenza sia quella di crocifiggere una madre perché non allatta al seno, o perché rientra al lavoro con un figlio di pochi mesi, per poi assistere nella totale indifferenza al destino educativo di intere generazioni di bambini, ragazzini e adolescenti. Senza interrogarsi sul ruolo che i genitori dovrebbero avere, sui principi cui ancorarsi, sugli stimoli (anche culturali!) da offrire, sui divieti sacrosanti da imporre, sulle esperienze da condividere con i figli.

Perché tanto, a quanto pare, una volta svezzati “sono grandi, ormai”.

10 Febbraio 2021 3 Commenti
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cose che avrei voluto sapere prima di avere figli
life

Cose che avrei voluto sapere prima di avere figli

by Silvana Santo - Una mamma green 7 Ottobre 2020

Ci sono cose di cui adesso sono perfettamente al corrente, ma che avrei voluto sapere prima di avere dei figli. Giusto per arrivare più preparata, eh. Mica per niente. Vediamo se è lo stesso per qualcuno di voi.

1. I bambini sporcano tantissimo

Io mi illudevo che passata la fase del rigurgito permanente e delle deiezioni a fontana, il peggio sarebbe stato alle spalle. Che tenera! La verità è che finirò probabilmente sepolta sotto la montagna di briciole, coriandoli, frammenti e scorie che i miei figli producono in modi che non sono ancora riuscita a spiegarmi, e di cui loro per primi non sono quasi mai consapevoli. Che sia una peculiarità esclusiva della mia prole? Qui il loro passaggio, i loro giochi, i miliardi di attività creative in cui si cimentano e i loro svariati pasti quotidiani sono accompagnati sistematicamente da una scia di liquami e detriti di cui gli artefici solo di rado si accorgono, e che ancora più di rado provvedono a rimuovere. Quasi quasi rimpiango i pannolini lavabili (ma anche no, a pensarci bene…).

2. I bambini parlano di continuo

O almeno, entrambi miei due figli lo fanno (tale madre, direbbe qualcuno…). Da quando aprono gli occhi al mattino – e certe volte anche da prima che li aprano – smettono di cianciare, domandare, chiamare, supplicare, protestare, precisare, insinuare e ovviamente litigare solo quando li richiudono alla sera. Il che è davvero meraviglioso, perché permette di conoscerli a fondo, di fare esperienza del loro universo, di entrare in sintonia e farsi anche un sacco di risate. Però certe volte riesce a rimettermi in sesto solo un buon drink ghiacciato.

3. I bambini sono estremamente volubili

O meglio, solo certi bambini lo sono, a dire il vero (uno su due, a casa nostra, e glisserò con eleganza sulla sua identità). Volubili, incostanti, lunatici. Del tutto imprevedibili. Nel senso, per dire, che quello che fino a ieri era il piatto preferito, oggi può diventare inviso e detestabile. Il gioco preferito della scorsa settimana, in quella attuale è “noioso e stupido”, le sane abitudini consolidate in anni di pratica e di educazione, diventano di punto in bianco superate e superabili. E tu, che ti eri lasciata convincere dalle varie Tracy Hogg del fatto che i bambini siano “esseri legati alla routine” ti ritrovi smarrita e incerta, con una cotoletta improvvisamente “immangiabile” nel piatto.

4. I bambini sono rumorosissimi

Ok, questa in effetti potevo anche aspettarmela. Da che mondo e mondo, si sa, i bambini fanno casino. Io stessa, da piccola, ho passato buona parte dell’infanzia dribblando le secchiate d’acqua con cui l’amabile nonnina del piano terra ci bersagliava nel tentativo di “silenziarci”. Però non avevo idea che facessero così TANTO casino. Anche quando sono tranquilli, intendo dire. Non avevo idea che “avere l’argento vivo addosso” fosse in realtà un modo poetico per dire “non fanno che agitarsi, far cadere cose rumorose, parlarsi addosso a voce altissima, giocare in modo chiassoso”. Ma forse questo dipende dal fatto che i miei figli non sono dei figli qualsiasi, ma dei figli napoletani di genitori napoletani.

5. I bambini sono straordinariamente autentici

I bambini sono molto intelligenti, sono ricettivi, sono svegli. E soprattutto sono autentici. Il che, spesso, inchioda gli adulti di fronte alle proprie contraddizioni, alla propria pochezza e ai propri limiti. Perché i bambini comprendono spesso anche le cose che ci illudiamo di tener loro nascoste, ci fanno domande che esigono, in risposta, soltanto la verità, ci leggono dentro e ci indagano con occhi autentici e cristallini. Non si accontentano delle scuse che abbiamo preso l’abitudine di raccontare a noi stessi e ai nostri coetanei. Sono, i bambini, lo specchio più trasparente e sincero nel quale potremo mai vederci riflessi. E a volte ci restituiscono un’immagine alla quale non eravamo preparati.

7 Ottobre 2020 0 Commenti
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essere madre

Somiglianze

by Silvana Santo - Una mamma green 4 Agosto 2020

Ho un figlio che, a prima vista, non mi somiglia granché.

Ci soffrivo, lo ammetto, quando lui era appena nato e tutti non facevano che rimarcare – a volte con un sarcasmo di cui non ho mai compreso il senso – che fosse “la copia esatta di suo padre”. So che è un sentimento puerile, ma all’epoca era tutti così nuovo e difficile, e la maternità mi sembrava una condizione così estranea, che anche questi particolari, conditi con un cocktail di ormoni e la deprivazione del sonno, causavano dispiacere.

Quando è nata sua sorella, circa un anno e mezzo più tardi, è stato come se la lotteria genetica avesse voluto pareggiare i conti. Flavia, in certe fasi della sua prima infanzia, più che mia figlia sembrava un mio clone. Tuttora condividiamo ancora moltissimo del nostro aspetto esteriore, incluse le forme del corpo, la distribuzione del grasso, le dita dei piedi e finanche gli odori corporei.

Ma nel tempo, anno dopo anno, è sempre più chiaro quanto io e Davide fossimo intimamente somiglianti. Condividiamo interessi e attitudini, paure, vulnerabilità ed entusiasmi. Anche certi accessi di irrazionalità e di rabbia, destinati a svanire poi in un lampo, così come si sono manifestati. A volte lo guardo e mi sembra di specchiarmi. Penso, spaventandomi un pochino, di non aver mai incontrato un’altra persona così simile a me.

Anche se non è semplice ammetterlo (e non sono in molti, forse, a essere disponibili a farlo) è naturale cercare se stessi dentro i propri figli. Siamo nient’altro che animali, dopo tutto, e diventiamo genitori anche e principalmente per rispondere a un istinto potente che ci raccomanda di perpetrare noi stessi, come specie ma anche come individui. I figli, comunque siano venuti a noi, sono il nostro lascito definitivo: tutto ciò che di noi, alla fine, sopravviverà a noi stessi.

Non è sempre facile, al contrario, individuare nella propria progenie qualcosa che ci è estraneo e alieno, qualcosa che non ci rassomiglia o che magari è antitetico rispetto a quello che noi sentiamo di essere. Qualcosa che non comprendiamo, magari, o che disapproviamo apertamente. Ma è questa la parte più interessante della sfida: amare con tutto il cuore quanto dei nostri figli non arriviamo a riconoscere, a capire, a condividere. Amare la parte di loro che da noi è più distante. Forse, una vita basterà.

4 Agosto 2020 0 Commenti
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essere madre

E se pretendessimo troppo, dai nostri figli?

by Silvana Santo - Una mamma green 17 Settembre 2019

Generazione di smidollati, genitori incapaci di educare i propri figli, schiavi di “bambini dispotici e viziati”. Si leggono spesso disamine impietose sull’operato dei miei coetanei (diciamo dei genitori nati a cavallo tra gli anni ’70 e ’80) in veste di madri e padri, e sui danni permanenti che staremmo arrecando ai nostri bambini. Non c’è dubbio che in qualche caso si tratti di analisi veritiere e condivisibili, che si assiste da qualche tempo a una deriva che confonde la liberalità con il lassismo, l’autodeterminazione con l’anarchia, la tolleranza con la totale e cronica strafottenza. Ma è pur vero, forse, che a volte pretendiamo, dai nostri figli, che si comportino né più né meno come degli adulti. O, addirittura, con più equilibrio e saggezza di quanto non sappiamo fare noi, che adulti lo siamo davvero.

E così ci aspettiamo che un bambino piccolo assista magari al nostro shopping senza osare chiedere qualcosa per sé. Che mangi carote e cetrioli per merenda, mentre noi ci concediamo aperitivi a suon di spritz e noccioline americane. Che legga e studi (anche se forse noi siamo i primi a impiegare diversamente il nostro tempo libero), o che sappia dosare con buon senso le ore passate davanti a uno schermo, quando poi, noi per primi, lasciamo che la tecnologia ci rubi la maggior parte delle giornate. Pretendiamo dai bambini che siano “educati” e rispettosi, che siano empatici, che sappiano ascoltare e condividere. Eppure siamo i primi a derogare senza troppi scrupoli a questi stessi principi. Diamo per scontato che nel giro di pochi anni debbano imparare a gestire la stanchezza, la rabbia, la paura, la frustrazione, quando a noi, magari, non è bastata una vita per giungere allo stesso risultato.

Abbiamo dimenticato, probabilmente, come eravamo noi stessi da bambini. Io a volte dimentico, per esempio, di essere stata una bambina sì studiosa, “obbediente” e tranquilla. Ma anche molto insicura, pigra, incline al lamento, disordinata. Viziata con il cibo. E, più tardi, una ragazzina intransigente e rigida, egocentrica, a tratti anche un pochino stronza. Questo, però, non mi ha impedito di cambiare, almeno da alcuni punti di vista. Non mi ha impedito di diventare un’adulta che mangia (quasi) qualsiasi cosa, che tiene molto all’ordine, che non si stancherebbe mai di “fare”, di vivere, di andare e di imparare. Un’adulta con tanti difetti, ma che cerca ogni giorno di comportarsi bene con tutti, e che quando fallisce lo fa di norma in buona fede.

Ma non è che io sia stata folgorata a metà degli anni Novanta sulla via di Damasco. Sono cresciuta, semplicemente. Come cresceranno i nostri figli, quei bambini che a volte ci sembrano così inguaribilmente maleducati, capricciosi, insofferenti. Così “ingestibili”. E che invece, magari, sono soltanto piccoli. Che questo post sia una specie di promemoria per la sottoscritta: i bambini sono, per definizione, individui che si stanno ancora formando, e che hanno bisogno, per diventare adulti, di tempo, di esperienze, di pazienza. E di esempio, soprattutto (e su quello è vero che forse non siamo una generazione di campioni).

17 Settembre 2019 10 Commenti
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Insieme

by Silvana Santo - Una mamma green 4 Aprile 2019

Se mi chiedessero che tipo di genitore sono, non saprei bene cosa rispondere. Su alcune questioni mi definirei severa, o intransigente. Su altre penso di essere abbastanza flessibile e indulgente. Sono ansiosa in qualche caso, rilassata o fatalista in molti altri. Sono una madre che lavora, ma che passa anche molto tempo a casa. Sono green per certi versi, decisamente meno attenta per altri. C’è una cosa, però, che forse definisce in qualche modo il tipo di genitore che, insieme al papà di Davide e Flavia, ho scelto di essere per i nostri figli, ed è la scelta di vivere il quotidiano il più possibile “insieme” a loro.

Come in tutte le famiglie, direte voi. Certo. Però mi sembra di cogliere, ogni tanto, una tendenza diversa, che va nella direzione di un maggiore individualismo e di una precoce (e presunta, aggiungo io) indipendenza dei figli rispetto ai genitori. I bambini devono giocare da soli, intrattenersi da soli, addormentarsi da soli e via dicendo. Sempre prima e sempre di più, perché non è giusto e non è sano che i genitori siano “al loro servizio”, che trascurino le proprie esigenze e annullino le loro risorse – fisiche, nervose, emotive – per occuparsi dei figli. Ho letto anche diversi articoli sull’argomento, negli ultimi tempi, tanto che a volte mi dico che forse sbaglio a vivere come sono abituata a fare.

Mi spiego meglio. Per noi è del tutto normale, per esempio, giocare a lungo con Davide e Flavia, ogni giorno. Capita spesso anche quando siamo a tavola per la cena, e tra un boccone e l’altro ci sfidiamo a suon di indovinelli e di “Color color..”. Accompagniamo i bambini a letto, leggiamo e cantiamo per loro (e con loro) prima della nanna, restiamo accanto a loro finché non si addormentano. Per noi è scontato viaggiare insieme a loro, e non solo: pensiamo che sia giusto considerarli come dei veri e propri compagni di viaggio, tenendo conto, nella pianificazione delle vacanze, non solo delle loro esigenze, ma anche dei gusti e degli interessi che manifestano via via. Condividiamo spesso la visione dei film che guardano nel weekend, e se possibile anche dei cartoni animati del dopo cena. Costruiamo cose con loro, ci travestiamo insieme a loro, ci prestiamo come pubblico o come co-protagonisti, agli spettacoli che imbastiscono ogni tanto. Li coinvolgiamo nelle attività quotidiane, diamo loro dei compiti, parliamo con loro fino allo sfinimento. Tutti i giorni.

Stiamo insieme, insomma. Non sempre, com’è ovvio, non “a tutti i costi”, non senza momenti di stanchezza e conseguenti pause. Soprattutto, non con lo scopo di sostituirci a loro (Davide, tanto per fare un esempio banale, fa i compiti in piena autonomia, e io non mi sognerei mai di verificare via Whatsapp che abbia preso correttamente le consegne). Stiamo insieme non solo e non tanto perché crediamo che sia giusto e importante per i nostri figli, ma perché, prima di tutto, lo desideriamo noi genitori. Personalmente, ho fatto dei figli anche per la voglia di vivere al loro fianco la breve parentesi della loro infanzia, e troverei masochistico e privo di senso negarmi questo piacere per “coltivare la loro indipendenza”.

Non so se dovrò mai pagare il prezzo di questa filosofia di vita, ma so che di certo non avrò rimpianti. E va bene così.

4 Aprile 2019 4 Commenti
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Etichette

by Silvana Santo - Una mamma green 12 Marzo 2019

Napoletana atipica.
Figlia unica.
Mamma pancina.
Buonista.
Pessimista inguaribile.
Debole.
Madre anormale.
Snob.

Mi hanno etichettato in tanti modi, nella mia vita, a cominciare da quando ero piccola. A volte mi hanno affibbiato etichette in totale contraddizione tra loro, passando dal definirmi insicura al decidere che ero una persona inguaribilmente arrogante.

La verità è che nessuna etichetta può davvero definirmi, incluse quelle che ogni tanto tendo ad attribuire a me stessa. Che non esiste un solo individuo al mondo la cui complessità possa essere ridotta a un archetipo, per quanto sia innegabile che ogni adulto abbia una determinata personalità.

Ma se etichettare gli adulti è sempre riduttivo e spesso può essere fastidioso, doloroso o condizionante per chi si ritrova a essere “catalogato”, farlo

Io penso che se bolliamo un bambino come monello, o capriccioso, o “impossibile”, lui – che è piccolo ed è ben lungi dal conoscere se stesso e dal sapere cosa vuole essere – finirà, più o meno consapevolmente, col convincersi che quella etichetta lo definisce davvero. Finirà col comportarsi in modo da aderire il più possibile a quella descrizione limitata e parziale che si è abituato a sentire di sé. A rispettare il pronostico, a recitare con zelo il ruolo che i grandi gli hanno assegnato.

E penso anche che se etichettiamo un bambino come terribile, discolo, prepotente e via dicendo di fronte ai suoi amici, loro finiranno per trattarlo come un bambino discolo e prepotente, anche quando magari non si sta comportando in questo modo. Finiranno con relegarlo, nella loro consapevolezza e nelle dinamiche di gruppo, in quel ruolo archetipico.

I bambini non sono monelli, mai. Non sono prepotenti, non sono impossibili, né tantomeno sono cattivi. A volte, certo, si comportano in modo prepotente, violento, egoista, arrogante e via dicendo. Ed è questo che andrebbe “definito”, sviscerato e sanzionato: il comportamento odioso, irrispettoso degli altri, pericoloso, irragionevole. Senza che finisca col definire il bambino che vi è incappato.

12 Marzo 2019 0 Commenti
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Perché crescere un figlio è diventato così faticoso?

by Silvana Santo - Una mamma green 26 Giugno 2018

Perché crescere un figlio è diventato così faticoso? Come si riusciva, prima, a tirar su nidiate di otto o dieci figli, come se fosse una cosa semplice? Mi sono fatta queste domande un sacco di volte, negli ultimi anni. Soprattutto nei momenti più critici, quando la stanchezza e lo scoramento sembravano impossibili da superare. Come facevano, le nostre nonne e le loro madri? E come hanno fatto le nostre, di mamme, a tirarci su senza che sembrasse una cosa così devastante?

Fare figli non è niente di speciale. La nostra quota animale è programmata per questo da migliaia di anni, esattamente come qualsiasi essere vivente sulla Terra. Abbiamo maggiori risorse economiche rispetto al passato, maggiori tutele, per quanto ancora largamente insufficienti, una tecnologia avanzata e accessibile. Eppure, per la nostra generazione, sembra essere diventata un’impresa a tratti estenuante. Come mai?

Non dipende, credo, dalla maggiore presenza delle donne nel mondo del lavoro: discendiamo tutti da generazioni di contadine, lavandaie, tessitrici e insegnanti. Le donne hanno sempre lavorato anche in epoca presindacale, spesso costrette a portarsi i figli neonati sul posto di lavoro. Eppure tiravano avanti, con il triplo o il quadruplo dei figli che oggi, in media, abbiamo noi. E secondo me non è neanche questione di avere meno aiuti. C’era magari una maggiore propensione a darsi una mano tra familiari e vicini di casa, ma c’erano anche, appunto, molti più bambini a cui badare. Una vita media più breve, case piccole, meno risorse per tutti.

Secondo me la verità è che siamo cambiati noi, e non solo le donne. È cambiato quello che ci aspettiamo dalla nostra vita, e soprattutto quello che ci aspettiamo da noi stesi in quanto madri e padri. Siamo i primi, includendo anche quelli che sono diventati genitori negli ultimi quindici o vent’anni, ad essere cresciuti con la consapevolezza che la vita adulta non fosse fatta solo di famiglia e lavoro, ma anche di interessi, di viaggi, di realizzazione personale, di amicizie, di studi e tempo libero. E siamo gli unici, di conseguenza, per i quali sarebbe inconcepibile doverne fare del tutto a meno solo perché c’è una famiglia a cui badare. Giustamente inconcepibile, aggiungerei.

Siamo i primi, soprattutto, per i quali “crescere un figlio” significa forse qualcosa di diverso rispetto a quello che ha rappresentato per decine di generazioni che ci hanno preceduto. Non ci sentiamo “soltanto” chiamati a garantire ai nostri figli la salute fisica, una sana alimentazione, l’istruzione, l’educazione e il benessere complessivo (lo sport, il mare d’estate, qualche giocattolo), ma anche profondamente coinvolti nella formazione della loro personalità, della loro autostima e della consapevolezza di sé. Della loro capacità di stare insieme agli altri, e di starci bene. Implicati a piene mani nella costruzione del loro benessere psicologico ed emotivo, del loro equilibrio e della loro capacità di perseguire la felicità. Non che ai nostri genitori non stesse a cuore la nostra “serenità”, certo. Ma forse noi siamo più consapevoli del ruolo che abbiamo, del peso dei nostri sbagli, delle insidie con cui fare i conti. E questo, almeno per me, è un fardello pesante da sostenere ogni giorno, molto più delle implicazioni pratiche dell’essere madre.

E non è solo questo, devo dire. Mi pare anche che noi genitori delle ultime decadi siamo i primi per i quali il processo educativo non si riduce solo a un trasferimento unilaterale di regole, divieti ed esempi, ma rappresenta piuttosto un processo fluido, biunivoco, dei quali i figli sono parte attiva, e non solo dei soggetti passivi. Non solo dei vasi da riempire o delle tabulae rasae su cui tracciare la nostra visione del mondo e della vita. In effetti veniamo anche criticati di continuo, per questo. Giudicati come incapaci, privi “di polso”, esseri smidollati e svogliati inadatti a educare un bambino. Magari è solo che abbiamo capito che ogni figlio è un universo, e per crescere insieme a lui bisogna tenerne conto.

La verità è che siamo dei pionieri. I primi a farci carico dell’educazione dei figli in un mondo che, per la prima volta dopo migliaia e migliaia di anni, non somiglia poi molto a quello in cui siamo cresciuti noi. I primi a farci carico dei nostri figli senza essere disposti a smettere di farci carico di noi stessi. I primi a farci carico dei nostri figli sapendo che avremmo potuto scegliere di non metterli al mondo, di dedicare ad altro la nostra esistenza. I primi, soprattutto, a farci carico dei nostri figli con la piena, se non addirittura esagerata, coscienza delle nostre responsabilità e del peso immenso del nostro ruolo. E questo, non me ne vogliano nonni e bisnonni, chi ci ha preceduto non lo potrà mai capire.

Tirare su dei figli è faticoso oggi tanto quanto in passato, ed è “una cosa naturale” oggi come allora. È il modo in cui stiamo cercando di farlo adesso, che per molti di noi è in parte diverso da quanto è accaduto alle generazioni precedenti. Per quello, forse, a volte ci sembra più difficile. Lasciateci tentare con tutti noi stessi. Lasciateci sbagliare. Pagheremo il prezzo dei nostri errori ai nostri figli, sulla bilancia della nostra buona fede, perché è solo a loro che dovremo rispondere. E questo, almeno questo, non è mai cambiato e mai cambierà, nemmeno tra un milione di anni.

26 Giugno 2018 3 Commenti
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essere madre

Vorrei che ricordaste

by Silvana Santo - Una mamma green 13 Giugno 2018

Da quando siete nati, abbiamo condiviso una quantità di esperienze che non credevo possibile. L’ansia di vedere la mia esistenza “finita” dopo la maternità si è trasformata nell’occasione di vivere con una intensità mai vista. Di godermi la vita, insieme a voi, riempiendola di viaggi, di natura, di bellezza. Di cose nuove da scoprire e per cui emozionarsi di continuo.

Eppure, quello che vorrei è che vi ricordaste non tanto i voli in aereo, gli spettacoli e le giornate speciali, quanto piuttosto le piccole liturgie quotidiane che scandiscono il tempo della vostra infanzia. I riti abituali e preziosi che agli occhi degli altri sarebbero insignificanti, o forse addirittura ridicoli, e che per noi costituiscono invece l’orizzonte giornaliero delle nostre vite normali, eppure così straordinarie.

Vorrei che ricordaste i denti di leone raccolti a bordo strada in questa stagione, soffiati via con gli occhi stretti e le guance gonfie. Il segno orizzontale che il sole traccia sul palazzo di fronte. Le migliaia e migliaia di “Ti voglio bene” che vi dico ogni giorno, il plaid verde, ormai un po’ liso, con cui ci scaldiamo in inverno davanti alla tv. Vorrei che ricordaste, in qualche anfratto oscuro della vostra memoria silente ed eterna, i nomignoli con cui vi chiamo sorridendo, il sapore della colazione che mangiate ogni mattina, l’odore dell’erba del giardino sotto casa. Il suono così peculiare del miagolio di Artù quando ha fame, la consistenza dei baffi che gli cadono e che troviamo in giro, le sue zampate quando si offende e colpisce.

Vorrei che teneste per sempre con voi il cinguettio degli uccelli che riempie la nostra casa a primavera, a cominciare da quello dei passeri che quest’anno hanno fatto il nido nella cappa della nostra cucina. La sensazione dei vostri piedi nudi sulle piastrelle lucide che non ho scelto io, la sequenza sempre uguale di gesti con cui io, o più spesso vostro padre, vi aiutiamo a fare la doccia di sera. Vorrei che ricordaste il colore dei tramonti che si ammirano dalla nostra finestra, che non ho mai trovato in nessuno dei miei viaggi e che a primavera le rondini ricamano di nero. Lo stridio dei pipistrelli, le voci dei vicini di casa che arrivano da lontano nelle sere d’estate.

Il suono del citofono, il profumo della pizza che ogni settimana cuoce puntuale nel forno, il tappeto su cui giocate da anni. Il gesto che faccio ogni volta che vi allaccio le cinture di sicurezza. Vorrei che rammentaste il colore dei vostri bicchieri preferiti e il sapore del dentifricio con cui vi lavate i denti. L’anta della scarpiera nell’ingresso che si apre e si chiude. Il nostro repertorio familiare di ninne nanne, la playlist che cantiamo a squarciagola in auto e i passi di danza che ci siamo inventati solo per noi.

Radici profonde, che stiamo costruendo insieme senza neanche saperlo. Piccole cose, che spero costituiscano, domani, l’ancora della vostra identità, il porto a cui tornare nella tempesta, il riferimento per ogni felicità futura. Un pezzo di questa infanzia bellissima che ci stiamo regalando, al di là della fatica, oltre gli errori e le difficoltà, e che mi auguro resti con voi per sempre, in qualche modo. Vorrei, più che i viaggi e le avventure, che ricordaste l’amore, quello vero, quello a volte ruvido e a volte scivoloso. Mozzafiato. Quello che mi insegnate ogni giorno, e che io ogni giorno provo a insegnare a voi.

13 Giugno 2018 0 Commenti
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cinque anni di mio figlio
life

Cinque anni

by Silvana Santo - Una mamma green 8 Febbraio 2018

Sono passati cinque anni esatti dal giorno in cui, divisa tra il terrore e l’euforia, ti ho visto uscire dal mio corpo. Cinque anni.

Cinque anni in cui è stato come guardarsi costantemente allo specchio. Nello specchio più lustro in cui mi sia mai riflessa. Cinque anni in cui è stato come ricominciare a vivere da capo, a conoscersi dal nulla, a respirare e camminare e parlare e piangere e ridere come se prima non avessi fatto nessuna di queste cose. Cinque anni in cui siamo stati lattanti insieme, e poi bambini minuscoli barcollanti su gambe arcuate e piedi piatti, e adesso ragazzini ancora vergini alla scoperta dell’umanità e del posto che chiamiamo casa.

Cinque anni passati a cercare di conoscerti e comprenderti, fino a scoprire ogni giorno di più quanto c’è di me in fondo al tuo spirito. Tu che sei allegria e luce, punteggiate qua e là da pozze di una oscurità che sembra impenetrabile. Sei la risata argentina e il pianto che assorda, sei la curiosità di chi non conosce il mondo e la paura di chi del mondo teme le insidie, e le miserie, e le follie. Sei la consapevolezza di te. E l’insicurezza che in fondo non passa mai. Il bisogno di sentire ogni giorno dagli altri quanto di buono c’è dentro di te. La necessità disperata di sapere che sei amato, che sei giusto, che vai bene come sei.

Sei l’accondiscendenza e la mitezza, interrotte da momenti furiosi di rabbia, di stanchezza, di frustrazione. Sei la logica che a tratti si perde nella irragionevolezza insanabile. Sei la voglia di esplorare la vita e il timore quotidiano di non farcela. Di non essere abbastanza forte, grande, bravo. Di non essere abbastanza, e basta.

Sei l’amore che dilaga senza contegno e l’insofferenza incontenibile e apparentemente immotivata. Sei l’energia inesauribile che invece svanisce all’improvviso, senza rimedio, senza riserva. L’osservazione arguta e la domanda ingenua. Il candore e la ferocia.

Sei il figlio che implora ogni momento di non essere lasciato solo, esattamente come la voce che mi si agita dentro da quando sono al mondo.

Scoprirti e amarti ogni giorno di più è un po’ come provare ad amare finalmente me stessa. Come guardare la luna che splende e lasciarsi abbagliare, ricordando però che alle sue spalle c’è un lato perennemente immerso nell’oscurità.

Non so che persona diventerai, nei lustri che verranno. Ma sono quasi certa che arriverà un momento in cui penserai che io non ti conosco, che non ti capisco, che non so nulla di quello che senti. E invece saprò che noi due siamo molto simili, e lo siamo sempre stati. Purtroppo e per fortuna.

Buon compleanno, mio piccolo compagno di strada. Che il tuo cammino sia dolce, lunghissimo e sempre emozionante.

8 Febbraio 2018 2 Commenti
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Mi chiamo Silvana Santo e sono una giornalista, blogger e autrice, oltre che la mamma di Davide e Flavia.

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