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donne

come sei dimagrita
life

Come sei dimagrita!

by Silvana Santo - Una mamma green 14 Maggio 2021

Vorrei vivere in un mondo in cui “come sei dimagrita!” non fosse considerato a prescindere un complimento. E neanche, se possibile, un normale argomento di conversazione. In cui smettessimo semplicemente di fare caso alle fisiologiche fluttuazioni di peso del prossimo, al punto da arrivare a farci suonare come “strana” qualsiasi osservazione sulla forma fisica di un’altra persona. Un mondo in cui l’informazione, il dibattito pubblico e le chiacchiere private prendessero a ruotare attorno al benessere psicofisico, al rapporto tra alimentazione e salute, alla sostenibilità ambientale del cibo, alla prevenzione di determinate patologie. In cui non ci sentissimo spinti a essere “magri”, tonici e “in forma” ma piuttosto a essere “sani” (e ci fosse intimamente chiaro che le due cose non sempre e non per forza coincidono).

Vorrei vivere in un mondo in cui scelte come quella di non tingersi i capelli grigi o non depilarsi le ascelle non venissero considerate come provocazioni, stranezze o atti di coraggio. Come vezzi anticonformisti, come manifestazioni di femminismo o addirittura dichiarazioni di una qualche indipendenza dalla “dittatura estetica” e dai “canoni mainstream”. Vorrei che fossero soltanto un’opzione come l’altra, altrettanto plausibile, neutra, normale, accolta dagli altri con sostanziale indifferenza. Senza alcuna connotazione di merito o di demerito, di presunta “forza” o, al contrario, di patetica scelleratezza. Vorrei che ciascuna (e ciascuno!) potesse fare le proprie scelte tricologiche, e magari cambiarle nel tempo, in assoluta e leggerissima libertà, senza doversi poi imbattere in commenti, osservazioni più o meno ipocrite e inevitabili dietrologie. Senza diventare in automatico un partigiano di una qualche fazione, un portabandiera di una certa filosofia di vita. Ma solo, banalmente, perché ha voglia di fare o non fare una cosa.

Vorrei vivere in un mondo in cui non esista il dress code. In cui tutti fossero d’accordo sul fatto che non c’è alcuna ragione naturale, fisiologica o “di rispetto”, per cui dentro un tribunale, in parlamento o ad un matrimonio sia necessario e nemmeno “opportuno” indossare una cravatta o un abito elegante. E, viceversa, andare a fare la spesa in abito lungo e tacco 12 non venisse considerata un’esagerazione, una stramberia o un atto di vanità. Vorrei vivere in un mondo in cui le uniformi avessero l’unico scopo di assicurare a chi le indossa una maggiore praticità, sicurezza e igiene, di garantire il massimo comfort o magari evitare sofferenze legate alle differenti possibilità economiche di ciascun individuo (penso per tante ragioni alle scuole, per esempio). In cui la reputazione di un avvocato, di una professoressa o perfino di una sposa prescindessero totalmente dallo stile degli abiti che sceglie per sé, e nessuno debba più sentirsi in imbarazzo o fuori contesto nel ritrovarsi con una mise più o meno elegante, ordinaria o alla moda di chi lo accompagna in una determinata esperienza.

Vorrei vivere in un mondo in cui fossero completamente rivisti i concetti di “decoro”, di “sciatteria”e trascuratezza. E che questi concetti non fossero più associati alle scelte personali in fatto di abbigliamento (la tuta è poco decorosa, il tailleur lo è abbastanza), acconciatura (la pinza per capelli non va bene, il fascinator invece sì), make up o calzature, ma solo all’accuratezza della propria igiene personale.

Vorrei, magari, vivere in un mondo in cui l’aspetto degli altri non fosse in alcun caso oggetto di giudizio, anche se inespresso. Un mondo in cui io stessa potessi liberarmi del tutto dai condizionamenti in tema di estetica e apparenze, che spesso persistono e mi insidiano nonostante i miei sforzi di consapevolezza e di libertà.

Vorrei vivere in un mondo che prima o poi esisterà, e che in alcuni luoghi e contesti – meno uniformati, meno provinciali e più disomogenei di quello in cui vivo io – forse esiste già ora. Il mondo che spero erediteranno e contribuiranno a costruire i miei figli.

14 Maggio 2021 1 Commenti
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essere madre

Madre di femmina

by Silvana Santo - Una mamma green 13 Aprile 2021

Quando ho scoperto di essere incinta per la prima volta, ho sperato con forza che fosse un maschio, e ho provato un reale sollievo quando ho saputo che sarebbe nato Davide. Non mi sentivo proprio attrezzata per essere “madre di femmina”. Io che non coltivo interessi tanto “femminili” (stando ai pregiudizi più diffusi, perlomeno). Io che non ho mai avuto l’abitudine, e forse neanche l’occasione, di condividere con mia madre quelle attività considerate prettamente “da donna”, che si tratti di una sessione di shopping o di una seduta dall’estetista. Io che in effetti non ci sono mai andata, dall’estetista, e che faccio shopping soltanto online. Io che sono cresciuta con amiche preziose, ma frequentate quasi solo in comitiva, con la compagnia sempre presente dei nostri amici, dei nostri rispettivi fidanzati, che erano allo stesso tempo amici di tutte le altre. Con la compagnia dei maschi, insomma. Io che non capisco un’acca di vestiti, trucco, borse, che non ho mai tinto i capelli in 40 anni. Io che alle commedie romantiche preferisco di gran lunga le saghe da nerd, io che da ragazza leggevo la Gazzetta dello Sport e giocavo al fantacalcio. Io che non so camminare sui tacchi e che ho un ricordo terrificante del mio addio al nubilato (non per colpa mia, questo si metta agli atti).

Mi sembrava, in un certo senso, che mi mancassero dei pezzi. Come avrei potuto rappresentare un qualche modello per una eventuale figlia? Come avrei mai saputo relazionarmi con lei con empatia ma senza immedesimazione, con cameratismo ma senza una pericolosa distorsione del mio ruolo materno? Chi le avrebbe insegnato a pettinarsi, a darsi lo smalto, ad abbinare gli accessori? Mi avrebbe trovata patetica? Sarei riuscita a piacerle, a comprenderla e a trovare un terreno comune in cui affondare radici vitali per il nostro rapporto, e sulla cui base costruire solidi ricordi per la vita?

La seconda volta che mi sono ritrovata con un test di gravidanza positivo tra le dita, appena un anno dopo la nascita del mio primo figlio, il cuore mi ha colto totalmente di sorpresa. All’improvviso mi sono accorta di avere un bisogno irrazionale, insopprimibile e del tutto inedito di avere una figlia. Una necessità quasi fisica, acuita dalla consapevolezza che non avrei avuto altre occasioni, perché sapevo bene che una terza gravidanza non l’avrei cercata mai. Tutto a un tratto, il desiderio di ritrovarmi “madre di femmina” era così forte che si manifestava nei miei sogni, tanto che ho faticosamente convinto mio marito a non farci rivelare il sesso del nascituro, perché avevo paura di non godermi abbastanza la gestazione, se mi avessero detto che aspettavo un altro maschietto.

Dal giorno del mio secondo parto cesareo, quando un’ostetrica mi informò divertita che avevo appena avuto una femmina, sono passati poco più di sei anni. Troppo presto, decisamente, per dire se sono anche solo vagamente all’altezza del compito di crescere una bambina. Di essere sua madre. Però qualcosa l’ho imparata, e in effetti era anche ora che lo facessi. Per esempio, che la femminilità non è un luogo comune e che per intendersi – per amarsi – non è necessario coltivare gli stessi interessi. Sicuramente non sarò mai in grado di insegnare a mia figlia a camminare sui tacchi, né di intrecciarle i capelli come si deve. Forse lei non si unirà mai a me e suo fratello nella visione fanatica del Signore degli Anelli o di Guerre Stellari, e forse verrà presto il giorno in cui mi giudicherà sciatta e trascurata a causa del mio aspetto fisico. Ma quando penso alla donna che mia figlia diventerà, sono insindacabilmente certa che non smetterò mai di comprenderla, di supportarla, di incoraggiarla. Di sostenerla nel proprio cammino verso la conoscenza di sé e la sua piena realizzazione. Sperando che un giorno, almeno, possa appassionarsi a Games of Thrones.

13 Aprile 2021 4 Commenti
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appello alle giovani donne
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Appello alle giovani donne

by Silvana Santo - Una mamma green 8 Marzo 2021

Ordina una birra leggera, se lo desideri. Un vino frizzante, un bicchierino di sherry. Un Cosmopolitan come Carrie Bradshow, o magari una Coca Zero. Ma se hai voglia di un rosso robusto, di una tripla cattiva, di un whisky d’annata, beh: non pensare neanche per un momento che quella sia roba che le donne non bevono.
Fatti tatuare una piuma, se ti piace. Una farfalla stilizzata, una fatina che svolazza, un dente di leone che sparge i suoi semi nel vento. Ma se preferisci un drakkar di 20 centimetri, un teschio con le orbite sgomente o un ferocissimo lupo mannaro, non osare rinunciarvi perché “non sono soggetti femminili”.

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8 Marzo 2021 0 Commenti
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lavorolife

Tornare alla normalità

by Silvana Santo - Una mamma green 22 Maggio 2020

Nelle prime settimane di quarantena, non senza imbarazzo, avevo scritto un lungo post in cui raccontavo che, tutto sommato e con l’importante eccezione dei viaggi, non sentivo poi così tanto la mancanza della mia vita “normale”. In qualche modo, purtroppo, le circostanze eccezionali in cui ci siamo trovati nostro malgrado avevano temporaneamente livellato le condizioni di vita di quasi tutti noi, almeno da alcuni punti di vista.

Le difficoltà che io – come tante altre persone, donne in primis – mi trovo ad affrontare ogni giorno da anni erano diventate all’improvviso un problema comune. Tutte hanno dovuto, dalla sera alla mattina, abituarsi a mettere ogni giorno un pranzo decente in tavola. Tutte, private senza preavviso dei servizi scolastici, si sono ritrovate a fare i conti con l’impegno quotidiano della supervisione dei compiti e della motivazione di figli talvolta reticenti, stanchi o pigri. Tutte hanno dovuto riconoscere, provandola sulla propria pelle, la difficoltà di conciliare la cura dei figli e della casa con il lavoro da remoto. E tutte hanno dovuto affrontare la spinosa questione della suddivisione del carico materiale e mentale di lavoro coi rispettivi compagni. Tutte, improvvisamente, hanno dovuto confrontarsi con la difficoltà di essere madri in un mondo che da un giorno all’altro, a causa dell’epidemia, si è ritrovato privo di servizi per le famiglie, di supporto, di sostegno. Tutte le madri italiane, esattamente come me.

Questo, in qualche modo, mi ha fatto sentire a lungo meno sola. Meno in difetto, meno penalizzata, meno sfigata. Meno perdente, se vogliamo. Finalmente, la mia realtà quotidiana non mi appariva come una vita “di serie B”, in un contesto arretrato e male amministrato. Finalmente, anche se solo per un po’, ho sentito che milioni di persone condividevano lo stesso fardello mio e di tante donne che vivono in aree d’Italia che sono penalizzate dal punto di vista dei servizi, della mentalità, delle opportunità e delle prospettive di lavoro. Ho sentito che tutti, adesso, avrebbero capito quanto può essere dura, perché lo avrebbero sentito sulla propria pelle, anche se solo per poche settimane. Per la prima volta, nonostante la disperazione per la malattia, per i morti, per il dolore di tantissime persone, ho coltivato l’illusione che le cose sarebbero davvero cambiate anche per noi, anche per me.

Solo che poi, grazie al cielo, la curva dei contagi si è appiattita, la quarantena è finita e la bolla in cui mi ero chiusa è scoppiata. E adesso, mentre tutti fremono per tornare alla rimpianta normalità, io mi trovo costretta a prendere atto che per molte di noi nulla cambierà in meglio, nemmeno questa volta. Che mentre un sacco di gente ritroverà festante la sua vita felice e moderna, chi era stato lasciato indietro – perché privato di servizi essenziali, di luoghi di aggregazione appaganti, di spazi di natura, di prospettive di lavoro e di guadagno dignitose e stabili, di un contesto culturale adeguato e moderno, di una scuola efficiente e performante – si ritroverà di nuovo, inesorabilmente, ad annaspare nelle ultime file.

Sarà per questo che il malessere che in tanti denunciavano durante il lockdown, io purtroppo lo sto vivendo adesso, in questa confusa e precipitosa “fase 2”. “Mal comune, mezzo gaudio”, dice un adagio che mi ha sempre dato fastidio e che raramente ho trovato condivisibile, ma che questa volta fotografa esattamente quello che ho provato io. Condividere temporaneamente i disagi, la solitudine e la fallace sensazione di inadeguatezza con un sacco di altre persone li aveva in effetti alleggeriti, e ora mi fa soffrire il pensiero che, per me (e non solo) la “riapertura”, anche quando sarà definitiva e totale, lascerà irrisolte tante questioni.

22 Maggio 2020 1 Commenti
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life

Breve storia dei miei disturbi alimentari

by Silvana Santo - Una mamma green 29 Novembre 2019

Ricordo distintamente il giorno in cui decisi, con una sicurezza che di rado avevo conosciuto nei primi 16 anni della mia vita, che sarei diventata una “persona magra”. Era sera, in realtà. Una delle ultime sere d’autunno, erano già cominciate le vacanze scolastiche di Natale. Presi la mia decisione e, semplicemente, la attuai. Con una ostinazione che in fondo mi appartiene, ma che in quel caso (lo avrei saputo ammettere solo molto tempo dopo) aveva in sé qualcosa di patologico.

Quella sera, e tutte le sere di vacanza successive, dissi a mia madre che avrei cenato a casa degli amici che a turno organizzavano sessioni di giochi di società, tombola e carte. A quegli stessi amici dicevo che avevo già mangiato a casa, rifiutando senza rimpianto i dolci natalizi che avevo sempre adorato (e che avrei adorato per tutta la vita). Cancellare la prima colazione dalla mia routine quotidiana fu un passo semplice, bastava raccontare di aver esagerato la sera prima. Non avevo mai mentito, prima di allora. E raramente lo avrei fatto dopo. Ma la forza del mio proposito non lasciava spazio all’esitazione, al dubbio, al senso di colpa.

A pranzo presi a giocare col cibo, a nasconderlo nei tovaglioli di carta (qualche volta anche nelle guance) e disfarmene il prima possibile. Lo gettavo nel gabinetto, fuori dalla finestra, nei giardini sotto casa. Non ricordo mal di pancia, capogiri o stanchezza. Solo la crescente serenità nel guardare allo specchio un corpo che diventava sempre più asciutto, più liscio, più spigoloso. Non ero particolarmente in sovrappeso, all’inizio di questo processo, ma alla fine arrivai a pesare intorno ai 40 chili.

Pesavo 40 chili e mi sentivo a posto. Esattamente come dovevo essere. Non era una questione estetica, non sentivo che la magrezza mi rendesse “più bella”. Portare in giro il mio corpo magro era piuttosto – ma questa è una consapevolezza che ho raggiunto ex post – un modo per distinguermi e affermare me stessa. Per smettere di essere “una persona tra le tante”. In un paradosso neanche poi così originale, assottigliarmi serviva a rendermi più visibile. Speciale. Unica. Nella mia adolescenza atipica, del tutto priva di colpi di testa, ribellioni, anticonformismi, l’anoressia diventò il sentiero da percorrere per non scomparire. Per mostrare al mondo qualcosa. Per mostrare me stessa.

Ricordo la preoccupazione crescente nella mia famiglia. Il tentativo maldestro della cara prof di Scienze, che mi prese da parte per chiedermi se al di là dei miei successi scolastici avessi una vita decente: degli amici, un ragazzo, una comitiva. E io, che tutte queste cose ce le avevo, non capivo quale fosse il punto. Ricordo la totale assenza di empatia di un’altra docente, che mi guardò con malcelato ribrezzo e mi domandò se a casa mi dessero da mangiare. Ricordo un’amica che invidiava la mia taglia 36, e faceva a gara con me a pesare sempre meno. Ricordo mia madre. Mia madre con gli occhi pieni di angoscia ma ancora più di incredulità, che mi serviva piatti enormi e calorici giorno dopo giorno, incapace di rassegnarsi al fatto che non li avrei mangiati.

Ricordo che la sola possibile reazione a qualsiasi commento era sempre la stessa: rafforzare la mia determinazione a non mangiare. Sentirmi dire che ero troppo magra non faceva che convincermi di essere sulla strada giusta. E se qualcuno, invece, sentenziava pietosamente che ora finalmente “ero in forma”, il mio cervello concludeva che evidentemente, allora, non ero ancora abbastanza magra.

Perché forse c’è poco da dire a una persona che convive con un disturbo alimentare. Ogni consiglio, ogni appello, ogni raccomandazione rischia di essere addirittura controproducente. Forse tutto quello che si può fare è esserci, dare amore, dare fiducia. Aspettando e sperando che trovi la forza in sé di liberarsi.

Io a un certo punto ho ripreso a mangiare. Perché l’ho deciso io, senza neanche dirmelo ad alta voce (a differenza della scelta inversa). Eppure una parte di me è rimasta a vent’anni fa, e rimpiange quelle scapole sporgenti e quelle anche in bella vista. Perché ci sono fantasmi che in fondo non passano mai oltre, e alla fine la cosa migliore è farci amicizia, perdonarli, convincerli con le buone che non possono tracciare sempre loro la rotta. Serve tempo, forza, pazienza, un po’ di fortuna. E serve che chi ti ama capisca anche quello che non può capire. Che chi ama te impari ad amare un pochino anche i tuoi fantasmi custodi.

Questo serve, più di tutto. Amore.

29 Novembre 2019 3 Commenti
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conciliare il lavoro con i figli grandi
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Conciliare il lavoro con i figli “grandi”

by Silvana Santo - Una mamma green 6 Novembre 2019

Conciliare il lavoro con i figli. Riuscire a gestire materialmente gli impegni professionali senza trascurare le esigenze pratiche dei bambini e le incombenze legate al loro accudimento. Un tema caldissimo e molto dibattuto, online e non solo. Una sfida spesso improba e frustrante, soprattutto per le madri, che sono ancora molto penalizzate quanto a opportunità professionali e libertà di scelta. Un tema che erroneamente viene associato solo ai genitori di bambini molto piccoli, non ancora inseriti nel percorso scolastico, e che invece, almeno per la mia esperienza di madre lavoratrice nella provincia meridionale, diventa addirittura più pressante quando i bambini raggiungono l’età scolare.

Già, perché di fatto, se vivi in un posto dove i servizi scarseggiano, conciliare il lavoro con figli in età scolare può essere paradossalmente più complicato che gestire dei bambini più piccoli. Prima di tutto, infatti, in molte zone d’Italia la scuola pubblica non offre il servizio mensa né il tempo pieno alla primaria (o, come nel caso del mio comune di residenza, che peraltro non è di certo un piccolo paese, li prevede in maniera marginale e del tutto insufficiente rispetto all’utenza), il che, banalmente, pone il problema di recuperare ogni giorno i bambini da scuola, preparare e servire loro il pranzo, occuparsi di loro per l’intero pomeriggio, tra compiti a casa, sport ed eventuali attività pomeridiane.

Per i genitori che lavorano a tempo pieno, conciliare il lavoro con i figli “grandi” diventa dunque una sfida improba, che di fatto può essere affrontata solo ricorrendo a eventuali scuole private, doposcuola a pagamento, baby sitter, driver e dintorni. Oppure, ovviamente, ai “soliti” nonni, che però non è detto che siano presenti, liberi, in salute o disponibili a occuparsi dei nipoti tutti i giorni, e per così tanto tempo (anche perché, man mano che i nipoti crescono, e l’impegno di seguirli nella loro intensa vita quotidiana si fa via via più intenso, i nonni ovviamente vanno invecchiando).

Aggiungiamo pure, nel quadro di una conciliazione già a dir poco problematica, che i congedi di maternità e paternità retribuiti al 30% sono fruibili solo fino al sesto compleanno del bambino, dopodiché restano, a disposizione dei genitori, solo permessi non retribuiti. Una situazione che può diventare di fatto un aut aut e che spesso lo diventa soprattutto per le donne, che in molti casi sono quelle con il lavoro meno stabile e meno pagato e quindi, in emergenza, più “sacrificabile”.  Non so se sia un caso, ma in classe di mio figlio molte delle madri non lavorano. E più in generale, all’uscita di scuola incrocio gli sguardi di tantissime donne, che forse hanno dovuto rinunciare a una dimensione lavorativa al di fuori della famiglia anche a causa dell’assenza di servizi e della difficoltà di conciliare il lavoro con i figli in età scolare. Personalmente, devo il relativo equilibrio in cui mi trovo al telelavoro, che però rappresenta un’opzione accessibile ancora soltanto a una sparuta minoranza di persone e che di certo non è praticabile in tutte le sfere professionali (e che comunque comporta una quantità di compromessi non facili da digerire).

La verità è che per la maggioranza delle donne italiane, soprattutto in determinati contesti territoriali, la conciliazione tra famiglia e lavoro è ancora una pallida chimera, un problema spesso senza soluzione, una vera e propria emergenza. E questo non vale solo fintantoché i figli sono piccoli, ma anche quando, relativamente “cresciuti”, hanno ancora bisogno di presenza e supporto (per certi versi anche più che negli anni della primissima infanzia). Mancano servizi, mancano strumenti di flessibilità, manca supporto. Manca la volontà, mi viene da pensare, di risolvere una volta per tutte questo problema. Di garantire alle madri una scelta davvero consapevole e libera, nella certezza di riuscire a conciliare il lavoro con i figli.

6 Novembre 2019 3 Commenti
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elogio della scuola a tempo pieno
life

Elogio della scuola a tempo pieno

by Silvana Santo - Una mamma green 29 Luglio 2019

Da quando sono nati i miei figli, ho sempre avuto la fortuna di lavorare (ad eccezione di un periodo di stop dopo la nascita di Flavia). Un lavoro autonomo (Partita Iva), nel settore della comunicazione online (scrivo per testate giornalistiche e collaboro con agenzie online in diversi settori, oltre a gestire il blog), portato avanti quasi sempre da casa, con un impegno quotidiano variabile a seconda delle annate e dei periodi. Non è stato sempre facile: la professione autonoma rischia a volte di indurti a dire troppi sì, fagocitandoti progressivamente e privandoti di pause, limiti, interruzioni. E lavorare da casa può essere da una parte frustrante, per l’assenza di interazioni sociali e di riconoscimento pubblico, e dall’altra molto stancante, perché rischi facilmente di confondere il tempo dedicato al lavoro con quello destinato, invece, alle faccende domestiche e a tutto il resto.

Eppure, in qualche modo, per sei anni la mia famiglia è riuscita a barcamenarsi, a trovare un equilibrio e a stare a galla. Con tanti compromessi e molto stress, con tante rinunce (specie, purtroppo, da pare mia), con un investimento per fortuna sostenibile in una scuola per l’infanzia privata, che i miei figli hanno cominciato quando erano molto piccoli. Ma da quando Davide ha iniziato la scuola primaria, la sfida ha raggiunto un livello superiore e l’equilibrio ormai consolidato ha richiesto uno sforzo significativo per riuscire in qualche modo a reggere. Sì, perché nel mio comune di residenza, un paesone vesuviano che sfiora i 40.000 abitanti, le scuole elementari non offrono la possibilità del tempo prolungato (esiste una sola sezione di una singola scuola che lo mette a disposizione). I bambini, quindi, tornano a casa tutti i giorni per pranzo, e devono naturalmente fare i compiti a casa.

Un impegno quotidiano importante che, se entrambi i genitori lavorano, in assenza di scuole a tempo pieno finisce col ricadere su nonni e parenti (ammesso che siano disponibili o in condizione di sobbarcarsi l’onere) o aiuti a pagamento (baby sitter, centri di doposcuola privato, personale che materialmente recupera i bambini a scuola e li porta nel “posto” dove dovranno trascorrere il pomeriggio…). La mia condizione di lavoratrice autonoma si è rivelata, da questo punto di vista, davvero privilegiata, perché ha consentito alla nostra famiglia di consolidare una nuova routine senza investire cifre che sarebbero state importanti e garantendo a nostro figlio quello che ci pare essere il supporto migliore possibile in questa fase della sua vita. Sono felice di potergli dedicare finalmente del tempo in via esclusiva, di preparargli personalmente il pranzo ogni giorno e di sostenerlo nel suo percorso scolastico appena iniziato. Ma la conciliazione tra maternità e famiglia ha richiesto inevitabilmente uno sforzo ulteriore, l’ennesimo riassetto e gli ennesimi compromessi.

Quanto sarebbe più facile, invece, conciliare tutto con una scuola a tempo pieno? Me ne sono accorta davvero in queste prime settimane d’estate, da quando Davide frequenta un campo estivo che lo tiene impegnato anche a pranzo e nelle prime ore del pomeriggio. Da quando io riesco a fare il doppio delle cose che faccio normalmente, per poi dedicarmi ai miei figli con pienezza e serenità nel resto della giornata. La possibilità di scegliere il tempo pieno a scuola farebbe la differenza per molte famiglie e, soprattutto, per molte madri che lavorano. Rappresenta un servizio minimo che dovrebbe essere garantito a tutti i cittadini, un segnale di civiltà, un’opportunità basilare. Che però, evidentemente, è ancora negata a moltissime famiglie.

29 Luglio 2019 6 Commenti
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Alle donne italiane

by Silvana Santo - Una mamma green 22 Marzo 2019

Alle donne italiane non servono bonus “per restare a casa a badare ai bambini”. Non servono stipendi per fare quello che non è un lavoro, non servono incentivi a smettere di lavorare a tempo indeterminato. Non servono nonni disposti a sostituirsi ai genitori. Non servono paghette con cui andare a comprarsi le calze mentre il marito lavora e guadagna da qualche parte.

Alle donne italiane, perché possano scegliere, se lo desiderano, di diventare madri, servono permessi retribuiti, flessibilità e telelavoro. Serve, ogni volta che è possibile, la facoltà di lavorare per obiettivi, di essere retribuite per gli standard che raggiungono piuttosto che per le ore di presenza in ufficio. Alle donne italiane servono stipendi adeguati, proporzionati alle responsabilità e, soprattutto, uguali a quelli dei colleghi maschi di pari mansione. Alle donne italiane (e non solo a loro) servono sgravi e incentivi per fare impresa, per diventare lavoratrici autonome, per produrre e creare quello che sono in grado di produrre e creare.

Alle donne italiane che vogliono diventare madri, soprattutto, servono uomini che possano fare i padri. Serve un congedo di paternità che duri mesi e che sia obbligatorio. Servono, anche per i padri, flessibilità e telelavoro ogni volta che sia possibile. Servono orari di lavoro umani, ritmi di vita più sostenibili, trasporti pubblici efficienti e accessibili, che riducano drasticamente i tempi di trasferimento da casa al lavoro. E questo, per inciso, vale anche per chi non ha alcuna voglia di fare dei figli.

Alle donne e agli uomini italiani che desiderano avere un bambino servono scuole. Che siano efficienti, versatili, che siano detraibili dalle tasse o che abbiano rette affrontabili.

Alle donne italiane che desiderano diventare madri non occorrono campagne di sensibilizzazione e allarmi sulla denatalità. Non occorrono leggi che scoraggino il divorzio o che lo rendano economicamente insostenibile. Non occorrono politiche anacronistiche che le pretendono chiuse in casa a cucinare e pulire. Tutt’altro. Alle donne italiane occorre la concreta possibilità di scegliere. La consapevolezza che avere un figlio non le escluderà dal mondo del lavoro, non le penalizzerà, non le costringerà a ridimensionarsi, a guadagnare meno, a rinunciare addirittura. A fronteggiare da sole la sfida perché tanto i loro compagni “devono lavorare” e al massimo “ci sono i nonni” o le baby sitter pagate a peso d’oro. Alle donne italiane, e agli uomini che vogliono fare dei figli insieme a loro, servono strumenti per riuscire a realizzarsi come lavoratrici e lavoratori senza dover abdicare al ruolo di genitori, senza dover delegare gli altri completamente o quasi, gratis o a pagamento. E viceversa.

22 Marzo 2019 10 Commenti
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Giornata internazionale delle donne: i miei perché su donne e uomini

by Silvana Santo - Una mamma green 8 Marzo 2019

Perché nel 90% delle case ci si aspetta che sia la donna a cucinare, mentre il 90% dei cuochi stellati, a giudicare da quel che vedo in TV, è composto da uomini?

Perché le scuole materne e primarie sono traboccanti di maestre e le aule di università sono piene di professori?

Perché alle riunioni scolastiche (che si tengono quasi sempre in pieno pomeriggio) ci sono in media il 90% di padri e il 10% di madri?

Perché nei gruppi WhatsApp delle classi vengono inserite quasi sempre le madri, perché sono le “mamme” a fare collette per i regali di compleanno, perché il fatto che nella classe di mio figlio il rappresentante dei genitori sia un papà è ritenuta una mezza “stranezza”?

Perché nelle sale d’attesa dei pediatri e dei centri vaccinali ci sono quasi solo mamme (e nonni)?

Perché, dopo una certa età, un uomo celibe è uno scapolo e una donna nubile è una zitella? Perché un uomo non monogamo è un

Perché se un uomo tradisce la moglie, la colpa è della moglie che “non ha saputo tenerselo”, o semmai dell’amante che è una “zoccola rovina famiglie”? E perché, tutto sommato, l’uomo tradisce perché è cacciatore, è nella sua natura, sparge il seme e via dicendo?

Perché se un uomo adulto si comporta in maniera puerile, la responsabilità viene spesso attribuita (in primis da altre donne) alla compagna strega e manipolatrice?

Perché un uomo brizzolato è affascinante e una donna canuta è una “vecchia” indesiderabile o al massimo una tipa naif (anche se a onor del vero su questo va un po’ meglio rispetto a qualche anno fa)?

Perché se un padre lavora 12 ore al giorno, esce a cena con gli amici, va a giocare a calcetto, parte per una trasferta o addirittura vive in un’altra città, nessuno si scandalizza? E se invece è una madre a fare queste scelte, le si ritiene apertamente inappropriate, esecrabili, pericolose per il benessere dei figli? E perché se un padre si occupa dei suoi bambini diviene in automatico oggetto di ammirazione e lusinghe, mentre che lo faccia una madre è del tutto scontato?

Una sfilza di “perché” che ho cominciato a stilare decenni fa, nel momento stesso in cui ho avuto consapevolezza di essere femmina, e che potrebbe allungarsi forse all’infinito. Una sequela di domande che, un tempo, speravo avrebbero trovato una risposta definitiva (o meglio che non avrebbero più avuto ragione di essere formulate) ben prima di oggi, e che invece, più che mai, risuonano ancora irrisolte ed emblematiche. Domande che un giorno non lontano ci porranno le nostre figlie e i nostri figli e per le quali dovremo cercare una risposta sensata, pur sapendo che l’unica risposta possibile è sempre la stessa: che siamo ancora ben lontani da una condizione realmente ugualitaria tra uomini e donne, da una condizione che non nega le differenze fisiologiche tra maschi e femmine (a cominciare dalla facoltà di partorire e allattare) né quelle individuali tra persona e persona, ma che garantisce a tutti gli stessi inalienabili diritti, le stesse opportunità di partenza, la stessa libertà di vivere un’esistenza autentica, libera e felice.

8 Marzo 2019 1 Commenti
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essere madre

Perché per me è più difficile essere madre nella provincia del sud

by Silvana Santo - Una mamma green 24 Gennaio 2019

Il posto in cui stanno crescendo i miei figli è lo stesso paesone della provincia del sud in cui, trent’anni fa, sono cresciuta io. Anche se non sono mai stata legata al mio paese in modo viscerale, questo posto rimane comunque “casa mia”, il posto in cui dopo un certo girovagare durato circa un decennio, sono alla fine tornata per mettere su famiglia. Riconosco gli innegabili lati positivi del vivere qui – fattori ambientali, economici, ma anche artistici, storici, oltre che ovviamente la presenza degli affetti familiari – ma resto in fondo convinta che, da molti punti di vista, per me la maternità sarebbe stata un’esperienza più facile altrove. E le ragioni, messe per la prima volta nero su bianco, non sono poche.

Essere madre nella provincia del sud, per me, è stato ed è difficile. Difficile perché si fanno tantissimi cesarei, ancora troppi, spesso evitabili. Perché è ancora scontato che se tuo figlio “è grande” ti debbano tagliare, magari con tre settimane abbondanti di anticipo sul termine della gravidanza, o che debbano farlo perché hai rotto le acque da qualche ora, o ancora perché la dilatazione procede lentamente. Ed è ancora difficile ottenere un parto naturale dopo uno o più cesarei.

È più difficile perché non c’è ancora adeguato supporto in materia di allattamento al seno. Perché la libertà di scelta è ancora troppo spesso negata. Perché ancora senti che danno il latte artificiale ai neonati nel nido, senza informare la madre e senza spiegarle il motivo, oppure prescrivono l’aggiunta alle dimissioni dall’ospedale, prima ancora della montata lattea. Senza una spiegazione scientifica o una ragione medica per farlo. Perché ancora senti parlare di doppia pesata, di tabelle di crescita universali e stereotipate da rispettare alla lettera, di svezzamento precoce e rigido. Perché ancora si usano aerosol e antibiotici a sproposito, magari pure con l’avallo del pediatra (ma di contro mi pare che il delirio antivaccinista non sia ancora dilagato: almeno questo…).

È più difficile perché la provincia del sud, perlomeno quella in cui vivo io, non sa cosa sia la multiculturalità. Tutti dichiarano di professare la stessa religione (con quanto fervore e quanta coerenza, poi, è un altro discorso), tutti aderiscono a determinate tradizioni, tutti, o quasi, considerano inevitabili e “naturali” determinate tappe. Chi fa scelte diverse, per esempio in fatto di sacramenti, rappresenta una sparuta minoranza, per usare un eufemismo. E deve inevitabilmente farsi carico di tutto quello che questo comporta, per sé e per i propri figli: essere diversi, essere strambi, essere “disallineati”.

È più difficile perché qui fare esperienza della diversità in senso lato – non solo religiosa, ma culturale, etnica, linguistica, finanche gastronomica – è molto difficile, perché le opportunità concrete sono poche. Devi andartele a cercare nella grande città, che comunque resta una grande città del profondo sud, con le sue peculiarità positive ma anche dei limiti evidenti. Da qui l’Europa è lontanissima, fisicamente e metaforicamente. E la provincia, per certi versi, è “più provincia” che altrove.

Essere madre nella provincia del sud è più difficile, per me, perché ancora in tanti ti dicono che sculacciare i figli è normale. Che è normale minacciarli, “ricattarli”, punirli, che è così che si educa un figlio. E se non lo fai, dovresti forse considerarti un genitore arrendevole, inetto, inadeguato. (Però poi è altrettanto normale che i bambini facciano casino dentro un cinema o una pizzeria, perché “sono bambini”. Ma questo è un altro discorso, e temo che non riguardi soltanto la provincia meridionale).

È più difficile perché mentre altrove si dibatte con sarcasmo sull’opportunità di rentrodurre i grembiulini, qui è del tutto normale andare a scuola col grembiule. Rosa o bianco per le femmine e blu per i maschi. E se altrove è pacifico che anticipare l’ingresso alla primaria sia in linea generale una cosa da evitare, qui invece l’anticipo scolastico è ancora largamente diffuso, raramente scoraggiato dalle maestre, caldeggiato dai nonni, considerato quasi un atto di “fiducia” nei confronti del proprio figlio, delle sue capacità e della sua intelligenza (tanto che io stessa, con miliardi di remore, ho fatto questa scelta, di cui vi parlerò a tempo debito).

È difficile perché il tempo pieno alla scuola primaria è ancora un miraggio (dove vivo io, per esempio, esiste una singola sezione di una singola scuola che lo mette a disposizione) e il fatto che io, probabilmente, non ne avrei comunque usufruito non fa la differenza. È difficile perché nel mio comune, che non è esattamente un paesino di 5mila abitanti, esiste una biblioteca che però non effettua il servizio di prestito libri (e allora, forse, farebbe meglio a chiamarsi in un altro modo).

È difficile perché molti considerano ancora normale esistano giochi “da femmine” e giochi “da maschio”. Sport, colori, maschere, cartoni animati, passatempi e film da femmine e da maschio. Perché le donne adulte che non lavorano sono ancora una quantità imbarazzante, perché è vero che la vita costa meno ma gli stipendi, nel settore privato, sono spesso da fame, specie per le donne.

È difficile – è questa forse è la cosa più dolorosa da scrivere – perché il senso civico scarseggia, e forse si assottiglia preoccupantemente di anno in anno. Perché le strade sono imbrattate di merda di cane, perché i cavalcavia sono ingombri di spazzatura, perché le strisce pedonali sono bloccate dalle auto parcheggiate, perché quasi nessuno usa il seggiolino per i bimbi con più di tre anni. E non è facile vivere ogni giorno in un posto così.

Perché non te ne vai? Potrebbe dirmi qualcuno, e a ragione. Perché è complicato, per tante ragioni che vanno ben oltre il lavoro, la casa e i soldi. Perché questo post, allora? Per capire se il mio è solo un preconcetto, o se altrove, in questo nostro paese sgangherato, le cose vanno davvero diversamente…

24 Gennaio 2019 20 Commenti
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Mi chiamo Silvana Santo e sono una giornalista, blogger e autrice, oltre che la mamma di Davide e Flavia.

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