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lavorare da casa

promosso o bocciato il telelavoro
lavoropost sponsorizzati

Smart working: promosso o bocciato?

by Silvana Santo - Una mamma green 18 Novembre 2020

Come vi è andata, nei mesi passati, con lo smart working? E come sta andando ora? Siete tra quelli che lavorano da casa, dopo lo scoppio della pandemia? Questo telelavoro è promosso o bocciato, secondo voi? E soprattutto, è davvero smart?

Uno smart working… poco smart

In quest’anno pazzo e ineffabile, non tutti hanno avuto la possibilità di sperimentare un vero e proprio “smart working”. Molti si sono trovati a dover fare per la prima volta esperienza di un telelavoro improvvisato, imbastito “in qualche modo” a emergenza ormai in corso, senza gli strumenti, la formazione e la flessibilità necessari. Molti hanno continuato pedissequamente a fare quello che facevano sul posto di lavoro, con gli stessi orari, le stesse riunioni, le medesime scadenze. E hanno dovuto utilizzare, magari, piattaforme, programmi e tecnologie messi a punto in fretta e furia, oppure mutuati da altre esperienze e da altre professioni. Una realtà, in effetti, che di smart non ha poi così tanto.

smart working pareri

La mia (positiva) esperienza

Ma per fortuna non è stato così per tutti. Non è stato così per me, ad esempio. Che avevo già una lunga esperienza di telelavoro e che da due anni collaboro con un’agenzia digitale estremamente “smart”, appunto, concepita proprio per lavorare da remoto e con grande flessibilità, con dipendenti e collaboratori delocalizzati in luoghi diversi e avvezzi a lavorare per obiettivi, utilizzando piattaforme ad hoc. Tutte le fasi del mio lavoro avvengono senza problemi online: l’assegnazione delle consegne con le relative scadenze, le comunicazioni con colleghi e responsabili, la verifica di quanto effettuato, le riunioni etc. Per il resto, potrei fare il mio lavoro a qualsiasi orario e in qualsiasi luogo dotato di connessione a internet. Condizioni che non sono applicabili ad ogni attività o professione, certo, ma che secondo me potrebbero essere estese a tante categorie.

Wildling Shoes: virtuosi dello smart working

È il caso, per esempio, di Wildling Shoes, un’azienda tedesca di scarpe sostenibili ed etiche (ve l’ho presentata qualche giorno fa in questo post) che già da anni lavora in modo decentralizzato e offre a quasi tutti i suoi 160 dipendenti la possibilità di lavorare in modo agile, nei luoghi e negli orari che preferiscono. Nata appena nel 2015 da una coppia di genitori, l’azienda Wildling Shoes, che nel frattempo è molto cresciuta, si fonda proprio su un sistema di lavoro flessibile e intelligente, con dipendenti che si incontrano dal vivo solo di tanto in tanto e, sulla base di un progetto condiviso, portano avanti i propri compiti in autonomia. Una formula incentrata sulla fiducia reciproca, ma anche su competenze specifiche e strumenti adeguati – dal cloud per la condivisione dei documenti alle chat aziendali, passando per software che consentono la suddivisione e il controllo dei processi di lavoro – e che ha permesso un migliore adattamento in questo periodo di crisi globale.

Il futuro è smart?

Che ne direste, dunque, dello smart working, se questo significasse poter contare su tecnologie ad hoc, dispositivi adeguati e una flessibilità maggiore? Se voi, i vostri colleghi e i vostri superiori veniste formati al lavoro agile e messi in condizione di portare avanti i vostri compiti con una certa flessibilità oraria? Per me il lavoro agile, a prescindere dal Coronavirus, è il futuro. E anche se purtroppo penalizza fortemente alcune categorie economiche – penso a bar, ristoranti, gastronomie etc – credo che possa dare un contributo significativo anche in termini di sostenibilità ambientale e di conciliazione con la famiglia. Purché, però, sia davvero smart.

telelavoro opinioni

Voi cosa ne pensate? Quanto è stato faticoso riconvertire la vostra routine lavorativa, ammesso che abbiate potuto farlo? Vi piacerebbe lavorare da casa in pianta stabile? Lo smart working è promosso o bocciato?

Post in cooperazione con Wildling Shoes

18 Novembre 2020 3 Commenti
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lavorolife

Tornare alla normalità

by Silvana Santo - Una mamma green 22 Maggio 2020

Nelle prime settimane di quarantena, non senza imbarazzo, avevo scritto un lungo post in cui raccontavo che, tutto sommato e con l’importante eccezione dei viaggi, non sentivo poi così tanto la mancanza della mia vita “normale”. In qualche modo, purtroppo, le circostanze eccezionali in cui ci siamo trovati nostro malgrado avevano temporaneamente livellato le condizioni di vita di quasi tutti noi, almeno da alcuni punti di vista.

Le difficoltà che io – come tante altre persone, donne in primis – mi trovo ad affrontare ogni giorno da anni erano diventate all’improvviso un problema comune. Tutte hanno dovuto, dalla sera alla mattina, abituarsi a mettere ogni giorno un pranzo decente in tavola. Tutte, private senza preavviso dei servizi scolastici, si sono ritrovate a fare i conti con l’impegno quotidiano della supervisione dei compiti e della motivazione di figli talvolta reticenti, stanchi o pigri. Tutte hanno dovuto riconoscere, provandola sulla propria pelle, la difficoltà di conciliare la cura dei figli e della casa con il lavoro da remoto. E tutte hanno dovuto affrontare la spinosa questione della suddivisione del carico materiale e mentale di lavoro coi rispettivi compagni. Tutte, improvvisamente, hanno dovuto confrontarsi con la difficoltà di essere madri in un mondo che da un giorno all’altro, a causa dell’epidemia, si è ritrovato privo di servizi per le famiglie, di supporto, di sostegno. Tutte le madri italiane, esattamente come me.

Questo, in qualche modo, mi ha fatto sentire a lungo meno sola. Meno in difetto, meno penalizzata, meno sfigata. Meno perdente, se vogliamo. Finalmente, la mia realtà quotidiana non mi appariva come una vita “di serie B”, in un contesto arretrato e male amministrato. Finalmente, anche se solo per un po’, ho sentito che milioni di persone condividevano lo stesso fardello mio e di tante donne che vivono in aree d’Italia che sono penalizzate dal punto di vista dei servizi, della mentalità, delle opportunità e delle prospettive di lavoro. Ho sentito che tutti, adesso, avrebbero capito quanto può essere dura, perché lo avrebbero sentito sulla propria pelle, anche se solo per poche settimane. Per la prima volta, nonostante la disperazione per la malattia, per i morti, per il dolore di tantissime persone, ho coltivato l’illusione che le cose sarebbero davvero cambiate anche per noi, anche per me.

Solo che poi, grazie al cielo, la curva dei contagi si è appiattita, la quarantena è finita e la bolla in cui mi ero chiusa è scoppiata. E adesso, mentre tutti fremono per tornare alla rimpianta normalità, io mi trovo costretta a prendere atto che per molte di noi nulla cambierà in meglio, nemmeno questa volta. Che mentre un sacco di gente ritroverà festante la sua vita felice e moderna, chi era stato lasciato indietro – perché privato di servizi essenziali, di luoghi di aggregazione appaganti, di spazi di natura, di prospettive di lavoro e di guadagno dignitose e stabili, di un contesto culturale adeguato e moderno, di una scuola efficiente e performante – si ritroverà di nuovo, inesorabilmente, ad annaspare nelle ultime file.

Sarà per questo che il malessere che in tanti denunciavano durante il lockdown, io purtroppo lo sto vivendo adesso, in questa confusa e precipitosa “fase 2”. “Mal comune, mezzo gaudio”, dice un adagio che mi ha sempre dato fastidio e che raramente ho trovato condivisibile, ma che questa volta fotografa esattamente quello che ho provato io. Condividere temporaneamente i disagi, la solitudine e la fallace sensazione di inadeguatezza con un sacco di altre persone li aveva in effetti alleggeriti, e ora mi fa soffrire il pensiero che, per me (e non solo) la “riapertura”, anche quando sarà definitiva e totale, lascerà irrisolte tante questioni.

22 Maggio 2020 1 Commenti
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coronavirus consigli per la quarantena
lavorolife

Coronavirus: piccolo decalogo della quarantena coi figli

by Silvana Santo - Una mamma green 11 Marzo 2020

Da diversi giorni siamo tutti alle prese con una esperienza nuova e non facile. La necessità di contenere la diffusione del nuovo Coronavirus ci impone di autolimitare le nostre libertà personali, di restare in casa assieme alla nostra famiglia e di rinunciare alla vita sociale. Una sfida ardua, che mette in discussione nel complesso lo stile di vita che abbiamo sempre dato per scontato. Anche se, ovviamente, la situazione che stiamo affrontando è del tutto inedita per me come per tutti gli italiani, in tanti anni di telelavoro ho avuto modo di conoscere bene le insidie dell’isolamento e della prolungata reclusione. Cominci col restare in pigiama, e metterti a lavorare direttamente a letto, e finisci col sentirti depresso e malato, anche se grazie al cielo sei in perfetta salute. Ti concedi di rallentare un po’ – il che va benissimo – ma poi ti fai prendere la mano, e ti ritrovi impantanato nell’inedia, nei ritardi, nel caos. Ecco, quindi, sulla base della mia decennale abitudine al telelavoro, un decalogo che spero possa aiutare tutti di noi ad affrontare la quarantena da Coronavirus senza impazzire e senza farci sopraffare dalla tristezza. Insieme, per quanto lontani.

1. Svegliati (quasi) alla solita ora

A prescindere dai tuoi attuali impegni di lavoro, e dall’attività didattica in cui sono impegnati i tuoi figli, cerca di mantenere dei ritmi quotidiani regolari, il più possibile simili a quelli a cui siete abituati. Anche se siamo tutti chiusi in casa, questa non è una “vacanza fuori programma”: svegliati a un orario decente, pranza e cena a orari abituali, manda a letto i bambini come se tutto stesse procedendo come al solito.

2. Non restare sempre in pigiama

Uno dei rischi principali del telelavoro, e più in generale delle giornate casalinghe, consiste nel “lasciarsi andare” e in qualche modo perdere il contatto con la realtà, trascurare se stessi e finire col sentirsi in una specie di limbo irreale. Invece, anche se ci troviamo impossibilitati a uscire, siamo per fortuna quasi tutti in buona salute, ed è opportuno comportarsi di conseguenza: non restare in pigiama, non trattenerti a letto più del dovuto, scegli una postazione di telelavoro comoda e luminosa. Abbi cura di te proprio come quando esci ogni mattina per andare al lavoro.

3. Non derogare a tutte le regole

Stiamo vivendo una esperienza unica nella storia recente del nostro Paese, e ci troviamo a trascorrere le nostre giornate in un modo del tutto insolito. È comprensibile che, per rendere più tollerabile la situazione, alcune regole vengano “ammorbidite” o parzialmente riviste. Ma far saltare completamente gli schemi abituali sarebbe deleterio, sopratutto per i bambini, che hanno già perso molti dei loro consueti punti di riferimento e che hanno bisogno di mantenere, pur con qualche salvifica eccezione, una routine abbastanza regolare. Meglio, quindi, evitare le maratone di YouTube, l’abuso di snack, i pranzi sul divano, la deroga al lavaggio dei dentini. Tra qualche settimana, se saremo bravi e tutto andrà come deve andare, i nostri figli torneranno alla loro quotidianità, ed è importante che si trovino pronti.

4. Cerca di mangiare sano

Nei momenti di apprensione, tristezza o semplice fatica, la tentazione di rifugiarsi nel comfort food è – almeno per la sottoscritta – molto forte. E non è un dramma, credo, concedersi qualche piccola gratificazione gastronomica (o alcolica!) extra. Meglio, però, non esagerare col cibo spazzatura, con gli spuntini ipercalorici o con il cibo da asporto. Altrimenti rischiamo di proteggerci efficacemente dal Coronavirus, ma di ritrovarci poi con altre problematiche.

5. Prendi un po’ d’aria con i bambini (in sicurezza per tutti)

Se hai la possibilità di farlo senza contravvenire ai decreti per contenere la diffusione del contagio, cerca di trascorrere almeno un’ora al giorno all’aria aperta insieme ai tuoi figli. Potete uscire in cortile, giardino o nelle immediate vicinanze di casa vostra, a patto di non avere contatti con altre persone, e solo se nessuno di voi avverte alcun tipo di sintomo influenzale. Cerca di proporre giochi movimentati: corsa, palla, campana, bicicletta, salti con la corda e di godere di qualche benefico raggio di sole. Se non avete la possibilità di uscire, invita i bambini a trascorrere un po’ di tempo in balcone, o almeno affacciati alla finestra.

6. Leggi e studia (e fallo fare ai tuoi figli)

Anche se non stai lavorando da casa, cerca di ritagliarti dei momenti della giornata dedicati allo studio o alla lettura, e chiedi ai tuoi figli di fare altrettanto. Stabilisci delle ore della giornata riservate al “lavoro intellettuale”, in cui cercate di restare tranquilli, magari davanti a una bella tazza di tè, e tenere in esercizio la mente.

7. Fai un po’ di moto

Oltre a tenere in allenamento il cervello, fai in modo di muoverti regolarmente anche se non puoi uscire di casa, e cerca di coinvolgere anche i bambini. Segui una lezione di fitness online, cammina sul tapis roulant, cerca un video di yoga per genitori e figli. Oppure, semplicemente, accendi la musica e comincia a ballare.

8. Resta in contatto

Isolamento non deve significare solitudine anche se, credetemi, questo rischio esiste ed è molto concreto. Anche se non siamo in grado di andare a trovare nonni, amici e parenti, possiamo chiamarli, mandare loro dei video, dei messaggi audio o delle fotografie per sentirci comunque vicini. Questa “arresti domiciliari da CoVid-19” potrebbero anche essere una buona occasione per abituare i bambini a scrivere messaggi o piccole email alle persone da cui sono prolungatamente separati.

9. Tieni la casa in ordine

In un ambiente ordinato si lavora meglio. E convivere nel caos per intere settimane equivarrebbe davvero a mettere a dura prova i nervi e la serenità dell’intera famiglia. Pur senza impazzire (né far impazzire gli altri), cerca di mantenere la casa nel solito ordine. Approfitta per fare un po’ di decluttering, eliminando il superfluo e riorganizzando gli ambienti, e coinvolgi i bambini in queste operazioni, che possono rivelarsi molto appaganti e anche divertenti.

10. Abbi pazienza

Ci saranno giorni lievi e altri pesantissimi, ore dolci e ore ingrate, abbracci e discussioni. Sarà dura. Ma passerà, e torneremo a stare insieme, senza limitazioni. A uscire, a viaggiare, ad abbracciarci. E forse saremo un po’ più consapevoli, più veri e più liberi.

11 Marzo 2020 0 Commenti
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lavorolife

Internet dipendenza

by Silvana Santo - Una mamma green 13 Febbraio 2020

INTERNET DIPENDENZA

Sono sempre stata una persona particolarmente ostinata, nel senso che se desidero qualcosa, difficilmente mi arrendo finché non riesco a centrare l’obiettivo. Eppure, anche se questo può sembrare in contraddizione con l’affermazione precedente, sono anche una che difetta spesso di forza di volontà, e che tende a essere incline alle dipendenze.

Convivo da almeno 30 anni con una forma cronica di onicofagia, che in realtà coinvolge anche le ultime falangi delle dita: per decine di volte ho smesso con successo di rosicchiarmi le mani, e in altrettanti casi ho ripreso a farlo, anche dopo mesi di “resistenza”. Ho spesso portato avanti diete (anche troppo) drastiche, perdendo diversi chili in pochi mesi, ma l’unico modo perché io riesca a dimagrire è non avere in casa patatine o altri snack di cui sono golosa e che, altrimenti, finisco col divorare in modo incontrollato. Sono arrivata, in qualche caso, a essere nauseata da certi cibi, dopo averne mangiati in modo compulsivo ed esagerato per giorni o settimane: mi è capitato con le olive, con le liquirizie ripiene, una volta finanche con i finocchi all’insalata. E quando, giovanissima, mi sono appassionata a certi giochi “punta e clicca”, ho perso il sonno per concluderli, del tutto incapace di staccarmene.

Non mi sorprende, quindi, scoprirmi costantemente a rischio di ritrovarmi imbrigliata in una dipendenza da internet, un rischio che secondo me è tanto più concreto per chi, come la sottoscritta, online ci lavora per numerose ore al giorno. Senza ipocrisie, io amo la rete. Il web è un tassello indispensabile della mia vita, mi piace e mi è di aiuto ogni giorno. È stato in rete, nel 2005, che ho scoperto l’esistenza del master che avrei frequentato pochi mesi dopo, è grazie a internet che dal 2007 ho un lavoro e un reddito da dichiarare. Sul web faccio i miei pochi acquisti personali, sul web ho incontrato alcuni amici che qualche anno fa mi hanno letteralmente salvato dal baratro e al momento sono fondamentali nella mia vita quotidiana, grazie a internet ho organizzato e vissuto tutti i miei viaggi. Grazie alla rete ho accesso a molta più musica di quanto avrei mai sognato, a eventi culturali di ogni tipo e leggo molto più di quanto farei se non mi fossi convertita al digitale, spendendo due lire per gli ebook e acquistandoli in un attimo dal caldo soffice del mio letto. E se non ci fosse stato il mio blog, e un post in particolare che ha letteralmente fatto il giro del mondo, di certo non avrei nemmeno pubblicato il mio libro.

Il web, lo ripeto, mi piace molto e penso di sfruttare abbastanza bene le sue potenzialità. Eppure sento che la dipendenza da internet è sempre in agguato nella mia vita, e devo fronteggiarne il rischio di continuo. Ci sono giornate in cui trascorro letteralmente ore sui social, ritrovandomi poi in ritardo con le scadenze di lavoro, in affanno con la cura della casa, in debito di attenzioni verso la mia famiglia. Ci sono momenti in cui arrivo a sera stanca, alienata e colpevole perché ho permesso a internet di fagocitare la mia vita, trascurando le relazioni con le persone che amo, maltrattando i miei occhi e le mie mani, sprecando tempo ed energie, non solo nervose. Ogni volta che vivo uno di questi periodi mi ritrovo più stanca, più sola, più depressa. E cerco freneticamente di correre ai ripari.

Di recente ho smesso di seguire un paio di gruppi Facebook a cui ero affezionata, e ho scelto, non senza un profondo dispiacere, di uscire da una chat di WhatsApp popolata da persone preziose ma sulla quale sentivo di aver perso il controllo. Ho cancellato un po’ di app dal mio smartphone e, quando ce la faccio, mi sforzo di allontanare fisicamente il telefono dalla mia persona, per non cadere nella tentazione di lanciare l’ennesima pigra occhiata alle notifiche. Frequento Instagram ancora meno del solito, anche se sono consapevole di quanto questa latitanza sia nociva per il mio lavoro e per la mia “reputazione online”. Eppure sono ancora fin troppo dipendente da internet, e lascio che mi succhi via ancora troppo tempo, troppa vita, troppo amore.

La mia preoccupazione maggiore è che presto la dipendenza dal web possa arrivare ad assediare i miei figli. Per questo sono molto (forse troppo?) intransigente da questo punto di vista. Per questo concedo a Davide e Flavia di usare il tablet solo in viaggio, e praticamente solo offline, e preferisco che guardino un film piuttosto che dei video su YouTube. Per questo penso che l’accesso agli smartphone debba essere il più possibile ritardato e limitato nei bambini e negli adolescenti. Perché conosco, per esperienza personale, la potenza magnetica e incontrollabile della rete, e i rischi concreti della dipendenza.

Anche se qualcosa è molto diffuso, al punto da apparirci “normale”, non vuol dire che non sia insano e potenzialmente pericoloso.

Voi cosa ne pensate? Che rapporto avete col web, e che rapporto hanno col web i vostri figli?

(Fonte immagine: imgur.com/M10bVWd)

13 Febbraio 2020 5 Commenti
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conciliare il lavoro con i figli grandi
lavoro

Conciliare il lavoro con i figli “grandi”

by Silvana Santo - Una mamma green 6 Novembre 2019

Conciliare il lavoro con i figli. Riuscire a gestire materialmente gli impegni professionali senza trascurare le esigenze pratiche dei bambini e le incombenze legate al loro accudimento. Un tema caldissimo e molto dibattuto, online e non solo. Una sfida spesso improba e frustrante, soprattutto per le madri, che sono ancora molto penalizzate quanto a opportunità professionali e libertà di scelta. Un tema che erroneamente viene associato solo ai genitori di bambini molto piccoli, non ancora inseriti nel percorso scolastico, e che invece, almeno per la mia esperienza di madre lavoratrice nella provincia meridionale, diventa addirittura più pressante quando i bambini raggiungono l’età scolare.

Già, perché di fatto, se vivi in un posto dove i servizi scarseggiano, conciliare il lavoro con figli in età scolare può essere paradossalmente più complicato che gestire dei bambini più piccoli. Prima di tutto, infatti, in molte zone d’Italia la scuola pubblica non offre il servizio mensa né il tempo pieno alla primaria (o, come nel caso del mio comune di residenza, che peraltro non è di certo un piccolo paese, li prevede in maniera marginale e del tutto insufficiente rispetto all’utenza), il che, banalmente, pone il problema di recuperare ogni giorno i bambini da scuola, preparare e servire loro il pranzo, occuparsi di loro per l’intero pomeriggio, tra compiti a casa, sport ed eventuali attività pomeridiane.

Per i genitori che lavorano a tempo pieno, conciliare il lavoro con i figli “grandi” diventa dunque una sfida improba, che di fatto può essere affrontata solo ricorrendo a eventuali scuole private, doposcuola a pagamento, baby sitter, driver e dintorni. Oppure, ovviamente, ai “soliti” nonni, che però non è detto che siano presenti, liberi, in salute o disponibili a occuparsi dei nipoti tutti i giorni, e per così tanto tempo (anche perché, man mano che i nipoti crescono, e l’impegno di seguirli nella loro intensa vita quotidiana si fa via via più intenso, i nonni ovviamente vanno invecchiando).

Aggiungiamo pure, nel quadro di una conciliazione già a dir poco problematica, che i congedi di maternità e paternità retribuiti al 30% sono fruibili solo fino al sesto compleanno del bambino, dopodiché restano, a disposizione dei genitori, solo permessi non retribuiti. Una situazione che può diventare di fatto un aut aut e che spesso lo diventa soprattutto per le donne, che in molti casi sono quelle con il lavoro meno stabile e meno pagato e quindi, in emergenza, più “sacrificabile”.  Non so se sia un caso, ma in classe di mio figlio molte delle madri non lavorano. E più in generale, all’uscita di scuola incrocio gli sguardi di tantissime donne, che forse hanno dovuto rinunciare a una dimensione lavorativa al di fuori della famiglia anche a causa dell’assenza di servizi e della difficoltà di conciliare il lavoro con i figli in età scolare. Personalmente, devo il relativo equilibrio in cui mi trovo al telelavoro, che però rappresenta un’opzione accessibile ancora soltanto a una sparuta minoranza di persone e che di certo non è praticabile in tutte le sfere professionali (e che comunque comporta una quantità di compromessi non facili da digerire).

La verità è che per la maggioranza delle donne italiane, soprattutto in determinati contesti territoriali, la conciliazione tra famiglia e lavoro è ancora una pallida chimera, un problema spesso senza soluzione, una vera e propria emergenza. E questo non vale solo fintantoché i figli sono piccoli, ma anche quando, relativamente “cresciuti”, hanno ancora bisogno di presenza e supporto (per certi versi anche più che negli anni della primissima infanzia). Mancano servizi, mancano strumenti di flessibilità, manca supporto. Manca la volontà, mi viene da pensare, di risolvere una volta per tutte questo problema. Di garantire alle madri una scelta davvero consapevole e libera, nella certezza di riuscire a conciliare il lavoro con i figli.

6 Novembre 2019 3 Commenti
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lavorolife

Il nostro (in)successo professionale non definisce il nostro valore

by Silvana Santo - Una mamma green 5 Giugno 2019

Sono entrata nel mondo del lavoro nel 2007, dopo un lungo percorso, comune a tanti, fatto di studi universitari, master, tirocini formativi, stage, ancora stage, e via dicendo. Sono entrata nel mondo del lavoro nel 2007, e da allora non ne sono mai uscita, ma in tutti questi anni ho conosciuto soltanto forme di lavoro atipiche – contratti a progetto, collaborazioni, ritenute d’acconto, partita IVA, diritti d’autore etc – e ho avuto sempre redditi incerti, irregolari e più o meno bassi. Anche se dal punto di vista strettamente economico mi considero per tanti versi una privilegiata, la mia condizione professionale è stata spesso, in questi anni, causa di frustrazione, di imbarazzo, di rimpianto. Finanche di senso di colpa, certe volte. Non è facile, dopo tutto, andarsene a testa alta per il mondo nonostante le brillanti promesse giovanili si siano rivelate così miseramente infondate. Non è facile, dopo una vita condotta da prima della classe (finanche al corso di scuola guida), rassegnarsi a finire nel girone degli sfigati.

Già, perché in qualche modo sembriamo tutti convinti che il “valore” di una persona si misuri sulla base del suo successo professionale ed economico. Che la realizzazione personale possa arrivare solo in virtù della posizione che si riesce a raggiungere sul luogo di lavoro, dell’entità del proprio stipendio, del tenore di vita che si riesce a mantenere. Pensateci. Tendiamo a definire noi stessi e gli altri sulla base del lavoro che facciamo (si dice “io sono un ingegnere”, quando la forma più corretta sarebbe “io faccio l’ingegnere”); tendiamo a considerare un “buon impiego” quello che fa guadagnare molto; tendiamo a sottolineare i risultati scolastici, sportivi e sociali dei nostri figli; tendiamo ad ammirare le persone “di successo”, più che quelle buone, amabili, empatiche. E a considerare dei falliti quelli che difettano di ambizione.

Tendiamo, e spero di estremizzare, a reputare qualcuno degno di stima, di rispetto e di ammirazione (se non addirittura di invidia) anche semplicemente in base al suo curriculum accademico, al suo ruolo professionale, al suo censo. Come se la “cultura” di una persona, e soprattutto la sua anima – concedetemi un termine desueto a parecchio naif – si misurassero esclusivamente a partire da questo tipo di parametri.

Raramente ho sentito un genitore di figli adulti compiacersi della loro felicità. Della loro integrità, della loro onestà intellettuale. Della loro rettitudine e saggezza. Del loro senso civico e dell’affetto che riescono a meritarsi da parte degli altri. Di solito, la soddisfazione brilla copiosa negli occhi di madri e padri che riferiscono di rampolli laureati con lode, impiegati con rapidità, lanciati in carriere dorate. Il che, intendiamoci, è normalissimo e sano, oltre che legittimo, e ci mancherebbe. Ma il punto è: che valore diamo a quello che le persone (a cominciare dai nostri figli) sono, al di là di quello che fanno? Siamo sicuri che una persona “di successo”, che però sia magari arrogante, cinica, anaffettiva e arrivista, meriti comunque la nostra stima e la nostra invidia?

Io ho deciso che voglio provare a liberarmi (e magari liberare anche i miei figli) dalle catene del condizionamento. Non voglio più sentirmi, come accade da anni, frustrata, inutile, patetica o fallita perché il mio lavoro è precario o sottopagato. Non voglio vergognarmi quando incontro un vecchio compagno di studi. Non voglio sentirmi in dovere di precisare, quando vado a prendere mio figlio a scuola, che “stavo lavorando al computer”. Voglio educare me stessa a sentirmi frustrata e patetica quando mi comporto male, quando sono scorretta, sleale, ipocrita. Quando non sono fedele a me stessa. Quando mi comporto come una pessima madre, moglie, amica, figlia e cittadina. E voglio riuscire a sentirmi fiera di me quando invece riesco a fare del mio meglio come essere umano, a prescindere dal “successo economico e sociale” che avrò raggiunto in quel momento. Voglio chiedermi se il lavoro che faccio, e il modo in cui lo faccio, mi rende onore come persona, al di là di quanto mi frutti o di quanto sia “prestigioso”.

E voglio che i miei figli crescano sentendo che il loro valore non si misura, o perlomeno non solo, in voti o in bonifici automatici alla fine del mese. Che devono dare sempre il massimo, ma la loro realizzazione ultima non deve passare necessariamente dal prestigio, dal riconoscimento sociale, dal conto in banca. Voglio che sentano che il loro obiettivo deve essere quello di diventare delle brave persone, in grado di migliorare la vita di chi hanno intorno. Perché questo, soltanto questo, potrà renderli davvero realizzati, risolti e felici.

5 Giugno 2019 12 Commenti
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lavorolife

Alle donne italiane

by Silvana Santo - Una mamma green 22 Marzo 2019

Alle donne italiane non servono bonus “per restare a casa a badare ai bambini”. Non servono stipendi per fare quello che non è un lavoro, non servono incentivi a smettere di lavorare a tempo indeterminato. Non servono nonni disposti a sostituirsi ai genitori. Non servono paghette con cui andare a comprarsi le calze mentre il marito lavora e guadagna da qualche parte.

Alle donne italiane, perché possano scegliere, se lo desiderano, di diventare madri, servono permessi retribuiti, flessibilità e telelavoro. Serve, ogni volta che è possibile, la facoltà di lavorare per obiettivi, di essere retribuite per gli standard che raggiungono piuttosto che per le ore di presenza in ufficio. Alle donne italiane servono stipendi adeguati, proporzionati alle responsabilità e, soprattutto, uguali a quelli dei colleghi maschi di pari mansione. Alle donne italiane (e non solo a loro) servono sgravi e incentivi per fare impresa, per diventare lavoratrici autonome, per produrre e creare quello che sono in grado di produrre e creare.

Alle donne italiane che vogliono diventare madri, soprattutto, servono uomini che possano fare i padri. Serve un congedo di paternità che duri mesi e che sia obbligatorio. Servono, anche per i padri, flessibilità e telelavoro ogni volta che sia possibile. Servono orari di lavoro umani, ritmi di vita più sostenibili, trasporti pubblici efficienti e accessibili, che riducano drasticamente i tempi di trasferimento da casa al lavoro. E questo, per inciso, vale anche per chi non ha alcuna voglia di fare dei figli.

Alle donne e agli uomini italiani che desiderano avere un bambino servono scuole. Che siano efficienti, versatili, che siano detraibili dalle tasse o che abbiano rette affrontabili.

Alle donne italiane che desiderano diventare madri non occorrono campagne di sensibilizzazione e allarmi sulla denatalità. Non occorrono leggi che scoraggino il divorzio o che lo rendano economicamente insostenibile. Non occorrono politiche anacronistiche che le pretendono chiuse in casa a cucinare e pulire. Tutt’altro. Alle donne italiane occorre la concreta possibilità di scegliere. La consapevolezza che avere un figlio non le escluderà dal mondo del lavoro, non le penalizzerà, non le costringerà a ridimensionarsi, a guadagnare meno, a rinunciare addirittura. A fronteggiare da sole la sfida perché tanto i loro compagni “devono lavorare” e al massimo “ci sono i nonni” o le baby sitter pagate a peso d’oro. Alle donne italiane, e agli uomini che vogliono fare dei figli insieme a loro, servono strumenti per riuscire a realizzarsi come lavoratrici e lavoratori senza dover abdicare al ruolo di genitori, senza dover delegare gli altri completamente o quasi, gratis o a pagamento. E viceversa.

22 Marzo 2019 10 Commenti
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mamme che lavorano in ufficio
lavorolife

Cose che invidio alle madri lavoratrici dipendenti

by Silvana Santo - Una mamma green 29 Novembre 2018

Ho lavorato in ufficio per i primi anni della mia vita professionale, con alterne soddisfazioni e non senza fatica. Da molto tempo, un po’ per scelta e un po’ per mancanza di alternative concrete, sono però una delle migliaia di donne (nel frattempo divenuta madre) che in Italia lavorano a partita Iva dal computer di casa propria. Da quando sono nati Davide e Flavia, lavoro sostanzialmente part time, con un fatturato che inesorabilmente si è ridotto, certi anni in modo molto sensibile, rispetto a qualche tempo fa. Sono ben consapevole, e molto grata, dei vantaggi che la mia condizione comporta: da un lato godo di ampia flessibilità su orari e modalità di lavoro, il che è una manna per la gestione dei figli, ma allo stesso tempo mi sento professionalmente attiva, contribuisco al bilancio familiare, trasmetto ai miei figli il messaggio per me molto importante che “anche mamma lavora”. Da ben prima di essere madre credevo che durante l’infanzia dei figli servisse una presenza (materna o paterna non conta) di quantità, oltre che di qualità, e vivo come un privilegio il fatto di poterla garantire a Davide e Flavia.

Lavorare da casa, però, non è sempre una pacchia. Specie in un contesto come quello italiano (e meridionale ancor più) in cui il telelavoro non è ancora un’opzione diffusa, conosciuta e in un certo senso “rispettata”. Ci sono quindi diverse cose che invidio alle madri lavoratrici dipendenti. E sono queste:

1. Lo stipendio fisso

La più banale, la più materiale, delle cose che invidio alle madri che lavorano in ufficio. La certezza dei propri guadagni, la loro periodicità fissa, magari (ma non è scontato) anche la loro decenza quantitativa. Tutte cose che non valgono per me. Per me che sto sempre lì a sentirmi inadeguata quando mio marito incassa il suo stipendio sicuro. Per me che devo sempre chiedermi se e quanto fatturerò il prossimo semestre. Per me che evito di pagare qualcuno che pulisca casa, perché sento di non guadagnare abbastanza e di “doverlo fare da me”, che in questa casa ci passo così tante ore.

2. La considerazione degli altri

Inutile girarci intorno: il lavoro a partita Iva, per giunta portato avanti alla scivania di casa propria, raramente è considerato da chi ha un impiego dipendente come “un lavoro vero e proprio”. Spesso è inteso alla stregua di un hobby per mogli annoiate, di una passione personale, di qualcosa da fare per riempire le giornate. Di qualcosa che tutto sommato puoi procrastinare, rimandare, che non richiede alcuno sforzo anche se hai un neonato urlante, se hai la febbre alta, se hai i figli a casa da scuola. Se sei una madre che va (con piacere) a prendere di persona suo figlio a scuola perché hai un lavoro autonomo, finisci in qualche modo col venire registrata dagli altri come “una madre che non lavora”.

3. La pausa pranzo

Che io non ho mai avuto. Prima perché, stando sola, mi limitavo a ingurgitare qualcosa di indegno davanti al computer (tanto che ho preso una decina di chili, da quando lavoro da casa). Poi perché ho smesso quasi sempre di farla (tanto che li ho persi quasi tutti, quei dieci chili di troppo). Adesso perché, non essendoci il tempo pieno alla scuola primaria, investo quel tempo per preparare il pranzo a mio figlio. E sarà così per i prossimi dieci anni e oltre.

mamma che lavora da casa

4. La vita sociale

Perché, per quanto l’ambiente di lavoro possa essere ostile o poco stimolante, rappresenta comunque una occasione di socialità. Offre il tempo e lo spazio per interagire con persone adulte, estranee alla famiglia, di condividere con altri una parte importante del proprio quotidiano. Nel bene e nel male. Perché offre anche una certa quota di momenti di pausa (per una caffè, una chiacchiera, un boccone al volo, ma anche per una lettura in metropolitana) e, si è bravi e fortunati, anche l’opportunità di belle amicizie.

5. La compartimentazione dei ruoli

Se lavori con un orario fisso, di solito, è più facile compartimentare la tua giornata. C’è il tempo per lavorare e quello, appunto, per fare tutto il resto. Ma se sei un lavoratore autonomo, se il luogo in cui lavori è lo stesso in cui vivi (e che devi tenere pulito e ordinato) e magari non sei sempre molto disciplinato, tutto rischia di diventare fluido e confuso. Hai il grande privilegio di poterti organizzare in modo da avere una mezza giornata libera, o di andare in palestra al mattino, ma ti confronti anche con la sensazione perenne di non “staccare mai”. E con il rischio concreto di sentirti sopraffatto dalle incombenze di diversa natura che fanno capolino alle tue spalle mentre siedi al computer.

6. Il rispetto dei figli

Questa, in effetti, è più che altro una mia paranoia. Ho paura che i miei figli, vista la considerazione generale del telelavoro, finiranno col ritenermi una “fallita” rispetto al loro papà e anche rispetto alle madri con un impiego più canonico. Una che in realtà non ha lavorato “davvero”.

7. Non essere “scontata” per i figli

Se sei il genitore che passa molto tempo coi suoi figli, che li segue nei compiti, che li accompagna alle attività pomeridiane, che li porta quasi sempre dal pediatra e serve loro il pranzo ogni giorno o quasi, finisci forse col diventare una presenza ordinaria e scontata. Una che tanto c’è sempre, ed è ovvio che ci sia. Non come il papà (in questo caso), che diviene l’affetto da desiderare, l’imprevisto gradito, la sorpresa dei giorni speciali.

madre che lavora da casa

Credo che, anche avendone l’opportunità, al momento non cambierei il mio lavoro autonomo con un impiego dipendente a tempo pieno. La libertà di passare tanto tempo coi miei figli, la flessibilità di fronteggiare emergenze, imprevisti e chiusure scolastiche senza dover chiedere aiuto ad altri né dover investire dei soldi, mi sembrano come ho già detto una grande fortuna. Se diventasse l’unico modo per lavorare, o se fosse economicamente indispensabile, ovviamente lo farei. Ma finché posso farne a meno, cercherò di realizzarmi come sto facendo, in modo personale e autonomo, magari provando a incrementare l’attività man mano che i figli cresceranno. Eppure non è facile. Perché nessuna condizione lo è. Nessuna situazione è perfetta, nessuna vita è priva di pieghe e pozze di oscurità.

29 Novembre 2018 2 Commenti
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essere madrelavoro

Confessioni di una mamma a tempo pieno

by Silvana Santo - Una mamma green 18 Settembre 2018

Che espressione orribile, poi. Come se un genitore potesse essere tale “a tempo parziale”. Come se una madre non fosse comunque una madre mentre si trova sul posto di lavoro. Tant’è. Sono una “mamma a tempo pieno”, anche se ho una professione (misconosciuta e sottovalutata), un reddito (magro e discontinuo), degli impegni professionali (cui, nella maggioranza dei casi, attendo dal computer di casa mia). Sono una mamma a tempo pieno, e ne sono grata. Sono felice di non dover dipendere, materialmente e moralmente, da qualcuno che si occupi dei miei figli al posto mio. Sono felice di poter gestire le chiusure scolastiche, i malanni e gli imprevisti senza andare in crisi, e senza gravare sul bilancio familiare. Sono felice di poter dedicare a Davide e Flavia una grande quantità di tempo, cercando ogni giorno di fare in modo che sia anche tempo di qualità.

Eppure, ogni tanto, mi chiedo un sacco di cose.

Mi chiedo come sarebbe uscire ogni giorno al mattino e rientrare a sera. Per sgobbare dietro una scrivania, certo. Ma anche per intrattenermi con dei colleghi, per fare quattro chiacchiere in pausa caffè, per ordinare una pizza in ufficio, ogni tanto, invece che mangiare a mensa. Mi chiedo come sarebbe la mia vita se mi trovassi a delegare necessariamente molte delle incombenze quotidiane, pagando qualcuno o facendo affidamento alla disponibilità e all’affetto di qualche familiare. Il pranzo, la logopedia, il parco giochi, le attività pomeridiane. Se non toccasse a me, per una questione banale di presenza, lo sforzo maggiore in termini educativi. Mi chiedo se mi sentirei, lavorando a tempo pieno in un’azienda, meno in dovere di sobbarcarmi la maggior parte dei compiti casalinghi e di accudimento: il pediatra, le vaccinazioni, i controlli medici, gli acquisti per la scuola e via dicendo. Mi chiedo se mi sentirei più autorizzata, avendo uno stipendio più congruo, a pagare regolarmente qualcuno perché pulisca la mia casa al posto mio.

Mi chiedo, soprattutto, come mi guarderebbero i miei figli se mi vedessero poco o niente. Se dovessero ogni giorno sentire la mia mancanza, desiderare il mio ritorno, sopportare la mia assenza. Mi amerebbero di più? Mi stimerebbero maggiormente? Perdonerebbero più facilmente i miei sbagli? Non adesso, certo. Ora che sono ancora piccoli, e non si fanno domande, io resto la presenza più amata, sempre gradita, sempre desiderata. Rimpianta e invocata quando manca. Ma quanto durerà? Cosa accadrà fra qualche anno? Diventerò ai loro occhi il genitore onnipresente e maltollerato? Quello invadente, quello petulante, quello che costituisce una presenza scontata e in qualche modo “poco emozionante”, se non addirittura fastidiosa? Quello al cui indirizzo sbuffare e sbattere porte dinanzi ai divieti, alle raccomandazioni, ai rimproveri? Lo sforzo educativo quotidiano – che è estenuante, almeno per me, molto più delle notti insonni, dei pannolini immondi e dei pianti inconsolabili – sarebbe meno logorante, se di fatto mi fosse richiesto per non più di un paio di ore al giorno? E soprattutto, sarebbe più efficace?

Tante domande, nessuna risposta. Conoscendomi, e questo mi consola, avrei probabilmente altrettanti dubbi se la mia vita fosse radicalmente diversa da quella attuale. Perché sarei in ogni caso una “mamma a tempo pieno”. E sarei comunque insicura come lo sono adesso. Perché fare il genitore è difficile comunque, specie al giorno d’oggi, e l’amore dei figli non è mai scontato. Posso solo sperare di ritrovarmi sempre con la coscienza a posto, certa di aver fatto del mio meglio. E questo sia sufficiente, se non a garantirmi la stima dei miei figli, a salvarmi dai rimpianti per tutta la vita.

18 Settembre 2018 3 Commenti
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lavorolife

Confessioni di una (madre) precaria

by Silvana Santo - Una mamma green 21 Luglio 2017

Sono una precaria fin da molto prima di essere una madre.

Nei dieci anni da quando, occupazioni giovanili a parte, bazzico il mondo del lavoro, ho lavorato con tante forme contrattuali diverse – prestazione occasionale, contratto a progetto, accordo verbale, ritenuta d’acconto, partita Iva – ma la stabilità lavorativa non mi ha mai neanche sfiorato da lontano.

Una cosa che, da principio, non mi preoccupava. Mi piaceva, all’inizio, sentirmi in qualche modo svincolata dalla routine e dalla monotonia del lavoro a tempo indeterminato. L’antidoto perfetto contro la noia, la salvezza dalla trappola degli stessi gesti ripetuti ad libitum per tutta la vita. Era la sensazione piacevole di poter cambiare prospettiva in qualsiasi momento, come avere una porta sempre aperta su orizzonti sconosciuti e potenzialmente esaltanti. Ma questo, avrei scoperto piano piano a mie spese, vale in un mercato che ti offre alternative inesauribili. Che tutela la creatività e privilegia la meritocrazia. Che riconosce il giusto valore economico e i necessari ammortizzatori anche, appunto, al lavoratore atipico. Altrimenti, lungi da essere garanzia di vivacità e dinamismo, la precarietà resta solo una condanna alla cronica preoccupazione e all’instabilità personale.

Perché il punto, quando resti precaria per anni, madre o meno, è che l’instabilità diventa una condizione quasi esistenziale. Insieme alla possibilità di fare progetti anche solo a medio termine, ti priva in qualche modo del diritto a sognare. Castra la tua immaginazione, spezza il fiato alla tua speranza. E se si associa a compensi inadeguati, finisce col minare senza rimedio la tua stessa autostima.

Io non ho mai ambito al classico lavoro di ufficio. E mi sarei annoiata a morte a fare le stesse cose per tutta la vita. Non sono arrivista né particolarmente ambiziosa, il lavoro per me è sempre stato uno strumento. Per guadagnare dignitosamente, per imparare cose nuove, per sentirsi utili. Adoro la libera professione, il fatto di gestire in totale autonomia la responsabilità e gli eventuali insuccessi, di concepire un progetto dalle sue prime fasi embrionali fino a vederlo sviluppato e compiuto. Mi piace da morire la flessibilità – mi piaceva anche prima di avere dei figli – e negli anni sono riuscita a farmi andare a genio anche il lavoro da casa.

Ma trovo che la mia esperienza, i miei studi, le mie competenze, la mia professionalità e anche il mio talento siano mortificati ogni giorno dal livello di compensi che mi vengono proposti e dal fatto di non riuscire a stabilire collaborazioni che non siano sempre disperatamente effimere.

Non mi sento una lavoratrice autonoma. Mi sento precaria e sottopagata. E non so più se la colpa sia mia – della mia scarsa intraprendenza, della poca fiducia in me stessa, della indisponibilità ad accontentarmi, delle scelte sbagliate – o del contesto in cui mi sono trovata a vivere e a lavorare.

Vorrei solo che i miei figli, domani, non dovessero pensare alla madre che hanno avuto come a una fallita. Come a una che non si è data da fare quanto avrebbe dovuto. Vorrei che mi stimassero anche se sono precaria. Magari un po’ di più di quanto riesco a fare io.

21 Luglio 2017 10 Commenti
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Mi chiamo Silvana Santo e sono una giornalista, blogger e autrice, oltre che la mamma di Davide e Flavia.

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