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Le madri che conosco

by Silvana Santo - Una mamma green 26 Marzo 2014

Le madri che conosco, quelle della mia età, sono quasi tutte laureate. Sono madri che non hanno passato l’infanzia a immaginare l’abito per il loro matrimonio o il nome dei figli che avrebbero avuto. Non soltanto, per lo meno. Le madri che conosco sono donne che hanno studiato e viaggiato. Donne che leggono, che si informano, che fanno acquisti online e pagano i conti al ristorante. Le madri che conosco sono madri che lavorano, se e quando viene loro permesso.

C’è Emme, che ogni giorno attraversa un’intera provincia per entrare in un laboratorio troppo freddo e pieno di sostanze tossiche. Veste un camice che significa molto, per lei, e lavora con una diligenza che conosco fin dai banchi di scuola. Non la pagano. Ma sta imparando tante cose e “magari prima o poi esce un bando e mi assumono, almeno per qualche mese”. Un lavoro normale, stipendiato e in regola, ha smesso di cercarlo da un po’, ma prima o poi dovrà pur ricominciare.

Erre è una brava insegnante, sapeva che questo sarebbe stato il suo mestiere fin da quando era piccola e passava le giornate dall’altra parte della cattedra. Insegna agli adulti, perché trovare un posto in una scuola, soprattutto nella sua terra di emigranti, è poco più che una fantasia. Lavora una settimana sì e tre no, attende ogni volta grappoli di giorni per essere pagata. E intanto continua ad aggiornarsi, perché un’insegnante che si rispetti deve essere una brava studentessa per tutta la vita.

C’è un’altra Emme che è appena rientrata in ufficio dopo la maternità. Quattro mesi, non un giorno di più, perché ha un contratto a progetto ed è già tanto che non abbia perso il posto quando ha annunciato la sua gravidanza. Niente permessi per l’allattamento, niente telelavoro. Solo una neonata svezzata prima del dovuto e una mole enorme di sensi di colpa.

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26 Marzo 2014 137 Commenti
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Quello che non ho

by Silvana Santo - Una mamma green 17 Marzo 2014

Quello che non ho è una tovaglia bianca.
Quello che non ho è un taglio di capelli alla moda.
Quello che non ho è un paio di scarpe eleganti.
Quello che non ho è una macchina spaziosa.
Quello che non ho è un bracciale griffato.
Quello che non ho è un vassoio di cupcakes fatti con le mie mani.
Quello che non ho è un abito bianco chiuso nell’armadio.
Quello che non ho è una lezione di yoga.
Quello che non ho è un pavimento di parquet.
Quello che non ho è il reggiseno abbinato alle mutande.
Quello che non ho è una pausa pranzo.
Quello che non ho è una giacca vintage.
Quello che non ho è un appuntamento dall’estetista.
Quello che non ho è un outfit
Quello che non ho è una casa con arredi di design.
Quello che non ho è un tailleur appena stirato.
Quello che non ho è un selfie.
Quello che non ho è un divano di pelle.
Quello che non ho è un solitario all’anulare.
Quello che non ho è un vaso pieno di fiori freschi.
Quello che non ho è un paio di mani curate.

Quello che ho è la sensazione di essere sempre in ritardo (o in anticipo?) su tutti gli altri. Di avere imboccato la strada giusta, ma nella direzione sbagliata. La sensazione che ci sia sempre qualcosa che non riesco ad afferrare, come se la lingua che parla la gente intorno a me fosse la stessa che parlo io, ma con un’inflessione differente. Quello che ho è il dubbio di non aver capito niente della vita, o di aver capito troppe cose. E questo sarebbe forse addirittura peggio.

Eppure, eppure… Quello che non ho è quel che non mi manca.

http://www.youtube.com/watch?v=NUK6c59U384

17 Marzo 2014 5 Commenti
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Di stelle cadenti e sogni nel vento

by Silvana Santo - Una mamma green 10 Marzo 2014

Da piccola aspettavo le stelle cadenti ogni notte di San Lorenzo. Le contavo: se non arrivavano a dieci si trattava senza dubbio di un’annata scadente. A primavera invece soffiavo con impegno sui denti di leone raccolti nelle aiuole cittadine. Restavo a guardare i minuscoli ciuffi bianchi perdersi nello scirocco, come tante delicate promesse di felicità. Desiderare era un imperativo. Anche se anno dopo anno, i sogni che affidavo alle stelle e al vento erano quasi sempre gli stessi. Si vede che San Lorenzo era un po’ duro d’orecchi, ed Eolo anche più sordo di lui. Un fratello, magari due. Anche una sorella sarebbe andata benissimo. Un cagnolino, almeno. Una casa accanto a quella della mia migliore amica. E poi un cugino da far guarire, un papà da tenere ancora tanto tempo accanto a me. Un fidanzato da non perdere e un amico già perduto da ritrovare.

In fondo – e me ne accorgo adesso, che ancora scruto il cielo d’estate e d’inverno, ma i soffioni ho smesso da tempo di raccoglierli – non ho mai capito con chiarezza cosa avrei voluto fare, ma ho sempre sperato di non ritrovarmi a farlo da sola. Di scorgere sempre al mio fianco qualcuno – un amico, un amore, un genitore, un cane – a cui confessare il panico e raccontare il successo, qualcuno con cui sopportare il peso, raccogliere il coraggio e andare avanti e avanti e avanti. Il mio cassetto, ora lo vedo, trabocca della paura di non avere qualcuno accanto con cui condividere i miei sogni. Sogni fatti di libri da scrivere e di viaggi da cominciare, di città in cui abitare e di volti nuovi da conoscere. Realizzati per metà e per l’altra abbandonati senza troppi rimpianti. Sogni che, appunto, parlavano e parlano di chi voglio essere, più che di cosa voglio fare. Di quello che vorrei sentire.

Nel mio cassetto, adesso che sono grande, di spazio ne è rimasto poco, ma per fortuna è sufficiente. Sufficiente per continuare a sognare la pace di chi sta bene a prescindere. Di chi ha compreso che la felicità non c’entra niente con quello che si possiede, con quello che c’è scritto nel proprio biglietto da visita, con la città in cui si vive. Non c’entra niente con i figli che hai generato e con i viaggi che puoi permetterti, con le serate mondane cui riesci a partecipare e con le dimensioni della casa in cui abiti. La felicità, in quel cassetto pieno di sogni vivi e morti, devi mettercela tu, da solo, ogni santo giorno. Ma se poi trovi qualcuno con cui condividerla, il suo sapore è ancora più dolce.

Happiness only real when shared (Alex Supertramp).

Io, intanto, sono ben felice di aver trovato tante donne speciali che hanno condiviso i loro sogni nel (e fuori dal) cassetto, a cominciare da Maddalena de Il Mezzo Mondo di Uescivà, che ha avuto l’idea di un post sui sogni nel cassetto. E proseguendo con Lucrezia di C’era una vodka, Lucia di Malanotteno, Burabacio, Ilde Mammadiludovica e Silvia A. di Meduepuntozero. Alla fine, avevo ragione io: sognare in compagnia è tutta un’altra storia!

10 Marzo 2014 14 Commenti
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Non c’è più il Carnevale degli anni ’80. Per fortuna

by Silvana Santo - Una mamma green 4 Marzo 2014

Il peggiore di tutti è stato la farfalla. A parte che da piccola non ero esattamente una silfide, ma poi avevo un paio di antennine rigide sulla testa che al confronto il Divino Otelma è uno che va in giro vestito sobrio. Però non scherzavano neanche “la primavera”, con tanto di crinoline e rondini ricamate sulla gonna, e “l’olandesina” (ma in quella circostanza, se non altro, grazie al gelo di febbraio mi furono risparmiati gli zoccoli di legno). Un’altra volta – che Dio perdoni mia madre per questo – mi piazzarono un tamburello in una mano e una specie di cappello da jolly sulla testa. La tuta che indossavo aveva più colori di un piatto cucinato da Federico di MasterChef e io somigliavo a una di quelle statuette kitsch che si usavano un tempo come bomboniere per i matrimoni.

Il Carnevale, negli anni Ottanta, era una deliberata moratoria del buon gusto, una celebrazione collettiva del poliestere e del grottesco. C’erano queste bimbette di sei anni mascherate da ballerine di flamenco e truccate come dei travestiti un po’ avanti negli anni. Minuscoli principi azzurri con brache di raso celeste sui pannolini e piume sintetiche sulle fontanelle ancora aperte. Improbabili fatine, moschettieri con l’apparecchio ai denti e Zorri che si sfilavano la maschera dopo neanche cinque minuti, diventando praticamente indistinguibili dai vari Scaramouche e D’Artagnan.

Quelli sfigati erano sempre mascherati da pagliacci e da animali. Quelli fighi, invece, si strappavano i jeans o i collant e si disegnavano un paio di simboli sulle guance, dopodiché andavano in giro dicendo di essersi “vestiti da punk”. Quasi tutti quelli che conoscevo avevano uno zio che ogni anno si vestiva da donna (chissà quanti di loro hanno avuto il fegato di fare coming out, prima o dopo).

C’erano pure le maschere razziste. Ricordo “indigeni” con l’anello al naso e “pellerossa” con finti scalpi tra le mani. Con i cosplay molto in là da venire, i più alternativi indossavano jeans e felpa, e a chi chiedeva loro da cosa fossero travestiti rispondevano con sufficienza: «Da me stesso». Non ho mai capito se fossero molto intelligenti o semplicemente parecchio codardi.

A noi che in quel martedì d’inverno smettevamo di vestire i nostri panni abituali, invece, ci trascinavano in questi studi fotografici di provincia, addobbati con palloncini, stelle filanti e fondali pacchiani. Le foto erano sempre sovraesposte e banali, io ne ho finanche qualcuna col costume in disordine.

Forse era solo che all’epoca gli italiani non avevano ancora scoperto Halloween, e allora il gusto dell’orrido che alberga in ogni madre non aveva altre occasioni di venire allo scoperto. Oppure era l’opulenza generale degli Eighties, a spingere la gente a esagerare. Con le parrucche, col cerone, con le tette finte.

Superata la fase delle sottogonne rigide e delle foto in posa, ho scoperto il piacere di mascherarmi. Di costruirmi un’altra identità, di fingere di appartenere a un mondo che non avevo mai conosciuto, almeno per un giorno. Sono stata uno spettro e un diavolo, una misteriosa donna orientale e la paziente malridotta del mio fidanzato di allora (la maschera di coppia è stata un culto nel decennio successivo). Sono stata anche un clown, solo che il mio non era sfigato. Se ne avessi l’occasione, mi travestirei ancora molto volentieri. Smetterei i miei soliti panni per vivere, un Carnevale alla volta, tutte le vite che non ho vissuto.

4 Marzo 2014 11 Commenti
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La Grande Bellezza, secondo me

by Silvana Santo - Una mamma green 3 Marzo 2014

Questa lista non c’entra niente con il film che ha appena riportato l’Oscar in Italia dopo quindici anni. Ma il titolo dell’ultima opera di Paolo Sorrentino mi ha spinto a chiedermi cosa sia per me la Grande Bellezza. Dove la scorgo, se ancora ci riesco, nel mio cammino quotidiano. Ecco che cosa mi sono risposta (sarei molto curiosa di leggere, nei commenti, nei vostri blog, o dove cavolo vi pare, la vostra versione dell’elenco).
grandebellezza2

La Grande Bellezza, per me, è un cane randagio che mi segue dinoccolato.

Sono certe coppie in là negli anni, che camminano a braccetto e non si capisce bene chi dei due sorregga l’altro.

È un libro che ti dà appuntamento ogni sera come un amante clandestino, quando tutto tace e sei finalmente sola.

Il mio gatto che strizza gli occhi quando apro le finestre al mattino.

Certe canzoni eseguite con voce e chitarra.

Le mani del padre di mio figlio.

Il mare quando è agitato o arrossato dal tramonto. E quando è piatto come una lastra d’olio, quando scintilla che sembra fatto di lustrini e quando è grigio che ricorda l’acciaio.

I campi di trifoglio.

Le scie degli aerei che si tingono di rosso al tramonto, e “chissà se ritornano o sono appena partiti”.

La luce che pulsa in certi quadri dell’Ottocento.

grande bellezzaLa pasta che danza nelle mani esperte di un pizzaiolo: un preliminare consumato su un letto di marmo sporco di farina.

I vetri che si appannano quando fuori piove.

Il muso di certe mucche.

Le insegne dei locali in qualsiasi paese straniero.

Il colore indefinibile degli occhi di mio padre.

Il fuoco, la luna e le montagne di calcare.

Marco Pantani quando gettava il berretto un attimo prima di alzarsi sui pedali.

Mio figlio che mi sorride come se nei miei occhi scorgesse la Grande Bellezza dell’intero cosmo.

3 Marzo 2014 34 Commenti
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L’amore ai tempi della cicogna. Il sesso dopo un figlio, parte seconda

by Silvana Santo - Una mamma green 9 Gennaio 2014

Cinque ragioni per le quali la nascita di un figlio fa bene all’intimità di coppia

Avete a che fare con un neonato egocentrico e temete per la sopravvivenza della vostra vita sessuale? La lettura del mio post sull’amore ai tempi della cicogna ha confermato le vostre paure più inconfessabili? Su col morale. Non tutti i mali vengono per nuocere, non c’è spina senza rosa (più o meno è così che diceva, no?) e bla bla bla. Sono seria: l’arrivo di un bimbo, per certi versi, giova all’intimità di coppia. Non ci credete? Leggete oltre.

1. I picchi di libido. L’astinenza forzata ha un certo vantaggio: il desiderio raggiunge vette degne della più selvaggia adolescenza. Livelli di zozzeria che al confronto Uccelli di Rovo è roba da educande.

2. La rinnovata fantasia. Il pupo monopolizza il letto matrimoniale? E allora via di tappeti, divani, tavoli, lavatrici, sedie, cabine armadio (come suggerisce una lettrice nel post precedente), chaise longue, vasche da bagno, box doccia, fioriere, lettiere del gatto e chi più ne ha più ne metta. Chi dice che la vita matrimoniale è monotona, non ha mai avuto un figlio piccolo addormentato nel lettone.

3. Le performance diurne. Nottate estenuanti e sovraffollate, poppate stakanoviste, turni di guardia per cambiare pannolini, scaldare biberon e cantare ninne nanne: la notte, per molti neo-genitori, non è fatta per amar. Poco male. Un pretesto per riscoprire altri momenti della giornata, in cui spesso si ha più energia e meno freddo. E qualche fisiologico turgore di cui approfittare.

4. L’effetto cielomiomarito!. Un neonato ha il sonno pesante, non sa mettersi seduto da solo e, soprattutto, capisce assai poco di quello che gli succede intorno. Ma vuoi mettere l’adrenalina addizionale da “paura di essere sgamati”? Quel brivido adulterino dell’amante occasionale? Quel silenzio forzato, quel trattenere il fiato, quella segretezza così stimolante? Quel senso del proibito che accende i sensi e spegne le inibizioni? Quel… ok, avete capito. Mi fermo qui. Prima che qualcuno si prenda la briga di iscrivermi ai ninfomani anonimi. O di chiedersi come mai la sottoscritta trovi così eccitante il sesso clandestino.

5. Amami come se fosse l’ultima volta. Quando si vive con un pochimesenne non si sa mai cosa può accadere. Dentizioni drammatiche, influenze contagiose, stitichezze dolenti, settimane insonni, eruzioni vulcaniche, siccità e locuste sono sempre in agguato. Un genitore impara molto presto, pertanto, a vivere come se non ci fosse un domani. In fatto di intimità, il concetto è: se non sai quando sarà la prossima volta, meglio impegnarsi perché questa sia davvero memorabile. Como si fuera esta noche la ultima vez.

(Nella foto sotto, un paio di picchi di libidine)

sesso dopo un figlio

9 Gennaio 2014 13 Commenti
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Povero merlo mio. Le canzoni per bambini che proprio non ti aspetti

by Silvana Santo - Una mamma green 26 Novembre 2013

Pensavo che il peggio fossero le ninne nanne razziste o raccapriccianti, ma non avevo ancora sentito nulla. Provate a dilettarvi per un paio d’ore con i grandi classici della musica per bambini – parlo di canzoni e filastrocche un po’ agée, quelle con cui è cresciuta mia madre, per dire – e capirete perché ai ragazzi di oggi piace gente come Emis Killa. Fortuna che a un certo punto è arrivato lo Zecchino d’Oro (Mariele, che Dio ti abbia in gloria).

Le canzoni per bambini classiste

Sono tra le più quotate. La più emblematica è Madama Dorè, che non solo impone alle sue “belle figlie” un matrimonio combinato, ma si premura di darle in sposa al migliore offerente, che assicurerà loro un abito nuziale ricercato e prezioso. Nella fattispecie, il prescelto è niente meno che il principe di Spagna, che, in virtù del proprio blasone, potrà scegliere addirittura “la più bella”. Sei una bella figa? Sistemati con uno pieno di soldi (dove l’ho già sentita, questa?). E il povero spazzacamino di stracci vestito? In bianco. Chi non lavora fa l’amore: io la sapevo diversa.

Un’altra chicca, forse meno conosciuta ma altrettanto significativa, si chiama, con un titolo promettente assai, Son contadinella. In questa allegra filastrocca, la protagonista si lamenta, non senza una certa dose di rassegnazione, del destino che le è toccato in sorte:

“Se fossi la regina
sarei incoronata,
ma sono contadinella
mi tocca lavorar”.

Ti tocca. Ma almeno tu prenderai la pensione da bracciante agricolo.

Il fatto che queste vittime musicali della teoria funzionalista delle classi sociali siano tutte donne ci porta di prepotenza alla categoria successiva.

Le canzoni per bambini sessiste

“La bella lavanderina” è un classico intramontabile, che a ben guardare potrebbe rientrare anche nella categoria precedente. Non solo questa sventurata fanciulla, antesignana del lavoro minorile, viene sfruttata in maniera indecente, ma deve anche, tra un fazzoletto e l’altro, mettersi a fare riverenze e penitenze (di cosa avrà mai da pentirsi, questa povera creatura?). Mancandole evidentemente l’abc della cultura sindacale, lei manco si ribella. Anzi. Raccoglie un fiore per il suo papà. Per ringraziarlo, evidentemente, di averla schiavizzata e costretta a lavar via il moccolo dai fazzoletti (dei “poverelli”, per giunta. Perché i ricchi, si sa, usavano i kleenex già 50 anni fa). Della madre non si hanno notizie. Io sospetto che sia morta sul lavoro quando la figlia aveva pochi mesi. Perché il congedo di maternità, per la mamma della lavanderina, è fuori discussione.

Le canzoni per bambini allusive

Questa categoria è stata la scoperta più sconcertante. Ma per onestà intellettuale devo riconoscere che forse è solo un parto della mia mente malata. Ditemi voi, però, cosa pensate sentendo di un ambasciatore che è arrivato (chissà dove, poi?) e che “cerca una bambina”. Che tra parentesi dev’essere una “bella bimba”. Inquietante.

Più esplicita, ma se non altro più bucolica – e pure un po’ istruttiva, alla Piero Angela, per dire – la regionale “Quell’uccellino”. Che celebra le gesta erotico-canore di una sfilza di volatili (metafora aviaria quanto mai calzante, tra l’altro)

“Quell’uccellino là sulla pianta
l’è la ch’el canta lerì-lerà
lui fa l’amor”.

E via, di strofa in strofa, con uno stormo di bollenti tortorelle che si aggiungono all’orgiastico coro. Soft porno ornitologico.

Le canzoni per bambini incoraggianti

Queste meriterebbero un post a parte, al pari delle già citate ninne nanne. Qui mi limiterò a ricordare la triste storia del piccolo naviglio che non sapea non sapea navigar. E che, per un ineluttabile quanto spietato rapporto di causa-effetto, dopo una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette settimane – e ha pure resistito parecchio! – naufragò. Che poi lui ci prova pure a risalire a galla e riprendere il mare, ma, niente da fare, lui non poté, lui non poté più navigar. Giusto per ammazzare ogni residuo di speranza. Ma le mie preferite, e non poteva essere altrimenti, sono…

Le canzoni per bambini ecoterroriste

All’inizio pensavo fosse una bella filastrocca di soggetto naturalistico. La formicuzza e il grillo: che titolo tenero. Al massimo mi aspettavo un sottofondo moralistico, ma avrei potuto sopportarlo. La prima strofa ha completato l’inganno:

“Disse lo grillo se vuoi ti sposo io
la formicuzza sono contenta anch’io
larincuinfararillalero larinciunfararilla”

L’amore interspecifico! Che meraviglia. Una meraviglia sterile, ma pur sempre una meraviglia. Ma la disillusione è arrivata poche note dopo.

“Andarono in chiesa per scambiarsi l’anello
cadde lo grillo si ruppe lo cervello
larincuinfararillalero larinciunfararilla”

Si ruppe lo cervello. Vi è chiaro, no? Comunque. Non sto qui a tediarvi con l’epopea dei soccorsi e il tamtam dei bollettini medici. Alla fine, il grillo muore. E la formicuzza si consola immaginandolo in paradiso. Poi dici che gli insetti fanno paura ai bambini (ma io quasi quasi la lancio, una linea di Teddy Bugs. Tiè).

Dulcis in fundo, lei. Il capolavoro musicale per la prima infanzia. La meraviglia in versi, la scoperta che ha cambiato per sempre la mia playlist. La terribile odissea del merlo che, un pezzo alla volta, vede il suo povero corpicino nero smembrarsi inesorabilmente, per ragioni che non è dato conoscere. Comincia col perdere il becco, ma è solo l’inizio. Una strofa dopo l’altra, senza pietà, si prosegue con la lingua, le zampe, il naso (il naso???), gli occhi, la coda e, ovviamente, le ali. E per fortuna ci vengono risparmiati gli organi interni. Povero merlo mio.

http://www.youtube.com/watch?v=632jBzpKlqQ

26 Novembre 2013 5 Commenti
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Il Royal Baby sarà un re ambientalista?

by Silvana Santo - Una mamma green 7 Agosto 2013

Se qualcuno di voi avesse passato le ultime due settimane sulla Luna, in una caldera vulcanica o, come la sottoscritta, tra le vette delle Dolomiti, sappia che lo scorso 22 luglio è venuto al mondo in una clinica londinese quello che mezzo mondo chiama simpaticamente Royal Baby, al secolo George Alexander Louis principe di Cambridge. Al di là della prevedibile attenzione mediatica sul real parto, con tanto di aggiornamenti quotidiani sulla durata del travaglio, sul tipo di allattamento scelto dalla principessa Kate e sull’arredamento della britannica nursery, il Guardian ha dedicato un articolo alla eventualità che il windsorino diventi, una volta cresciuto, un agguerrito attivista ambientale.

In effetti, suo nonno il principe Carlo sembra intenzionato a indirizzare il roialbebi sulla strada buona, visto che, stando a questa intervista di alcuni mesi fa, l’annuncio della nonnitudine lo ha reso ancora più interessato alle faccende di cambiamento climatico e simili. Secondo il columnist Nafeez Ahmed, in realtà, il giovane George potrebbe esserci costretto insieme a i suoi coetanei, a fare l’ecowarrior, a meno che la neonata generazione non voglia sopravvivere in un Pianeta pressoché raso al suolo, surriscaldato, arido, fiaccato da eventi meteorologici estremi e siccità. Un posto in cui un quarto delle specie viventi attualmente presenti sarà estinto, le barriere coralline saranno state definitivamente uccise dal riscaldamento dei mari e l’approvvigionamento energetico sarà una faccenda complicatissima con implicazioni geopolitiche da fare spavento.

Ora. Io non lo so quanto siano genuine le convinzioni ambientaliste di nonno Charles. E, a dirla tutta, non sono affatto convinta che lo stile di vita di una famiglia reale possa essere davvero eco-sostenibile. Ma auguro a questo bambino particolare, e a tutti noi con lui, di avercela sul serio, una sensibilità green. Di incontrare sul suo dorato cammino persone competenti e attente che sappiano spiegargli che tutto quello che possiede, che consuma, che riceve in dono, ha un prezzo, anche in termini ecologici, e che, se non cambiamo rotta al più presto, prima o poi anche i suoi illustri eredi saranno chiamati a pagarlo, con decenni di interessi. E se pure il futuro re d’Inghilterra non dovesse riuscire a percorrere fino in fondo una strada lastricata di verde, potrebbe almeno scegliere di indicarla ai suoi coetanei, che tra 30 anni dovranno reggere tutti insieme – anche quelli privi di sangue blu – questo nostro stanco mondo. Quella sì, che sarebbe una notizia da prima pagina.

7 Agosto 2013 5 Commenti
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Mi chiamo Silvana Santo e sono una giornalista, blogger e autrice, oltre che la mamma di Davide e Flavia.

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