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interviste

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Lasciare tutto e partire: un sogno chiamato BiCicladi

by Silvana Santo - Una mamma green 1 Agosto 2016

Ha un nome che tradisce le sue origini toscane, una bicicletta pieghevole e un sito in cui racconta le sue avventure in giro per l’Europa. Aveva anche una casa e un lavoro “normali”, ma li ha mollati di soppiatto per inseguire un soffio d’aria fresca che spirava da una finestrella aperta all’improvviso dentro di lui. E ora prova, strada facendo, ad aiutare i bambini cardiopatici dei paesi che visita. Vieri Cammelli è un viaggiatore, un blogger, ma soprattutto un sognatore. Il suo progetto, un po’ romantico e un po’ visionario, si chiama BiCicladi, e lui stesso lo racconta in questa intervista che a tratti diverte e a tratti commuove.

Cominciamo dall’inizio: che ci fai a zonzo per l’Europa in sella a una bicicletta?
Beh, ecco, ho perduto una scommessa con mio padre e la posta in palio era che avrei dovuto raggiungere la Thailandia in bicicletta. In qualche modo dovevo pur partire, no? L’Europa pertanto mi sembrava lo step iniziale più comodo … e del resto anche obbligato!

Sii serio Vieri, cosa facevi prima di partire, e come mai hai deciso di “mollare tutto e andare”?
Allora, la storia è abbastanza lunga, ma proverò a essere sintetico! Dopo una vita molto normale e 8 anni di lavoro come promotore per MSC Crociere, ho cominciato a sentire che la mia condizione era opprimente e insoddisfacente. Avevo la chiara sensazione che non “potesse essere tutto lì”. Mi ero impigrito troppo, adagiandomi nelle mie certezze e nei miei finti comfort. Se poi aggiungiamo il fatto che mi trovavo in una relazione sentimentale tanto incredibile quanto clandestina, ogni mattina mi svegliavo col desiderio di voler cambiare la mia sorte. E così ho deciso di staccare per un periodo, da tutto: ho lasciato il lavoro, ho preso una bicicletta pieghevole e sono partito per la Grecia, con l’intenzione di pedalare alle Cicladi, la scorsa estate, per un po’. Oltre ad aver visto luoghi strepitosi ed aver conosciuto persone magnifiche, ho iniziato a tenere un blog (che io considero più come un diario di viaggio) in cui giornalmente condividevo la mia esperienza con amici e famiglia. Col passare delle settimane, BiCicladi è cresciuto, ed io con lui. Diverse sono state le persone che in seguito mi hanno ringraziato per quello che ho fatto e per il modo in cui lo ho fatto, rendendomi orgoglioso e felice. Non ho mai badato alla quantità, al numero dei follower, bensì alla qualità delle emozioni trasmesse.

bicicladi blog

Ma poi dalle Cicladi sei tornato…
Esatto, e ho cercato di riprendere una vita “socialmente accettabile”, ma non ci sono riuscito.Ho accettato un lavoro, ma poi mi sono accorto che la voce del cuore era troppo più forte di quella della ragione, e non potevo più metterla a tacere. Inconsciamente avevo iniziato un percorso che sarebbe stato un peccato chiudere subito. Come se, in quei 64 giorni sulle isole greche, avessi dischiuso una finestrella verso una nuova stanza di me, dalla quale un’aria nuova aveva cominciato a spirare. Tuttavia io quella stanza ancora non ero andato a scoprirla, e sapevo che, se non l’avessi fatto, l’avrei rimpianto per il resto dei miei giorni. A 32 anni ero in un momento della mia vita in cui, senza figli, fidanzata, mutuo, lavoro, e con qualche risparmio ancora da parte, potevo farlo. E allora ho scelto di ripartire, questa volta in maniera molto più seria. Tagliando ogni tipo di radice, ipotizzando un itinerario, dedicando un budget, organizzando il minimo indispensabile e null’altro. Partire, essere di nuovo sulla strada, era il mio unico desiderio. Ed è esattamente quello che ho fatto.

Nel tuo viaggio stai visitando degli ospedali pediatrici con l’obiettivo di raccontare quello che vedi e raccogliere fondi. Qual è il tuo rapporto con i bambini?
Sono a mio agio coi bambini, mi sento me stesso e credo davvero che l’animo di un bambino sia quello che per tutta la vita dovremmo cercare di non dimenticare mai. Viviamo circondati da obblighi, doveri sociali, ansie, ambizioni inutili, falsità, disinformazione, e spesso non ricordiamo più che cosa voglia dire andare in giro scalzi, sporcarsi, non curarsi del proprio aspetto e di quello che indossiamo, sorridere con sincerità ed essere liberi. Sono felice quando, in giro per i posti che sto visitando, gioco a pallone con bambini che non conosco, o incontro i loro sguardi curiosi quando piego la bicicletta. Ci sono linguaggi che non hanno bisogno di traduzioni, e quello tra bambini è il mio preferito in assoluto. Tra le persone che più mi mancano ci sono Andrea e Giulia, i figli di mia sorella Cristina (Cristina è la bravissima blogger di OminoUovo, ndr). Hanno 2 anni e 10 mesi e li sto vedendo crescere via Facebook e WhatsApp. So che mi sto perdendo molto, ma spero di essere un giorno anche per loro una sorta di esempio da seguire. Ci sto lavorando, insomma.

E il progetto di beneficenza?
Si chiama Riding Hearts, ed è nato quasi per scherzo. In sostanza mi ripropongo di visitare strutture ospedaliere dove la onlus Bambini Cardiopatici nel Mondo presta il suo servizio, raccontando delle loro situazioni e delle missioni in cui sono impegnati. La speranza è che, così facendo, si riesca ad attivare una raccolta fondi benefica e che il mio viaggio, pertanto, non sia qualcosa per me unicamente. Anche qui non conteranno i numeri (per quanto saranno comunque importanti), bensì la qualità – o in questo caso la profondità – del messaggio che ho preso l’impegno di provare a comunicare. Qualche giorno fa ho visitato il primo ospedale per bambini, a Bucarest, e ho raccontato la mia esperienza in un post, sollecitando l’inizio della raccolta fondi (in fondo all’intervista trovate tutte le informazioni per contribuire, ndr). Poi, in corso d’opera, dovrebbero arrivarne degli altri … insomma, staremo a vedere!

 

vieri cammelli bicicladi

Qual è la cosa più importante che hai imparato nei tuoi viaggi più o meno solitari?
Devo ammettere che il “mollare tutto e partire”, quando il momento arriva, è già un viaggio in sé ed è forse il più complicato. Salutare famiglia e amici senza sapere quando avrei potuto riabbracciarli mi è costato molto. Ma la scelta era stata presa: avrei sfidato me stesso, mi sarei messo alla prova, avrei conosciuto luoghi e persone nuove, avrei appreso nuove arti e avrei fatto nuove esperienze; sarei andato a scoprire che cosa la vita tenesse in serbo per me e – cosa più importante – sarei cresciuto come uomo. Come persona.  Questo era quanto avevo già appreso nei miei viaggi precedenti, ed era arrivato il momento di continuare su quella via, lontano da stupidi pregiudizi e paure autoindotte, portando con me solo quello che davvero avrebbe potuto servirmi e lasciandomi guidare dall’istinto e dal flusso delle cose. Credo che nulla accada per caso, specialmente quando viaggi da solo. Se lo fai nella maniera giusta (o per lo meno quella che io ritengo tale), le porte che ti si aprono sono davvero innumerevoli. Verso il mondo e verso te stesso. Basta soltanto portare con sé un sorriso, imparare a dire grazie in altre lingue, non aver paura di parlare, chiedere se necessario e dare ogni volta che puoi, basando la propria vita su poco … e allora l’energia che si genera è estremamente positiva, e attrae energia dello stesso tipo. I momenti duri sono tanti, le difficoltà esistono e gli imprevisti sono sempre dietro l’angolo, ma se la base è quella allora tutto poi ti appare come un disegno. E tu non puoi che essere grato per aver imparato a considerare tutto quello che la vita ti dà – o toglie – in ogni caso, come un regalo.

Hai mai avuto paura? E voglia di tornare indietro?
Ogni giorno. E ogni giorno ci penso, soprattutto in quei momenti in cui mi sento stanco, o lontano da casa, o giù di morale, o semplicemente alle prese con problemi che non devo dimostrare a nulla e nessuno di essere in grado di superare. Ma poi penso che, se mi lasciassi vincere da quei pochi attimi di scoramento e tornassi indietro adesso, sarei sì rilassato, circondato da affetti e magari anche felice, ma lo sarei soltanto per pochi giorni. Poi tornerei a provare quell’irrequietezza che ho sempre in qualche modo provato, con l’aggravante però che, a quel punto, i rimpianti e i rimorsi avrebbero il sopravvento. Oltre a ciò, non avrei più modo di vivere tutte quelle meravigliose esperienze che ho la fortuna di poter vivere adesso, e condividerle con tutte quelle persone che stanno “viaggiando insieme a me” … quindi per ora non se ne parla proprio! 🙂

bulgaria bicicladi

Utilizzi un pannello solare per ricaricare i tuoi dispositivi: quanto è importante per te la sostenibilità ambientale?
Faccio molta attenzione a questo tema. Non è un caso che, da quando mi è stata rubata l’auto (proprio appena rientrato dalla Grecia … chiaramente un segno!), mi sono sempre spostato unicamente con mezzi e bicicletta. E non è un caso che abbia scelto una bici pieghevole per il mio viaggio, dal momento che mi consente di avere totale libertà nei miei spostamenti, scegliendo quando muovermi su due ruote e quando invece usare treni o autobus. Il pannello solare, invece, ho pensato che potesse tornarmi utile nel caso in cui decida di pedalare per diversi giorni di fila, campeggiando per la notte dove capita e servendomene così per ricaricare i devices con cui viaggio. Per ora, a essere sinceri, lo ho utilizzato ancora poco … ma è davvero un gran bell’aggeggio. Mi permette di essere autonomo al 100% e di poter mantenere il mio viaggio a impatto zero quasi del tutto! Una piccola menzione vorrei spenderla così per Brompton Italia, Brompton Junction Milano e Tregoo, per aver creduto in me e nel progetto, e per avermi fornito parte del materiale con cui viaggio. Sono loro gli unici sponsor, puramente tecnici, che ho cercato e voluto come compagni di avventura.

Quali sono i tuoi progetti futuri? Fin dove vuoi arrivare in sella alla tua bici pieghevole?
Beh, in questo esatto momento mi trovo a Belgrado, al 43 esimo giorno di viaggio, trascorso per ora quasi unicamente nei Balcani. Da qui la mia idea è di pedalare verso Nord, lungo il Danubio, passando Serbia, Ungheria, Slovacchia, quindi Polonia e paesi Baltici. Da lì arrivare a Helsinki, richiedere il visto per la Russia e poi salire sulla Transiberiana. Infine Mongolia e Cina, oppure chissà quali altri paesi, per arrivare fino in Thailandia. E poi lì si vedrà. Magari mi fermerò prima da qualche parte, magari deciderò di continuare, magari troverò una buona proposta di lavoro, magari scriverò un libro o magari mi innamorerò e metterò radici.
Sia chiaro, non voglio vivere la mia vita da vagabondo. Mi manca la mia famiglia, mi mancano i miei amici e so anche che ci sono altre cose che mancano nella mia vita in questo momento: un luogo dove potermi considerare “a casa” e senz’altro un amore. Ma entrambe queste cose è più facile che ora le incontri sulla mia strada, piuttosto che rimanendo fermo dove sono sempre stato.
Un porto sicuro e un luogo che è casa mia del resto c’è già è ci sarà sempre, e so che presto ci tornerò. Quando avrò scoperto che cosa c’era in quella stanza che tanto volevo andare a vedere, e così sarò completo. Senza rimpianti, sarò pronto per ritornare e ricominciare. Sperando, nel frattempo, di aver contribuito a creare qualcosa di buono. E, perché no, di essere tornato ad essere un uomo capace di ricordare che cosa voglia dire essere bambino.

 

Per supportare la onlus Bambini cardiopatici del mondo cliccare qui oppure effettuare una donazione con le seguenti coordinate:

BONIFICO BANCARIO

Credito Valtellinese
Piazza San Fedele, 4 – 20121 Milano
IBAN: IT26I0521601630000000006880
SWIFT: BPCVIT25

CONTO CORRENTE POSTALE
Conto Corrente Postale N.28507200
Int. a Bambini Cardiopatici nel Mondo
Via Olmetto 5, 20123 Milano

Come causale, indicare “BiCicladi – Il Cuore di Giampy”.

1 Agosto 2016 0 Commenti
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gravidanza e partointerviste

Perdere un figlio: intervista sulla maternità interrotta

by Silvana Santo - Una mamma green 27 Luglio 2016

Erika Zerbini è genovese, ed è madre di cinque figli. Tre di loro stanno crescendo accanto a lei, le altre due sono morte mentre le stava ancora aspettando. Da allora, Erika cerca di condividere il più possibile la sua esperienza di madre interrotta (anche attraverso il suo blog Professionemamma.net e diversi libri sull’argomento), per aiutare altri genitori in lutto, e contribuire a rompere certi tabù e preconcetti che ancora sopravvivono intorno alla morte perinatale. Le ho fatto alcune domande, in qualche caso piuttosto crude: ecco come mi ha risposto.

Come stai, adesso? Come sei riuscita a superare il dolore di perdere un figlio, o almeno a conviverci?

C’è stato un momento preciso in cui ho capito che avevo mosso quel passo fondamentale per tornare a stare bene: ho accettato. In realtà mi ha condotto lì l’obiettivo che mi sono posta tanti anni fa e che nemmeno queste esperienze sono riuscite a cancellare: io volevo stare bene, volevo fare della mia vita una bella vita. Per tornare a stare bene l’unica via era quella di accettare e fare i conti con la mia umanità. Con la mancanza di controllo rispetto a questioni piuttosto importanti come la vita e la morte dei propri figli. Ho imparato a vivere senza di loro, a non soffrire di quel silenzio, a fare dell’assenza un luogo che sa di loro, non necessariamente doloroso, poiché anche per loro la morte è venuta solo dopo la vita, esistenze che abbiamo condiviso, di cui conservo ricordi dolcissimi e gioiosi. Da allora io sto bene, vivo pienamente.

Parli mai con la tua famiglia e i tuoi amici delle figlie che hai perduto? In che termini?

Sì, certo. A volte capita di parlarne. Nel periodo della loro attesa abbiamo condiviso molti momenti gioiosi: vacanze, gite, un Natale e anche un Capodanno. Molti momenti felici dettati anche dalla loro presenza. Quindi capita di parlare di loro mentre ricordiamo queste occasioni o riguardiamo le foto. Non è un tabù, perciò non esiste la difficoltà di non sapere come parlarne. Se ne parla normalmente, come si parla di un qualunque familiare che non c’è più e a cui abbiamo voluto bene.

Cosa avresti voluto che ti dicessero, mentre affrontavi i tuoi lutti, e invece non è mai successo?

Le persone più vicine a me hanno saputo essere di sostegno. Più che dirmi qualcosa, hanno mostrato interesse per me, per il mio dolore e mi hanno permesso di raccontare loro come stavo. Mi sono state vicino. Altro è giunto dalle persone meno in confidenza con noi, a partire dagli operatori della salute. La mancanza più grave è stata quella di non averci detto che avremmo potuto scegliere se seppellire noi nostra figlia. Lo abbiamo scoperto alcuni giorni dopo e la sensazione è stata quella di non avere avuto dignità di genitori, di famiglia. Abbiamo avvertito che per loro la nostra bambina non aveva la dignità di un figlio vero.

Cosa sarebbe cambiato, se vi avessero dato questa possibilità?

Cosa si fa quando si perde un familiare? È immediata l’organizzazione della sua sepoltura: un rito che per me ha un grande significato. Si è materialmente occupati a fare qualcosa, si prendono decisioni, si segue un percorso fatto di tappe, si giunge in un luogo, il cimitero, in cui si offre un posto certo al proprio caro. È un luogo in cui si può tornare con la sensazione di ritrovarlo. Per noi, questo percorso, pur molto doloroso, significava avere l’occasione di fare i genitori delle nostre figlie. Compiere tutti i gesti, rendersi materialmente conto che erano morte davvero, perciò erano vissute davvero.

Il commento, o il silenzio, che più ti ha fatto soffrire?

Di commenti inappropriati ne ho sentiti molti, ma quello più disarmante è stato: “Va be’, tanto ne hai altre due”. Avere altri figli azzera il diritto di soffrire per quelli morti. Anzi, è per i figli vivi che si deve andare avanti, come se non fosse altrettanto plausibile morire per quelli morti. È come se i figli non fossero davvero tutti uguali, non avessero tutti pari dignità e la loro singolare importanza, come se l’amore che suscitano dipenda dal loro essere in vita oppure no.

Che differenza c’è, secondo te, tra perdere un figlio in pancia e uno che invece è già nato?

In termini di dolore, credo nessuna. Nessun genitore è programmato per sopravvivere ai propri figli. È un fatto inconcepibile e difficilissimo da digerire. La sostanziale differenza sta nella reazione sociale. Quando si viene a conoscenza della morte di un bambino si prova dispiacere per i genitori che devono sopportare la sua morte, ci si domanda come potranno riuscirci, ci si stringe intorno a loro, si mostra incredulità, pena e si tenta di dare conforto. Si partecipa al funerale, si mostra la propria presenza. Si ricorda quel bambino, anche a distanza di tempo. Si riconosce il dolore dei suoi genitori, lo sconcerto per quella sorte nefasta. Invece, quando muore un bambino in attesa, non accade nulla di tutto ciò. È come se quel figlio non fosse mai esistito, non ha maturato lo status di ‘bambino’, piuttosto è considerato un tentativo non riuscito. Si può sempre ritentare, magari si sarà più fortunati. Questo ignorare e negare accresce il dolore, la rabbia, la solitudine. Una solitudine devastante: un ventre vuoto, braccia vuote, talvolta una casa da svuotare di cose che nessuno userà più e il vuoto delle persone intorno.

Quali sono i luoghi comuni più difficili da cancellare a proposito di lutto perinatale?

Uno dei luoghi comuni contro cui mi scontro è proprio quello di non considerare figli gli embrioni e i feti morti durante la gravidanza. Sono definiti prodotti del concepimento, materiale abortivo, legalmente sono definiti ‘mai nati’. Invece sono nati. Tutti. Nascere significa venire al mondo, essere dati alla luce’. Non occorre vivere per nascere. Non occorre nemmeno venire al mondo attraverso un parto naturale per essere considerati nati, vedi tutti i bambini nati da un taglio cesareo. Se cominciassimo ad ammettere che sono nati, anche se piccoli in termini di età e di dimensioni, finalmente non ci sarebbero più dubbi: le donne dalle quali sono usciti, in effetti, sono le loro madri e gli uomini accanto a loro, i padri. Insomma, siamo in presenza di una famiglia. Una famiglia chiamata a fare i conti con un dolore enorme, che ha bisogno di essere rispettata e accompagnata lungo le tappe del suo percorso di elaborazione del lutto.

Come possono, le persone vicine, aiutare una coppia di genitori che sta affrontando una maternità interrotta?

Legittimando il loro essere famiglia di un bimbo che non c’è più. Legittimando il loro dolore. Senza ignorare quanto è accaduto loro, permettendo loro di raccontare e raccontarsi. Non occorrono risposte o soluzioni: alla morte non c’è rimedio. È però molto importante esserci: non lasciarli soli.

Il principale riferimento in Italia in tema di lutto perinatale è l’associazione CiaoLapo Onlus, attiva dal 2006 nel sostegno alle famiglie che affrontano il dolore della perdita, nella ricerca scientifica e nella diffusione della cultura del lutto in gravidanza e dopo la nascita tra gli addetti ai lavori e nella società. Chiunque avesse bisogno di informazioni, sostegno, indicazioni pratiche su come gestire la morte di un figlio in utero o dopo il parto (sepoltura, procedure burocratiche, consigli etc) può consultare il sito web dell’associazione CiaoLapo.

27 Luglio 2016 2 Commenti
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interviste

Quel tempo perso per sempre: intervista sulla depressione post partum

by Silvana Santo - Una mamma green 22 Luglio 2016

Valentina Colmi è una giornalista e blogger, ed è la mamma di Paola e di Vittoria. Il nome della sua secondogenita non è stato scelto a caso, ma per celebrare la liberazione di sua madre dalla depressione post partum, che l’aveva quasi spezzata dopo la nascita della prima figlia. Valentina scrive di depressione perinatale nel suo sito Post-partum.it, e a questo tema così importante e ancora così sottovalutato, ha dedicato il suo libro Out of the Blue – Rinascere Mamma, edito da Lazy Book in formato digitale (lo trovate su Amazon e nei principali store della rete). L’ho intervistata perché la sua vicenda, per tanti versi, è la vicenda di molte. E poi perché mi piacciono tanto le storie a lieto fine.

Cosa avresti voluto che facessero i tuoi cari quando avevi la depressione post partum, e cosa invece non è accaduto?

In realtà quando stavo male ho avuto l’appoggio dell’unica persona che in quel momento stava vivendo con me tutto il dramma, ovvero mio marito. Su questo posso dire di essere stata molto fortunata, visto che non ha mai reagito negativamente quando stavo male, anzi mi consolava e soprattutto c’era. La mia famiglia – intendo i miei genitori – probabilmente non ha capito subito che si trattava di qualcosa di più che una semplice tristezza e mi dicevano in continuazione di tornare alla normalità. Avrei forse voluto essere presa più sul serio.

Come hai fatto a capire che avevi bisogno di aiuto, e cosa hai fatto per chiederlo?

A tre mesi dalla nascita di Paola, il senso di angoscia che provavo non si attenuava. Mi attanagliava, mi sentivo sempre arrabbiata, ansiosa, in prigione. Per questo ho deciso di chiedere aiuto. In rete ho trovato l’indirizzo dell’Ospedale Niguarda: ho telefonato e da lì ho preso un appuntamento per iniziare le sedute. Una delle decisioni migliori che potessi prendere.

Ci sono stati commenti, silenzi o comportamenti che hanno ulteriormente aggravato la tua sofferenza per la depressione post partum?

No, perché in realtà non lo sapeva nessuno tranne mio marito. Avevo bisogno di vivere questo percorso da sola, senza avere addosso sguardi preoccupati. Ai miei genitori l’ho detto solo a terapia avanzata.

Nel tuo libro mi è sembrato di percepire una certa rabbia per la scarsa attenzione che si rivolge alla depressione post partum. Cosa, in particolare, andrebbe fatto sul piano sociale e sanitario per prevenirla e curarla?

Hai detto bene. Io ho ancora una grande rabbia per quello che mi è successo, perché per me Paola non è esistita per cinque mesi e quel tempo non me lo ridarà più nessuno. Eppure non mi avevano avvisato che sarebbe potuto accadere; al corso pre parto hanno dipinto la maternità come il momento più bello della vita. Pensa che l’incontro con lo psicologo era facoltativo! Io non l’ho frequentato perché credevo con molta superficialità che a me non sarebbe capitato nulla, che la depressione post partum non mi avrebbe sfiorato. Da una parte quindi dovrebbe esserci più informazione e prevenzione – ci sono ottimi progetti che però vengono chiusi per mancanza di fondi – e dall’altra le future madri non dovrebbero trincerarsi dietro a frasi tipo “è un periodo felice, non voglio sentire notizie negative”, perché poi è molto peggio. D’altronde chi l’ha detto che le donne incinte non debbano essere toccate da nulla del mondo esterno?

Quando aspettavo il mio primo figlio ho vissuto un periodo di profonda angoscia e insicurezza, che ha lasciato strascichi coi quali ancora combatto. La depressione può colpire anche prima del parto? Perché non se ne parla mai?

Certo, la depressione può colpire anche prima del parto e si chiama appunto depressione pre partum. Ha più o meno gli stessi sintomi di quella post: ansia, sensazione di non farcela e soprattutto ambivalenza nei confronti del nascituro. Molto spesso le future mamme tendono a reprimere queste sensazioni, magari dandosi delle colpe. È importante invece che sappiano che l’ambivalenza – quando è sana – permette di costruire un rapporto sincero e profondo con il proprio bambino. Non se ne parla per quello che ti dicevo prima: la gravidanza viene definita “stato di grazia”, come si fa a turbare questo cliché?

Cosa diresti a una mamma che non si sente felice come tutti le dicono che dovrebbe essere?

Innanzitutto che è molto coraggiosa e che fa bene a dirlo. E poi di non avere timori a parlarne prima con le persone che le vogliono bene e poi con un terapeuta.

E a una ragazza che sta per diventare madre?

Ad una ragazza che sta per diventare madre direi solo una cosa: “Prima di essere madre sei una persona, anche se dopo che avrai partorito comincerai ad essere conosciuta come “la mamma di” non più con il tuo nome. Tuo figlio avrà bisogno di te e delle tue cure, ma lui non è te e per questo non sentirti indispensabile”.

Come si fa a capire che si ha la depressione post partum?

Purtroppo i sintomi sono tanti e variabili, per questo si fa fatica ad avere una diagnosi adeguata. Possono andare da cause organiche (per esempio un brutto parto o un cesareo difficile) a psicologiche (ad esempio il rapporto con la propria madre), alla condizione economica, al compagno o marito inesistente. In genere si manifestano ansia, pianto improvviso e immotivato, stanchezza, si dorme troppo o troppo poco (ci si sveglia perché si teme che il bambino possa stare male), scarso appetito o eccessivo consumo di cibo a tavola, si perde l’interesse per la vita di tutti i giorni, fino ad arrivare a pensieri di morte verso sé stesse. Questi sintomi si presentano generalmente tra la sesta e la dodicesima settimana dopo la nascita e devono essere continuativi per più di due settimane.

Come stai oggi?

Ho finito la psicoterapia e devo dire che sto bene. Sono piuttosto stanca perché le mie figlie sono molto impegnative, ma rifarei tutto ciò che mi ha portato fino a qui, depressione post partum compresa.

22 Luglio 2016 3 Commenti
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gioielli con latte materno
allattamentointerviste

Gioielli con latte materno: intervista alla mamma che li crea

by Silvana Santo - Una mamma green 25 Maggio 2016

Per qualcuno è un’idea morbosa e vagamente fetish, per altri un ricordo dolcissimo e prezioso. Di certo si tratta di una trovata originale e destinata a far discutere. Pamela Cosentino è una mamma di Trento che, per prima in Italia, ha iniziato a disegnare e realizzare (e vendere) accessori e gioielli con latte materno. Meravigliando probabilmente anche lei stessa, la sua attività, che ha battezzato Ricordi sotto chiave, è diventata un piccolo business nel giro di pochi mesi. Le mamme le inviano da tutta Italia un po’ del loro latte, che lei tratta e “fissa” utilizzando tecniche particolari che prevedono l’uso di una resina trasparente. L’oro di mamma si trasforma in questo modo in pendenti, anelli, orecchini, charms e molti altri tipi di monili, tutti rigorosamente personalizzabili. L’effetto finale somiglia un po’ a quello della madreperla, ma le sfumature di colore e la trasparenza variano molto da persona a persona, in base alle caratteristiche uniche del latte di ogni madre. Attualmente, Pamela ha oltre millecinquecento mamme in coda per avere una delle sue creazioni personalizzate, e il suo lavoro si avvale anche di alcune collaboratrici, a loro volta mamme e clienti entusiaste di Ricordi sotto chiave.

Dopo essermi imbattuta nel suo sito e nelle sue creazioni, ho deciso di farle qualche domanda per capire meglio cosa c’è dietro la realizzazione dei suoi gioielli con latte materno, e quali sono state le reazioni della rete di fronte alla sua iniziativa così particolare.

gioielli latte materno capelli

Realizzare gioielli con latte materno: da dove hai ricavato l’idea?
Navigando in internet ho trovato una mamma oltre oceano che creava gioielli con latte materno. Così mi sono interessata e ho iniziato a studiare i vari procedimenti per la loro realizzazione. Ho fatto mille prove, fino a quando, dopo un paio di mesi di tentativi, ho trovato la tecnica che mi soddisfa, il giusto rapporto tra componenti in grado di mantenere inalterato il colore e bloccare il processo di deterioramento, inglobando in modo perfetto il latte all’interno del gioiello.

Quanto tempo richiede la realizzazione di un singolo gioiello? Come hai imparato?
Ogni singolo gioiello richiede due o tre ore di lavorazione vera e propria e dalle 24 alle 48 ore in tutto a partire dall’inizio del procedimento fino al suo completamento. Ho imparato facendo tantissime prove e studiando attentamente ogni singolo prodotto, le reazioni dei vari componenti e i tempi di lavorazione. Tanti fallimenti hanno portato ad una tecnica finale affinata e soddisfacente

gioiellilatte5Non sei preoccupata per i rischi sanitari della tua attività? Che tipo di precauzioni usi?
Per i rischi sanitari ho adottato tutte le cautele e gli accorgimenti necessari. Sono in possesso di certificazioni sanitarie in quanto anche titolare di bar e ristoranti, per cui conosco bene le norme igienico-sanitarie da rispettare sui luoghi di lavoro. In particolare, uso sempre dei dispositivi individuali di sicurezza, come guanti, mascherine e grembiuli, e le mie lavorazioni vengono fatte tutte con bicchieri e palette usa e getta. Inoltre, i miei stampi contengono solo materiali atossici e derivati da alghe, il che riduce ulteriormente i rischi per la mia salute.

Stando ai commenti in rete, per qualcuno farsi fare un gioiello di latte materno (ma anche capelli e cordone ombelicale) è una scelta un po’ morbosa. Cosa rispondi alle critiche?
È giusto che ognuno abbia la sua opinione. Io inglobo ricordi per chi questo momento – l’allattamento – ha o ha avuto un valore inestimabile come lo ha per me. È una esperienza che nessuno può capire se non la vive in prima persona, il trovarci da soli io e mio figlio, le coccole, le carezze senza interferenza di terzi. È un momento magico nostro, che mi piaceva immortalare attraverso oggetti che fossero anche belli e unici.

Come giudicano la tua attività le mamme che non hanno allattato al seno i propri figli?
Non credo che possano capire, ma io adoro spiegare sempre e comunque i miei perché.

gioiellilatte4

Qual è il complimento più bello che hai ricevuto da una mamma per cui hai creato uno dei tuoi gioielli con latte materno?
Non ce n’è uno in particolare. Io leggo sempre i feedback sul mio gruppo Facebook e sul sito di Ricordi sotto Chiave, oltre alle tante lettere che mi arrivano e mi sento una persona fortunata e onorata di poter conoscere tante persone meravigliose e tante storie diverse. Non ricordo un commento o un ringraziamento speciale, quanto la soddisfazione di essere scelta dalle madri per occuparmi di momenti indimenticabili delle loro vite. Ad oggi penso di aver già superato le 250 mamme che si sono affidate al mio lavoro, e questo per me vale più di tutti i complimenti del mondo.

Info e ordini: www.ricordisottochiave.it

25 Maggio 2016 7 Commenti
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neonato doula
gravidanza e partointerviste

Doula: istruzioni per l’uso

by Silvana Santo - Una mamma green 30 Marzo 2015

Si scrive doula, si legge “assistente alle maternità”. Si tratta di una figura comparsa recentemente nel panorama professionale italiano che, dietro compenso e dopo un percorso formativo che si attua presso associazioni presenti sul territorio, si propone di assistere, attraverso consigli, sostegno e supporto morale, le gestanti e le puerpere durante la gravidanza e dopo la nascita del bambino. Un ruolo che nel nostro paese è ancora poco conosciuto e parecchio controverso (tanto da scatenare accuse di abuso della professione medica e proteste più generali da parte della Federazione nazionale dei collegi delle Ostetriche).

Per saperne di più, ho fatto qualche domanda a Cinzia Calise, una doula della mia regione, la Campania. Ecco quello che mi ha raccontato.

Che cos’è una doula e di cosa si occupa?
La doula è una donna che da un supporto emotivo alla madre (e alle famiglie) prima durante e dopo il parto; Potrebbe essere definita una facilitatrice….o anche una “compagna di viaggio” per le future madri e le neomamme. Durante la gravidanza ascolta i bisogni della futura mamma, la accompagna e le fornisce informazioni sull’attesa e su quello che sta accadendo al suo corpo. Durante il travaglio e il parto le sta accanto, la sostiene, eventualmente alternandosi al partner. Dopo la nascita, invece, aiuta la mamma e la famiglia a “riorganizzarsi” con serenità e tranquillità per un “buon inizio”. Si tratta insomma di una donna che sta al fianco di un’altra donna mentre quest’ultima vive un momento di grande trasformazione. Le sta accanto senza giudizio ma aiutandola a far emergere ciò che sente e desidera…

Che differenza c’è rispetto a un’ostetrica o a una puericultrice?
Sono figure assolutamente non paragonabili perché queste sono figure professionali sanitarie, la doula no. Non effettua diagnosi, non compie interventi di tipo “medico”.

Come rispondi alle accuse di abuso di professione medica da parte di alcuni collegi di Ostetriche? Non temi che le donne possano optare per l’assistenza di una doula al posto dell’ostetrica e trovarsi in situazioni difficili dal punto di vista sanitario?
Ti ringrazio per questa domanda che mi permette di chiarire un concetto molto importante: la doula non è una figura sanitaria con competenze mediche, ma una donna, formata per questo, che è accanto alle mamme per aiutarle in modo pratico e le ascolta senza giudizio. L’associazione attraverso la quale mi sono formata io lo precisa bene nella propria Carta Etica, in cui si legge, per l’appunto, che “la doula non è una figura sanitaria, non è un terapeuta né un paramedico. L’accompagnamento di una doula non sostituisce, in alcun caso, né l’ostetrica né il ginecologo. La doula non compie alcun atto medico, non fornisce pareri medici e non ha alcuna competenza medica per seguire da un punto di vista clinico una gravidanza ed un parto”.

Come si fa a diventare una doula?
Esistono diverse associazioni che hanno una loro scuola di formazione per doule. Non voglio fare pubblicità a nessuna, è sufficiente andare su internet e cercare “formazione doula”.

A chi consiglieresti il ricorso a una doula?
È una scelta molto personale, auspicabile non solo laddove possano esserci problemi di organizzazione (tipo un parto gemellare o quando si ha un altro bambino molto piccolo). La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda la presenza di una doula accanto alla mamma. Secondo dati statistici, appunto dell’OMS, la presenza di una doula può facilitare tutte le fasi riguardanti gravidanza, parto e puerperio.

Quante ce ne sono in Italia, e come fare a trovarne una?
Ormai anche in Italia la figura della doula è più conosciuta rispetto al passato. Soprattutto al Centro Nord ce ne sono parecchie, mentre qui al Sud siamo ancora poche. Chi volesse cercarne una può farlo attraverso una delle varie associazioni esistenti sul territorio.
E voi cosa ne pensate? Vi siete avvalse dell’aiuto di una doula, o prevedete di farlo per una prossima gravidanza? Avreste voluto, ma poi avete cambiato opinione? Dite la vostra nei commenti o su Facebook (io non faccio testo, ho avvisato il mondo – inclusa mia madre – della mia gravidanza direttamente al quinto mese, e non ho voluto nessuno, a parte mio marito, nemmeno al momento dei parti).

30 Marzo 2015 6 Commenti
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intervistelibri

Davide è caduto nel libro di fiabe, o di una magia chiamata Dodini

by Silvana Santo - Una mamma green 18 Marzo 2015

Silvia Azzolina è una madre, una mia amica e molte, moltissime altre cose. Una ex film producer, ad esempio, che si è saputa reinventare freelance e blogger dopo aver perso il lavoro in seguito alla maternità (dove l’ho già sentita, questa?). I Dodini, libri personalizzabili ed “ecologici” per bimbi fino ai 7 anni, sono il suo più recente e geniale progetto. In questa intervista ci racconta cosa sono e come sono nati (e alla fine del post vi dico come è stato realizzarne uno per Davide, e poi leggerglielo prima di andare a dormire).

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Cosa sono i Dodini, Silvia?

I Dodini sono libri illustrati originali e personalizzabili con il nome e il viso del tuo bambino. I libri si personalizzano direttamente on-line sul nostro sito, www.idodini.com; basta registrarsi, caricare le foto del proprio bambino e scegliere via via quale si vuole utilizzare per personalizzare le illustrazioni (ce ne sono 5 o 6 a libro). Al termine del processo si può scegliere se si vuole il libro di carta (che verrà spedito a casa oppure si può ritirare in sede da noi a Milano), o se invece si preferisce il libro digitale, da sfogliare sul tablet (che sarà immediatamente disponibile per il download).

I titoli disponibili e quelli in preparazione? Qual è il target a cui si rivolgono, per quali fasce di età sono pensati?

Per ora il libri in collana sono 4, adatti a bimbi tra 1 e 7 anni circa. Ogni storia ha un target di riferimento rispetto all’età ed è declinata sia al maschile sia al femminile. Anche la lingua in cui il libro è scritto si può scegliere: per ora sono disponibili italiano e inglese, ma ci auguriamo di aggiungere presto tutte le principali lingue europee. Ci sono storie che partono da una fiaba tradizionale per stravolgerla (il lupo e la nonna di Cappuccetto Rosso che diventano amiconi e vanno a vivere insieme a causa di una sbornia della nonna, per esempio, oppure Cenerentola che scappa col cocchiere perché il Principe è bruttissimo…) , quelle che raccontano ai bambini le loro paure (per adesso abbiamo la paura del Mare, che va fortissimo in casa mia!) e poi c’è una storia per i più piccoli: quella di una bimba, o un bimbo, che cadono in un libro di fiabe e cercano di uscire interpellando i personaggi delle fiabe tradizionali perché li aiutino a tornare dalla mamma. Abbiamo moltissime storie in cantiere ma prima dobbiamo aspettare di raccogliere qualche frutto per riassorbire almeno in parte l’investimento iniziale.

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Come avviene la creazione del libro da parte dell’utente e quanto tempo richiede? Occorrono particolari abilità o dispositivi tecnologici avanzati?

Come dicevo, il processo è molto semplice: è necessario registrarsi in modo di avere una propria area personale in cui caricare e gestire le fotografie, poi basta seguire poche semplici istruzioni e in 15 minuti al massimo il gioco è fatto! Basta avere un computer direi: il processo di personalizzazione non è ancora ottimizzato per tablet, si può fare, ma è molto più faticoso. Una formula fruibile dal tablet sarà uno dei prossimi sviluppi del progetto.

Perché un libro personalizzato? Non bastavano le migliaia di pubblicazioni per bambini già disponibili sul mercato?

Innanzi tutto i libri non bastano mai! Il fatto di personalizzare un libro in cui il bambino si veda protagonista con il suo nome e il suo viso non fa che aumentare il naturale processo di immedesimazione che è connaturato alla lettura. Leggere uno dei Dodini travalica l’esperienza di lettura tradizionale, permettendo di vivere una piccola avventura. Per la nostra esperienza, i bambini si entusiasmano nel trovarsi dentro il libro, ridono da matti e vogliono leggere ancora e ancora. Attraverso la storia narrata i bambini fanno esperienza del mondo di fuori e risolvono piccoli conflitti interiori: trovarsi dentro la storia dà una spinta ulteriore a questo processo.

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Tu in quale storia vorresti finire?

Dentro “Chi ha cambiato la storia di Cenerentola?”, senza ombra di dubbio: per tirare i capelli alle sorellastre, dare la sveglia alla fata madrina, giocare a rubamazzo con i topi e soprattutto, aiutare Cenerentola a scappare con il bel cocchiere, lasciando il Principe in braghe di tela…anzi, dentro un saio…

Dodini per lettori “grandi”, perché no? Possiamo aspettarceli?

Se intendi “adulti” forse no. Sicuramente abbiamo una serie di idee per adattare l’idea a bambini più grandi e ad adolescenti. Proprio per aiutarci a crescere abbiamo lanciato un crowdfunding. Sai quanto sia difficile trovare finanziamenti al giorno d’oggi no? Le banche sono off-limits e così abbiamo pensato di rivolgerci alla gente normale. Questo è il link alla pagina della nostra campagna su Indiegogo.

Postilla: il Dodino di Davide

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Realizzare online il Dodino per Davide è stato semplice e divertente. Anzi, direi più proprimente rilassante, che per noi mamme esaurit musltitasking è quasi una parola magica. Per una di quelle meravigliose coincidenze che capitano ogni tanto, la storia che ho scelto è illustrata da un’altra mia conoscenza geniale, Sabrina Ferrero alias Burabacio, e racconta di un bimbo che finisce all’improvviso in un libro di fiabe. Non è stato difficile scegliere quattro o cinque foto di Davide perfette per l’occasione, e in pochi passaggi e una ventina di minuti ho ultimato la personalizzazione del Dodino.

Ho scelto poi la versione cartacea, realizzata in carta ecologica senza cloro e con inchiostro atossico certificato per uso alimentare, che mi è stata recapitata nel giro di due o tre giorni lavorativi. Sfogliarlo mi ha fatto una tenerezza indicibile, leggerlo per Davide è stato particolrmente emozionante: anche se lui parla ancora pochissimo, la luce a nei suoi occhi è stata più eloquente di mille esclamazioni di meraviglia. Non vedo l’ora che sia in grado di chiedermi come è possibile che nel suo libro ci siano proprio il suo nome e la sua faccia.

Ho già pronta la risposta: “Ma come, non ti ricordi di quel giorno in cui sei caduto nel libro di fiabe?”

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18 Marzo 2015 4 Commenti
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Viaggiare con i bambini: intervista a Milly Marchioni di Bimbieviaggi.it

by Silvana Santo - Una mamma green 23 Dicembre 2014

Quali sono (se ci sono) le difficoltà da mettere in conto prima di partire per un viaggio con i bambini? Quali i consigli da seguire e le mete da evitare? E soprattutto, perché viaggiare in compagnia dei propri figli piccoli? L’ho chiesto a Milly Marchioni, mamma viaggiatrice e vulcanica ideatrice del sito web Bimbieviaggi.it (che vi invito a visitare, se foste tra i pochi che non lo conoscono ancora). Da viaggiatrice impenitente quale sono, non posso che sottoscrivere tutte le sue risposte!

Quando hai iniziato a viaggiare? Eri già una viaggiatrice esperta quando sei diventata mamma?
Non saprei dirti esattamente quando sono diventata “viaggiatrice”, ma probabilmente, per come intendo io il viaggio (scoperta, approccio curioso e rispettoso verso la destinazione…), lo sono sempre stata. Da piccola ho sempre girovagato per l’Italia con i miei genitori, soprattutto in montagna, cambiando ogni anno meta e scoprendo ogni volta nuovi posti e nuove tradizioni.  Il primo volo intercontinentale invece l’ho preso nel 2002, dopo la Laurea, e mi si è aperto un mondo, nel vero senso della parola…Da lì non ho più smesso di volare, ma neanche di dedicarmi alla scoperta degli angoli nascosti del nostro paese, spesso troppo sottovalutati.

Che differenza c’è tra un viaggio con i figli e una vacanza child-free? Qual è la difficoltà maggiore da mettere in conto e quale la scoperta più gradita?
La differenza tra il “prima” ed il “dopo” è molto soggettiva, e dipende quasi esclusivamente dal modo in cui ci facciamo condizionare dalla realtà e dal giudizio degli altri.  Nel nostro caso, con la nascita di Amanda è cambiata solo parzialmente la parte “organizzativa” del viaggio, mentre il tipo di destinazione è rimasto invariato. Amavamo le isole tropicali prima, abbiamo continuato a visitarle con lei dopo. Semplicemente siamo stati più attenti alle strutture scelte, alla situazione igienico-sanitaria del paese visitato e alla scelta del volo più comodo. Non è stato semplice perchè portare a spasso per il mondo la creatura più importante della mia vita mi spaventava molto, ma non ho voluto farmi frenare dalle paure e dai condizionamenti di chi mi diceva che con i bimbi non si può viaggiare. Quindi a 5 mesi abbiamo preso il primo volo in 3 (fiori di Bach in tasca e via) ed è stato stupendo. All’inizio partivo con mille cose in valigia, perchè sono una precisina, poi, superati svezzamento e pannolini, anche il bagaglio si è alleggerito e oggi che Amanda ha 7 anni è una viaggiatrice al nostro stesso livello! Con un enorme vantaggio: l’occhio attento e curioso e l’approccio giocoso che ha verso ogni piccola novità che incontriamo lungo i nostri tragitti, che ha contagiato anche noi, spingendoci ad apprezzare ancora di più ogni scoperta!

Un viaggio in famiglia è alla portata anche di chi, prima di diventare genitore, non era abituato a spostarsi troppo?
Io credo che ciascuno debba fare sempre e solo quello che si sente e che lo fa stare bene! Se una famiglia è abituata a fare vacanze in villaggi all inclusive con animazione, deve continuare a fare così, per vivere un’esperienza appagante e trasmettere belle emozioni ai bambini. Io preferisco viaggi itineranti organizzati in modo indipendente, perché sono quelli che mi fanno stare meglio, quindi continuo così.

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Che consiglio daresti a chi appresta a partire per la prima volta con un bambino?
L’unico consiglio che posso dare è di non ascoltare i consigli degli altri! 😉
Scherzi a parte, è importante informarsi e partire preparati, ma è indispensabile non farsi condizionare troppo, soprattutto da chi fa “terrorismo psicologico” (non reggerà mai 6 ore di volo, non dormirà più per colpa del jet lag, ecc…). I bimbi hanno delle potenzialità che neanche immaginiamo e non dobbiamo assolutamente sottovalutarli: sono molto più bravi di noi ad adattarsi, soprattutto se noi svolgiamo bene il nostro compito di stare tranquilli e farli sentire a loro agio sempre, in aereo come in ogni paese del mondo. Detto ciò, qualche consiglio pratico per essere preparati ad eventuali piccoli inconvenienti è meglio ascoltarlo, ma senza farsi condizionare troppo.

Tre destinazioni assolutamente imperdibili con un neonato, un bimbo in età prescolare e un figlio un po’ più grande?
Uh, qui faccio proprio fatica a rispondere, proprio perché -come dicevo prima- ciascuno deve ritagliare viaggi e vacanze sulle proprie passioni. Quindi posso dirti quelle che sono state mete imperdibili per me:
– le Maldive, dove scappare per riprendersi dai lunghi inverni in città, anche con bimbi piccolissimi
– lo Sri Lanka, una meta facile da visitare ma che racchiude in sé tante esperienze educative (vedere come vivono i bambini dall’altra parte del mondo, partecipare a semplici safari, scoprire un’altra religione…)
– ogni altro paese e città del mondo con bimbi più grandi, che magari a scuola ne stanno studiando la storia!

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23 Dicembre 2014 7 Commenti
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Elimination Communication: intervista a una mamma che ha rinunciato ai pannolini

by Silvana Santo - Una mamma green 4 Dicembre 2014
Photo ©Cora Simone

Photo ©Cora Simone

Devo ammetterlo. La prima volta che ne ho scritto, io stessa non sono riuscita a nascondere un certo scetticismo. Abituare un neonato al vasino, attraverso la cosiddetta EC (Elimination Communication), mi è sempre parsa un’impresa davvero troppo ardua, riservata a poche coppie di genitori volenterosi e, in un certo senso, privilegiati. Adesso mi è capitata l’occasione per saperne di più, attraverso l’incontro virtuale con Cecilia, una madre che ci ha provato con successo, tanto da mettersi a studiare per insegnare questo “sistema” anche ad altri genitori.

Penso che la sua testimonianza possa essere interessante per tutti, a prescindere dalle scelte che poi ciascun genitore fa per la propria famiglia.

In cosa consiste la “tecnica” dell’EC? Quali sono i suoi vantaggi?
La EC (Elimination Communication, o comunicazione dell’evacuazione in italiano) è una modalità di interazione con i bambini piccoli che, volendo fin dalla nascita, supporta la loro consapevolezza innata rispetto ai propri bisogni fisiologici e alla pulizia propria e di chi li cura, e che evita quindi la dipendenza dal pannolino. Ci sono delle tecniche che favoriscono questa comunicazione, basate sull’osservazione del bambino, sul buon senso e a volte anche sull’istinto dei genitori. I vantaggi maggiori, dal punto di vista personale, sono una interazione col bambino più profonda e consapevole, il rispetto per le capacità innate del bambino e il supporto che ricevono, il rinforzo delle intuizioni dei genitori, tutte aree che nella nostra cultura sono un po’ svalutate.

E sul piano “materiale?
Dal punto di vista pratico, si conquista una facilità incredibile nel pulire i bambini anche dopo la cacca più impensabile (basta un po’ d’acqua o una salvietta); una minore incidenza dell’eritema da pannolino, se non la sua totale assenza; una ridotta dipendenza dal pannolino stesso, che porta quindi a poter effettuare lo spannolinamento prima e con modalità diverse rispetto a quelle predominanti; e per chi usa i pannolini lavabili certamente un carico ridotto di pannolini da pulire. Dal punto di vista della salvaguardia ambientale, poi, c’è una enorme riduzione della quantità di pannolini gettati nella spazzatura. Questo ha ovviamente anche un impatto notevolmente positivo sulle finanze familiari. Infine, quando si è trattato di portare campioni al dottore, raccoglierli è stato relativamente facile: un dettaglio che non avrei apprezzato se non mi fosse servito di farlo, ma che si è rivelato utilissimo.

Messa così, sembra la panacea di tutti i mali… Ci saranno anche delle difficoltà?
Le difficoltà maggiori per noi sono stati la stanchezza che vince su tutto, anche su idee e ideali, sfidare i pregiudizi nostri e di chi ci circonda nell’imparare a fidarci davvero di nostro figlio, nel credere che un essere così piccolo possa davvero essere in grado di avere una comunicazione tanto precisa dei suoi bisogni, e infine i periodi in cui l’EC non sembrava funzionare, per cui la tentazione di ricorrere al pannolino e dimenticarsi tutto era fortissima.

Tu quando hai iniziato? Ci racconti la tua esperienza?
Io ho cominciato quando mio figlio aveva circa 6 settimane. Non conoscevo l’EC prima, ma durante l’allattamento avevo cominciato a ricercare la marca e tipologia migliore di pannolini lavabili e, dopo aver trovato vari riferimenti all’EC, mi sono documentata meglio e mi sono entusiasmata (tanto che ora sto seguendo un corso per diventarne insegnante sia per gruppi che per singole famiglie). Pur non avendo esclusivamente usato l’EC e in particolare avendo scelto di non usarla di notte, sia io che mio marito l’abbiamo incorporata nella nostra consapevolezza e nella nostra routine di accudimento del bambino, con percentuali di successo e di costanza variabili (a volte, appunto, la stanchezza vince su tutto!), ma comunque con buoni risultati almeno per le cacche (le pipì sono state molto più difficili). Io sono potuta restare a casa fino agli otto mesi del pargolo, quindi sono riuscita a creare una buona base. Poi, fra andare dai nonni e dover tornare al lavoro, sicuramente l’EC ha sofferto, ma non abbiamo smesso di usarla quando potevamo, la sera, al weekend, in vacanza. Devo dire che siamo cosi’ riusciti a creare una consapevolezza condivisa dei bisogni fisiologici del bambino e che per lui e’ stato molto facile, una volta cominciato a “parlare”, chiedere di usare il vasino. Ci sono stati anche periodi in cui l’EC sembrava andare a rotoli, con pipì un po’ ovunque, ma sono stati brevi (una settimana il più lungo) e sempre seguiti da una maggiore abilità di gestirsi e comunicare. Adesso, a 19 mesi, non usiamo più il pannolino di giorno da circa 8 settimane, la sua consapevolezza rispetto alla cacca è totale e sta diventando pressoché completa anche rispetto alla pipì, per cui ha avuto bisogno di più tempo (anche per motivi fisiologici, è uno stimolo più difficile da riconoscere in anticipo e trattenere). E noi, anche quando sospettiamo che voglia semplicemente giocare sul wc, se ci chiede di andare abbiamo imparato ad ascoltarlo!

Ma non è un approccio un po’ troppo drastico, non si opera una forzatura eccessiva dei tempi naturali di sviluppo del bambino?
Non è un atteggiamento radicale da ambientalisti convinti, anzi fino agli anni ‘30 e ‘40 era assolutamente normale anche nel mondo occidentale (molto più a lungo in Europa orientale e ovviamente si usa senza drammi anche oggi in culture e paesi diversi dai nostri), poiché non esistevano i pannolini usa e getta. E non è un’educazione precoce, nel senso di troppo anticipata, al vasino, poiché lo scopo primario è rispondere alle necessità di base del bambino, non forzarne lo sviluppo.

Pensi che sia una strada percorribile anche per le mamme che lavorano o che hanno più di un figlio?
Assolutamente sì! Penso che sia grande la tentazione del “tutto o niente” quando si parla di EC (come anche di altre aree quando si tratta di crescere figli!), ma in realtà, e la mia esperienza lo prova, un atteggiamento più rilassato e una pratica part-time, cioè fare quel che si può quando si può, darà comunque dei risultati per noi stupefacenti. L’importante, come in molte altre aree dell’essere genitori, è mantenere accesa la consapevolezza e la fiducia che le necessità primarie sono innate nei bambini e cosi’ la loro capacita’ di riconoscerle e comunicarle. E poi prenderla con filosofia, accettare che ci siamo momenti in cui genitori o bambino non riusciranno a mantenere o usare la consapevolezza, o che magari ci siano fasi in cui il bambino non vuole usare il vasino. Dopotutto, non è una gara a chi prende più pipì o spannolina prima, ma un modo di creare comunicazione con i nostri bambini: nessuno si stupisce che una madre e un padre sappiano quando i figli hanno fame e diano loro da mangiare, e allo stesso tempo è importante non farsi prendere dal “mio figlio mangia più e meglio del tuo”, o anche “mio figlio a 10 mesi non usa ancora il cucchiaio e il tuo sì: sara’ anormale?”. Per chi ha altri figli, a volte addirittura i figli più grandi, se gia’ spannolinati, riescono a cogliere i segnali dei fratellini e sorelline, oppure beneficiano dall’atteggiamento dei genitori rispetto alla comunicazione e imparano velocemente a conoscere le proprie sensazioni fisiche.

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4 Dicembre 2014 18 Commenti
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gravidanza e partointerviste

Partorire in casa: intervista a Karen, mamma canadese che ce l’ha fatta

by Silvana Santo - Una mamma green 24 Novembre 2014

[A poco più di due settimane dal mio secondo cesareo, un post che racconta un’esperienza della nascita agli antipodi da quella che ho vissuto io]

Karen è una giovane mamma canadese che, appena pochi mesi fa, ha messo al mondo la sua bellissima secondogenita Gemma. La bimba è nata nella sua casa, con accanto suo padre Fabio e il fratellino Angelo, che all’epoca aveva due anni e mezzo. Karen, ringrazio tantissimo, ha accettato di rispondere ad alcune mie domande che puntano a capire meglio il senso della sua scelta, oltre che a chiarire gli aspetti più strettamente “tecnici” di un parto in casa.

Il risultato mi sembra davvero interessante, ma lascio giudicare a voi.

Come mai hai deciso di partorire tua figlia in casa?
Per me, il fattore più importante è stato il fatto che ci tengo moltissimo al parto naturale, e credo che partorire sia una cosa normale, sana, e sacra. Il mio corpo ed il mio bebè sanno cosa fare, e questo processo istintivo, intimo, delicato, funziona meglio quando ci sentiamo in sicurezza. A parte dei casi particolari dove la gravidanza è ad alto rischio, un parto non è una procedura medica. Non ci vogliono dottori né ospedali. Per dare a me ed alla mia famiglia una probabilità più alta di avere un parto naturale, senza interventi (una gran parte di quelli che si fanno adesso in ospedale sono inutili ed anche dannosi), ho deciso di non andare all’ospedale. Volevo mettere al mondo il mio bebè nel calore del nido, circondato da famiglia ed amore.

Il tuo primo figlio è nato in ospedale?
Si, il mio primo figlio è nato in ospedale. Non è andata troppo male, ma non è stata nemmeno un’esperienza bellissima. Ci sono state tante cose che avrei voluto cambiare nel modo in cui mio figlio è venuto al mondo. Questo, insieme al fatto che le nascite sono diventate troppo “medicalizzate”, mi ha portato dalle ostetriche per la seconda gravidanza. Ero convinta che ci fosse un modo migliore, più naturale e più dolce di partorire. Il piano iniziale era di partorire al centro nascita, ma verso il settimo mese di gravidanza io e Fabio, mio marito, abbiamo iniziato a pensare di farlo a casa. Uno dei motivi principali era nostro figlio (che aveva 2 anni e mezzo). Volevamo che lui fosse presente al parto. Abbiamo pensato che a casa sarebbe stato tutto più facile, che lui sarebbe stato a suo agio, che si sarebbe sentito più sicuro, che se fosse successo durante la notte non avremmo avuto bisogno di svegliarlo, ecc. C’era poi anche il lato pratico; cioè, perché prendere bagagli, uscire fuori al freddo e con la neve, fare 20 minuti di strada durante il travaglio, tutto per arrivare in un posto che assomiglia a casa? Non sarebbe stato molto più comodo e rilassante stare là?

Partorire in casa è una scelta usuale, in Canada?
In Canada le opzioni per la cura prenatale ed il parto cambiano a seconda della provincia in cui vivi. Qui in Québec, la professione di ostetricia è regolata e coperta dall’assicurazione sanitaria pubblica. Questo significa che ogni donna in teoria ha la possibilità di scegliere un medico (ginecologo, medico di famiglia, ecc) che segua la sua gravidanza, e poi partorire in ospedale, oppure di richiedere i servizi di un’ostetrica, e quindi scegliere tra partorire a casa o in un centro nascita (una struttura attrezzata con stanze in stile albergo, provviste di vasca da bagno per il parto in acqua). Purtroppo, per vari motivi, non ci sono abbastanza ostetriche per tutte le donne che vorrebbero questo servizio, e quindi, stando alle statistiche, mi risulta che in Canada i parti che avvengono fuori dagli ospedali sono meno del 10 %, e quelli in casa, ancora di meno.

Hai dovuto seguire un corso o una preparazione particolare durante la gravidanza? Chi ti ha assistito durante l’attesa e durante il parto in casa?
No, però va detto che con le ostetriche riceviamo una preparazione 10 volte migliore rispetto a quella data dai dottori. Ogni appuntamento prenatale dura un’ora, a volte anche di più, mentre nel nostro sistema sanitario l’appuntamento con un dottore dura appena 15 minuti. Dopo 9 mesi spesi a costruire una relazione di fiducia con le ostetriche, avevo la conoscenza e la sicurezza necessarie per avere il controllo del mio parto, fidarmi di me stessa e riuscire a mettere il mio bambino al mondo naturalmente.

Che ruolo ha avuto la tua famiglia, a cominciare dal tuo compagno, durante il travaglio e il parto?
Fabio è stato con me dall’inizio alla fine, fisicamente ed emotivamente, a parte quando doveva stare con nostro figlio prima che mia madre arrivasse ad occuparsi di lui, o trovare cose che servivano alle ostetriche. Uno dei principi di base delle ostetriche è di lasciare la madre in travaglio il più “tranquilla” possibile, senza parlarle, senza sottoporla ad esami, ecc. Loro ti aiutano al massimo a creare la tua “bolla” ed a rimanerci dentro, nel modo più naturale possibile. Quindi, una volta creata questa bolla, c’eravamo io e Fabio, ed a volte anche nostro figlio che veniva a vedere cosa succedeva, per poi tornare a giocare con la nonna. In realtà non mi ricordo molto della presenza di mio figlio, ma abbiamo foto dove vedo che mi stava facendo ridere… incredibile! Mio marito è stato un bravissimo accompagnatore, era molto tranquillo e mi dava forza e coraggio solo essendo là con me. Il supporto della mia famiglia è stato fondamentale. Eravamo insieme a fare qualcosa di molto bello, e difficile, ma estremamente gratificante.

parto in casa1Ci racconti le sensazioni che hai provato? E la differenza con la nascita del tuo primo figlio?
Sono stati 2 parti molto diversi e quindi difficili da paragonare. Il mio primo, come per molte donne, è stato lungo e lento (più di 24 ore di travaglio a casa, poi altre 5-6 ore all’ospedale, la maggior parte per la spinta che non è andata bene.) Il secondo parto, dall’inizio alla fine è durato 6 ore, con solo 4 ore di travaglio attivo, quindi è stato molto più intenso!! In questo senso, il secondo parto è stato più difficile, proprio per l’intensità e la velocità dei contrazioni, che non si fermavano mai! Ero molto stanca e non riuscivo mai a riposarmi. Al primo parto invece, avevo tempo entro ogni contrazione di riposarmi e rilassare il mio corpo. La differenza principale tra le due nascite, però, è stata che a casa stavo nelle posizioni in cui volevo io, seguivo il mio corpo, e stavo quasi sempre in posizioni verticali, o chinata. All’ospedale sono stata in piedi durante il travaglio, ma ad un certo punto durante la spinta mi hanno fatto stendere sul letto, la posizione più dolorosa e anche la meno utile per partorire, una posizione che quasi nessuna donne sceglie istintivamente per il travaglio, ma si usa all’ospedale perché è più comoda per il personale medico (specie se la mamma si sottopone all’epidurale). Quando mi dicono che sono stata coraggiosa nel partorire a casa, senza la possibilità di ricorrere all’epidurale o ad altre medicine per il dolore, quello che non capiscono è che in realtà partorire a casa fa meno male! Inoltre, le ore dopo il parto sono state bellissime: le abbiamo trascorse mangiando, bevendo, rilassandoci, parlando su Skype con i nonni a Napoli…È stato fantastico. In ospedale hanno fretta di fare tutti i controlli al bimbo, di lavarlo, e via dicendo. Inoltre c’è sempre gente che non conosci che entra nella stanza, ti dice cosa fare, quando allattare. È tutto diverso.

Come eravate attrezzati per eventuali emergenze?
Le ostetriche sono addestrate per qualsiasi emergenza, e se non possono fare il necessario, trasferiscono la madre in ospedale. Inoltre, lavorano sempre in squadra, di solito composta da due persone, e quindi se succede qualcosa dopo il parto ce n’è una per occuparsi della mamma e una per seguire il neonato. Tra l’altro, le ostetriche sono capaci di riconoscere un problema quando ancora si sta presentando, prima che diventi una vera emergenza, capendo al volo se è il caso di chiamare un’ambulanza. In questo la procedura è la stessa, sia a casa che al centro nascita. In realtà, a noi è capitata un’emergenza ostetrica molto rara che si presenta senza preavviso, la cosiddetta “distocia” della spalla (una condizione che si verifica quando la testa del bambino esce, ma le spalle restano incastrate dietro all’osso pelvico materno). Qualcuno potrebbe dire “Wow, sarebbe potuto essere un disastro!”, ma io invece penso che siamo stati fortunatissimi a stare a casa: quando succede questa cosa in ospedale, scoppia il caos, un sacco di gente entra nella stanza, i medici sono disposti, nel caso peggiore, anche a rompere la clavicola del bimbo, oppure spingere la testa indietro e fare un cesareo. Invece le ostetriche, con molta calma, mi hanno fatto cambiare 2 volte di posizione, e quando hanno realizzato che non era sufficiente, hanno tirato la bimba dalle ascelle per aiutarla ad uscire. In totale quest’emergenza è durata meno di tre minuti, e tutto è finito benissimo, senza panico e senza danni né a me né a mia figlia.

Lo rifaresti? Lo consiglieresti a una mamma in attesa?
Assolutamente, senza esitazione. Lo consiglio a qualsiasi mamma che abbia il supporto adatto, che stia avendo una gravidanza a basso rischio, e che sente la sicurezza che il suo corpo è fatto per far nascere il proprio bimbo, anche senza intervento medico. In ogni caso, la cosa più importante per la donna che partorisce è di sentirsi sicura e a proprio agio. Nel mio caso, questa condizione l’ho trovato a casa mia, e la mia speranza è che tante altre mamme provino la stessa sensazione.

24 Novembre 2014 38 Commenti
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Guarda che sono due: intervista all’autrice Silvia Gianatti

by Silvana Santo - Una mamma green 1 Ottobre 2014

silvia gianattiSilvia Gianatti è una giornalista, sceneggiatrice di fumetti e scrittrice. Ma soprattutto è una donna brillante e multitasking, madre (empatica!) di due figli (e di due cani…). Alla maternità ha dedicato due libri, “Guarda che è normale” e “Guarda che sono due”, uscito quest’estate per i tipi di Fanucci Editore. Una riflessione di rara sincerità sull’attesa e sull’arrivo del secondo figlio, priva di infiocchettamenti e censure, ma ben lontana, almeno secondo me, dal terrorismo psicologico che spesso investe le mamme che sfoggiano il secondo pancione.

Silvia ha accettato di rispondere ad alcune mie domande, e a me pare davvero che le sue parole spieghino molte cose che penso anche io, decisamente meglio di quanto avrei mai saputo fare io stessa. Buona lettura alle mamme bis, a quelle che “ci stanno pensando” e a quelle che sanno già che il loro cucciolo resterà unico.

Tu stessa, nel libro, confessi di esserti sentita molto fortunata perché hai avuto due figli dormiglioni: quanto pensi che possa avere inciso, questo, nella gestione di due fratellini così vicini per età? In altri termini, conta di più la fortuna, oppure l’organizzazione (e l’aiuto)?

Se non avessi dormito (o non dormissi) non sarei qui a sorridere. Sono stata fortunata, molto, perché è andato tutto bene. Ma ho anche fatto tutto quello che potevo fare per abituarli a dormire, a prendere il ritmo. Sinceramente? Era l’unica cosa davvero importante per me (con un po’ di sano egoismo) e quindi li ho fatti dormire (e ho potuto farlo perché non avevano nessun problema, nessun disturbo. La fortuna c’entra eccome. Ma anche il ciuccio.) Dormendo di notte potevo (e posso) sopravvivere di giorno. Fa tutta la differenza.

A proposito di differenza di età, nel libro offri consigli preziosi da questo punto di vista. Col senno di poi, aspetteresti più tempo per mettere in cantiere il secondogenito?
No. Penso che sia una distanza perfetta, ora che l’ho provata. Probabilmente per ogni mamma la distanza dei propri figli è perfetta. Ma io sono contenta di averli piccoli insieme: ora giocano, parlano, fanno la lotta, divertendosi più o meno allo stesso modo, con le stesse cose. Perché anche la grande è ancora piccola. Farli vicini è faticoso all’inizio (e per inizio intendo che lo è ancora, forse di più ora di prima, visto che lui ha due anni ed è nel classico momento “furia”). E anche per me, per una mamma, averli piccoli insieme vuol dire, certo, restare nel “tunnel” della piccolinitudine un po’ più a lungo. Ma poi uscirne e non doverci pensare più. Ci sono quasi!

Hai deciso (come me la seconda volta) di non conoscere il sesso dei tuoi figli durante la gravidanza. Come mai questa scelta?
La prima volta è stato un po’ per vivere la gravidanza con più curiosità. Il papà non è curioso, ma io sì, tantissimo. È stata una (divertentissima) tortura. È come a Natale, quando vorresti tantissimo sapere che cosa c’è nel pacchetto sotto l’albero, ma in realtà aspetti soffrendo fino al 25, perché non ti rovineresti mai la sorpresa che diventa quindi ancora più bella. Ma soprattutto perché non ero pronta ad avere un maschio, volevo solo una femmina, disperatamente una femmina e, se mi avessero detto “maschio” all’eco del terzo mese non credo l’avrei presa bene. Ho deciso di darmi nove mesi per abituarmi all’idea e prepararmi. E infatti in sala parto ero pronta ad avere un maschio, anche felicemente. L’urlo che però ho fatto quando mi han detto “femmina” ve lo racconto un’altra volta. La seconda volta quindi l’ho rifatto perché mi era piaciuto troppo vivere così la prima (e non avevo neanche più preferenze, è stato quasi facilissimo). L’emozione di scoprirlo in sala parto non è raccontabile. Ma è pazzesca.

guarda-che-sono-dueQuanto ha inciso l’essere una figlia unica nella tua scelta di avere due figli? E quanto la tua esperienza di figlia condiziona il tuo essere “madre di due”?
Ho sempre saputo che ne avrei fatti almeno due. Sono stata una figlia unica felicissima di essere da sola. Una bella infanzia, stracoccolata e al centro del mondo dei miei genitori. Eppure, ho sempre detto che ne avrei fatto più di uno. Perché mi incuriosisce quel che si può provare tra fratelli. Perché comunque ce la si racconti, un figlio unico è più solo di chi ha un fratello o una sorella. Anche da grande, anche se litighi. Non sarai mai da solo. Non ho sofferto di solitudine, ma sono da sola. Sono felice di sapere che loro no.

Cosa diresti a una mamma che vorrebbe un secondo bambino ma non trova il coraggio?
Che è la cosa più bella di tutte vederli insieme. Che il centro del nostro mondo, il nostro primo figlio, rimane lì, uguale dov’è. Ne arriva solo un altro, che si mette lì, tanto quanto. È un po’ più faticoso, un po’ più costoso anche. Ma meraviglioso non il doppio, di più.

Ti fermerai a due?
Sono poche le risposte certe che so dare, ma questa la so. Sì, mi fermerò a due. Ho sempre detto tre, prima. E ho cambiato idea. Forse perché ho anche due cani. Forse perché avendo avuto maschio e femmina romperei quello che mi sembra un equilibrio perfetto. Forse perché se è andata bene due volte non è che me la devo proprio andare a rischiare. O forse semplicemente perché sono stanca e ho bisogno di recuperare un po’ di spazio tutto per me. Bastava un sì, vero?

Se foste tra le poche a non conoscerlo ancora, correte a dare un’occhiata a Guarda che è normale, il blog di Silvia Gianatti

1 Ottobre 2014 0 Commenti
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Mi chiamo Silvana Santo e sono una giornalista, blogger e autrice, oltre che la mamma di Davide e Flavia.

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