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"dimenticheranno"

essere madre

I miei figli dimenticheranno

by Silvana Santo - Una mamma green 23 Settembre 2015

Il tempo è un animale strano. Somiglia a un gatto, fa come gli pare. Ti guarda sornione e indifferente, scappa via quando lo implori di fermarsi e rimane immobile se pure lo preghi, per favore, di andare. A volte ti azzanna mentre fa le fusa, oppure ti raspa con la sua lingua ruvida. Ti graffia mentre ti sta baciando.

Il tempo, piano piano, mi solleverà dalla fatica estenuante di avere dei figli piccoli. Dalle notti senza sonno e dai giorni senza requie. Dalle mani grassocce che ininterrottamente si aggrappano, mi scalano, mi tirano, mi frugano senza ritegno e senza remore. Dal peso che riempie le mie braccia e piega la mia schiena. Dalle voci che mi chiamano e non ammettono ritardi, attese, esitazioni. Mi restituirà l’ozio vacuo della domenica mattina, le telefonate senza interruzioni, il privilegio e la paura della solitudine. Alleggerirà, forse, il fardello della responsabilità che certe volte mi opprime il diaframma.

Ma il tempo, inesorabilmente, raffredderà di nuovo il mio letto, adesso caldo di corpi piccoli e respiri veloci. Svuoterà gli occhi dei miei figli, che ora traboccano di un amore poderoso e incontenibile. Toglierà dalle loro labbra il mio nome urlato, cantato, sillabato e pianto cento, mille volte al giorno. Cancellerà – un po’ alla volta oppure all’improvviso – la familiarità della loro pelle con la mia, la confidenza assoluta che ci rende praticamente un corpo solo. Con lo stesso odore, abituati a mescolare i nostri umori, lo spazio, l’aria da respirare. Subentreranno, a separarci per sempre, il pudore, il giudizio, la vergogna. La consapevolezza adulta delle nostre differenze.

Come un fiume che scava l’arenaria, il tempo minerà la fiducia che mi rende ai loro occhi onnipotente. Capace di fermare il vento e calmare il mare. Riparare l’irreparabile, guarire l’insanabile, resuscitare dalla morte.

Smetteranno di chiedermi aiuto, perché avranno smesso di credere che io possa in ogni caso salvarli. Smetteranno di imitarmi, perché non vorranno diventare troppo simili a me. Smetteranno di preferire la mia compagnia a quella di chiunque altro, e guai se questo non dovesse accadere.

Sbiadiranno le passioni – la rabbia e la gelosia, l’amore e la paura. Si spegneranno gli echi delle risate e delle canzoni, le ninne nanne e i C’era una volta termineranno di risuonare nel buio.

Con il tempo, i miei figli scopriranno che ho molti difetti, e, se sarò fortunata, ne perdoneranno qualcuno.

Saggio e cinico, il tempo porterà con sé l’oblio. Dimenticheranno, anche se io non dimenticherò.
Il solletico e gli inseguimenti (“Mamma, ti prendo io!”), i baci sulle palpebre e il pianto che immediato ammutolisce con un abbraccio. I viaggi e i giochi, le passeggiate e le febbri alte. I balli, le torte, le carezze mentre si addormentano piano.

I miei figli dimenticheranno. Dimenticheranno che li ho allattati e cullati per ore, portati in fascia e tenuti per mano. Che li ho imboccati e consolati e sollevati dopo cento cadute. Dimenticheranno di aver dormito sul mio petto di giorno e di notte, che c’è stato un tempo in cui hanno avuto bisogno di me quanto dell’aria che respirano.

Dimenticheranno, perché è questo che fanno i figli, perché è questo che il tempo pretende.

E io, io, dovrò imparare a ricordare tutto anche per loro, con tenerezza e senza rimpianto. Gratuitamente. Purché il tempo, sornione e indifferente, sia gentile abbastanza con questa madre che non vuole dimenticare.

 

23 Settembre 2015 211 Commenti
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attività da fare in sicilia con i bambini
viaggi

Sicilia con i bambini: cinque attività da non perdere

by Silvana Santo - Una mamma green 19 Luglio 2021

La Sicilia con i bambini, per quanto mi riguarda, è (quasi) sempre una buona idea! Fatta eccezione per l’altissima stagione turistica, la Trinacria rappresenta il mio ideale di vacanza: città d’arte, natura e paesaggi, mare cristallino e un cibo spaziale. E così, complici alcuni giorni di ferie extra e ancora titubanti sui viaggi oltre confine, abbiamo deciso di tornare in Sicilia con i figli (di 8 e 6 anni e mezzo) per una settimana di vacanza all’insegna del mare, del cibo e delle “avventure”, per chiamarle come Davide e Flavia sono abituati a fare! Per il nostro itinerario, questa volta abbiamo deciso di visitare finalmente Palermo (per me era la prima volta in quarant’anni, incredibile ma vero!) e i suoi dintorni, per poi spostarci in direzione Trapani. Qualche anno fa avevamo già fatto una vacanza in Sicilia Occidentale con bambini piccoli (Erice, San Vito Lo Capo, Mazara del Vallo etc), per cui stavolta ci siamo concentrati in particolare sulle Egadi e su Marsala, che nel viaggio precedente avevamo dovuto tralasciare. Al di là delle spiagge, dei centri storici e del monumenti più famosi (in primis le chiese bizantine di Palermo e Monreale!), mi fa piacere raccontarvi 5 esperienze da non perdere che abbiamo vissuto nella nostra recente vacanza estiva in Sicilia con i bambini.

Il mare turchese di Levanzo
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19 Luglio 2021 1 Commenti
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allattamento
allattamento

Smettere di allattare (per sempre)

by Silvana Santo - Una mamma green 16 Gennaio 2017

Da qualche giorno ho smesso di allattare. Per sempre, direi, visto che non prevedo di avere altri figli. Ho smesso di allattare nonostante mia figlia non fosse d’accordo. Ho smesso di allattare nonostante temessi di farle del male, e di pagarne le conseguenze. Ho smesso di allattare, ma il mio corpo sembra non essersene accorto, e chissà per quanto si ostinerà a stillare questo latte denso e opalescente che adesso non serve più a nessuno.

Ho smesso di allattare perché mi è sembrata a un tratto una decisione non più rimandabile. Per la mia famiglia, più che per me stessa. Per cambiare certe dinamiche, riscrivere alcuni ruoli. Ero stanca, certo, e speravo di poter ricominciare a dormire. Ma non è stato quello a impormi di smettere. Se non mi fossi sentita così strana, così anormale, così stravagante; se non mi fossi sentita a tratti così sola e sbagliata; se non avessi dovuto continuamente spiegare, precisare, puntualizzare; se avessi avuto, almeno ogni tanto, la sensazione che la mia scelta fosse compresa di più e maggiormente accettata, forse avrei continuato fino al termine naturale di questa esperienza. Ma non è andata così, e quindi, alla fine, ho deciso di smettere nonostante sapessi che mia figlia avrebbe voluto continuare. Nonostante sapessi che avrebbe pianto e protestato. Che avrebbe, in qualche modo, sofferto. Nonostante covassi la paura irrazionale di perdere in qualche modo il suo amore. Il timore che lei vivesse il mio rifiuto come un abbandono, come una specie di tradimento. E che reagisse rifiutandomi e allontanandomi. Nonostante mi sembrasse molto contraddittorio con la scelta di allattare a richiesta e in modo esclusivo, che avevo fatto in modo del tutto consapevole e libero.

Quando ho allattato Flavia per l’ultima volta, non sapevo che non ci sarebbero state altre poppate. Per quanto pensassi da tempo di smettere, la decisione definitiva è stata improvvisa ed estemporanea. Click. Basta. Finito. Le vie di mezzo, con mi figlia, non avrebbero funzionato. Quando ci abbiamo provato è stata una tortura per entrambe. Un inutile e straziante stillicidio. E allora, stavolta, niente compromessi. Le ho spiegato che era il momento di smettere e lei, in un modo che ancora non mi spiego, per delle ragioni che non capirò mai fino in fondo, ha in qualche modo compreso. La sua reazione tutto sommato ragionevole, le proteste moderate, i lamenti contenuti (specie se paragonati ai tentativi precedenti, e alle reazioni che aveva sempre avuto quando mi ero trovata a dover semplicemente rispondere in ritardo alle sue richieste) mi hanno sorpreso e dato forza. Mi hanno assolto.

Non saprei dire con esattezza cosa sia accaduto. La chimica e l’elettricità hanno parlato in silenzio mentre io e Flavia ci guardavamo sconsolate e strette in un abbraccio senza più latte. Mia figlia mi ha guardato dentro e mi ha capito. Forse ha compreso le mie ragioni meglio di quanto io stessa fossi riuscita a fare. Ha legittimato la mia stanchezza, ha accolto la mia solitudine e l’ha sublimata. Ha attinto con avidità al coraggio che da qualche parte avevo scovato, come se il suo nuovo nutrimento venisse ancora dal mio petto, ma giù in fondo, direttamente dagli abissi che ha abitato prima di venire al mondo. Mia figlia mi ha perdonato, e mi ha autorizzato a perdonare me stessa.

Il sollievo per la sua capacità di gestire il cambiamento mi ha anestetizzato per giorni. Solo quando ho dovuto premermi il seno per alleviare il dolore e scongiurare l’ingorgo, ho realizzato davvero che il dado era tratto. Ho guardato quel latte che era destinato a lei e ho fatto una cosa completamente priva di senso: l’ho fotografato e poi l’ho buttato via. Quella che ho provato è stata una sensazione inedita, intensa e ambivalente. Un misto di soddisfazione per l’esperienza che ho condiviso coi miei figli, di ritrovata libertà, di sollevata sorpresa per la sofferenza contenuta di Flavia. Ma anche di struggente nostalgia. Per un tempo della mia vita che è finito e non tornerà. Per la tenerezza e l’immenso amore, che hanno certo altre lingue da parlare, ma hanno perso per sempre quella che era stata la loro manifestazione più fisica, più istintiva, più ancestrale. Per quel latte “sprecato”. Così prezioso, così denso di vita e di amore, che non sarebbe più finito a scaldare la pancia e il cuore di mia figlia, ma gettato via in uno scarico. Come una cosa che è stata indispensabile e adesso è inutile, superflua, superata.

Il mio corpo avrebbe continuato senza problemi. La testa e il cuore, a un certo punto, hanno smesso di stargli dietro. Ho allattato, complessivamente, per quasi 4 anni, con una interruzione di pochissimi mesi tra un figlio e l’altra. Se qualcuno, quando già aspettavo il mio primo figlio, mi avesse vaticinato un’esperienza del genere, avrei sorriso con sarcasmo. Ho odiato allattare. Mi ha fatto male fino a farmi piangere, perdere il sonno, stringere forte il cuscino tra i denti. Mi ha fatto sentire un oggetto, un animale, una schiava. Mi ha privato della libertà di dormire, di mangiare in pace, di andare in bagno, di uscire di sera da sola. Mi ha indotto a vergognarmi, a coprirmi, a nascondermi. Mi ha fatto sentire diversa e sbagliata. Ha ucciso per sempre il mio corpo da ragazza. Ma ho amato allattare, perdutamente. Come poche altre cose nella vita. Ha conferito pienezza al mio organismo di madre e di mammifero, ha esaltato la mia femminilità. Mi ha fatto sentire parte di un ciclo immortale e universale, mi ha permesso di comunicare coi miei figli quando nessuna parola, nessuna carezza, nessun abbraccio sembrava funzionare. Mi ha salvato dal peggiore dei baratri, quando il mio stesso amore sembrava vacillare sotto i colpi dei pianti indecifrabili, delle urla disperate, della stanchezza. Il mio seno, tantissime volte, è stato una madre migliore di quella che io riuscirò mai ad essere.

Adesso è finita, mia figlia sta bene e va bene così. La terrò sul mio petto per tutta la vita, anche quando lei sarà adulta e lontana, e il mio seno arido e stanco.

16 Gennaio 2017 46 Commenti
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essere madre

Cosa resterà?

by Silvana Santo - Una mamma green 29 Dicembre 2016

A volte, quando guardo i genitori di figli più grandi dei miei, o addirittura adulti, quando faccio caso a quanto le loro esistenze sembrino, sul piano pratico, così diverse da quella che conduco io da quattro intensi e lunghissimi anni, mi capita di farmi questa domanda. Cosa resterà, di questi anni passati a crescere dei bambini? Quanto incideranno, alla fine, nell’economia complessiva della mia esistenza? Cambieranno qualcosa della mia persona? Me ne ricorderò, quando saranno passati? Mi sentirò sollevata, oppure proverò una struggente nostalgia?

Anche se l’impegno di allevare dei figli assorbe per anni interi la gran parte delle tue energie mentali e fisiche, anche se quando sono piccoli i bambini hanno talmente bisogno di cure, supporto, compagnia, educazione e affetto da lasciare davvero poco spazio a tutto il resto, anche se quando sei alle prese con un bimbo piccino finisci quasi col dimenticarti che non sarà piccolo per sempre, piano piano i figli crescono. I ritmi calano, la vertigine svanisce. Il fatto di essere un genitore diventa una cosa normale, il tuo status ordinario, l’abito che sei abituato a indossare tutti i giorni. La vita straordinaria – nel bene e nel male – di un neogenitore diventa la vita ordinaria di una persona qualsiasi. Ma cosa, resta, a quel punto, della girandola forsennata di questi anni passati a confrontarti con la prima infanzia dei tuoi figli?

Cose che adesso sembrano fondamentali diventeranno particolari del tutto trascurabili. Preoccupazioni che adesso mi tolgono il sonno finiranno col rimpicciolirsi fino a scomparire. Le attuali priorità saranno sostituite da questioni diverse e nuove, che adesso non sono nemmeno capace di prevedere. Cosa resterà, nella mia memoria e nelle mie abitudini quotidiane, della fatica e della tenerezza, delle preoccupazioni e delle risate, dell’amore e della disperazione di questi anni così memorabili?

I miei figli cresceranno e dimenticheranno molte cose, lo so. Lo so bene ed è una cosa normale. Sacrosanta, direi. Ma in me, una volta che loro saranno cresciuti, che cosa resterà? Forse guarderò alle mie spalle con la consapevolezza e l’orgoglio di aver portato a termine un’impresa importante. Il compito più arduo che un essere umano possa trovarsi ad affrontare. Oppure, col senno di poi, prevarrà la sensazione che tutto fosse in realtà naturale e semplice, una fase della vita identica a tutte le altre.

Arriverà la quiete dopo una lunga tempesta di notti senza sonno e inverni senza luce. E sarà un sollievo, senz’altro. Ma arriverà anche quella sensazione di vago smarrimento che mi coglie ogni volta che un viaggio finisce e non mi resta che tornare nella mia vecchia casa, alla mia solita vita? Ci saranno, anche una volte che i figli saranno cresciuti, altre partenze e altre emozioni forti. Altre fatiche e altre conquiste. Nuovi rimpianti da curare e inedite speranze da coltivare. Ma l’intensità di questi anni sarà forse irripetibile. Eppure adesso non ho idea di cosa mi lascerà. Cosa resterà di questi anni pazzi, disperati e bellissimi?

29 Dicembre 2016 4 Commenti
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essere madregravidanza e parto

Dolce attesa

by Silvana Santo - Una mamma green 21 Marzo 2014

Ho scoperto di essere incinta un pomeriggio di giugno, non ricordo se facesse già caldo. Il test di gravidanza andrebbe fatto al mattino, lo so, ma una nipotina che avevo visto pochi giorni prima aveva appena contratto uno di quei virus da bambini, e la prospettiva del contagio mi spaventava: non potevo aspettare. Pomeriggio o non pomeriggio, caldo o non caldo, il verdetto è apparso inequivocabile in capo a poche decine di secondi. Due linee rosa, abbastanza nitide. In fondo, lo sapevo già.

Sono stata felice, all’inizio. In effetti quel figlio lo avevamo cercato, o per lo meno non avevamo fatto niente per impedire che arrivasse. Non avevamo praticamente dovuto desiderarlo, tanto era giunto in fretta, una fortuna concessa a pochi. E felice lo sono rimasta per un po’ di tempo, a dire il vero. Per tutto il tempo in cui la notizia di quella fortunosa fusione cellulare è rimasta segreta. Poche settimane di beata clandestinità, a fantasticare in silenzio su un futuro che sembrava avere soltanto tre proprietari. Ma certi segreti, si sa, prima o poi li devi tradire per forza. Li devi condividere, perché in fondo non riguardano soltanto te.

Rivelare la mia gravidanza non è stata la gioia che avevo sempre immaginato. Il momento emozionante che tanti genitori ricordano per tutta la vita. Quello che rammento io è una specie di ansia serpeggiante, un allarme interiore che strillava e lampeggiava senza pietà. Sesto senso, chissà. Forse è solo che un po’ mi conosco. Gli “altri”, naturalmente, sono stati felici per noi. Sorpresi fino a un certo punto – in fondo, eravamo sposati da più di un anno, e io avevo già spento 31 candeline -, sicuramente emozionati. C’è chi è rimasto imbambolato, chi ha balbettato qualche frase di circostanza, chi mi ha guardato il ventre ancora piatto con occhi lucidi.

Tutto nella norma, insomma. Se non fosse che, via via che io e la mia pancia lievitante ci trovavamo sempre più invischiate in sabbie mobili di melassa e cuoricini, ho smesso a poco a poco di essere felice. L’esultanza granitica degli altri – immune al dubbio, alla paura, al ripensamento – mi ha travolto come uno tsunami e mi ha inesorabilmente spazzato via. Ho conosciuto il senso di colpa. Di chi si chi chiede se la sua vita “di dopo” sarà all’altezza di quella di prima, mentre tutti intorno sfoderano il loro sorriso più convinto e ipotizzano: “Sarai al settimo cielo, no?”

Ho conosciuto la paura. Di chi ha faticato trent’anni per essere indipendente almeno un po’. Di chi ha strappato con le sue unghie mangiucchiate frammenti di libertà e autodeterminazione, e a un tratto si ritrova oggetto di attenzioni morbose e programmi che non ha contribuito a stendere. Di domande ossessive, di curiosità inopportune e premature.

Ho conosciuto la gelosia. Verso chi sembrava aspettare mio figlio come se fosse il suo. Dando per scontate cose che scontate non erano, covando aspettative che io trovavo non solo illegittime, ma a tratti farneticanti. Riempiendo le frasi di plurali che includevano anche me, mio figlio e suo padre. Senza che nessuno avesse chiesto il mio parere.

Ho conosciuto la vergogna. Di chi passava inosservato da sempre e all’improvviso suscitava una irrefrenabile benché temporanea curiosità. Di chi doveva, da un giorno all’altro, sopportare sul proprio ombelico il peso di sguardi che prima si limitavano a sfiorarla, e che “dopo” avrebbero ripreso a ignorarla sistematicamente, per concentrarsi sul nuovo. Ho conosciuto il rimorso e la frustrazione. Di chi si è sentito dire che “non era normale” essere tanto spaventata davanti a quello che era a tutti gli effetti “il miracolo della vita”.

Solo Dio e mio figlio e sanno quante volte ho pianto, da sola, davanti al monitor del mio computer. Quante volte, in quelle 39 settimane, ho ascoltato straziata la stessa ninna nanna struggente in cui una madre, che madre non dovrebbe essere, addormenta suo figlio in una cesta e lo affida al mare. Quante volte ho pensato che per avere quel bambino avrei perso cose altrettanto preziose. E che forse, paradossalmente, quel bambino non sarebbe stato neanche mio, ma di chi sembrava desiderarlo più di me, di chi avrebbe saputo amarlo davvero, di chi ne parlava come di una grazia divina e di un regalo per sé. Solo Dio e Davide sanno quanto avrei voluto poter tornare indietro, salvarmi da mio figlio e, soprattutto, mettere lui in salvo da sua madre. Forse lo sa pure il gatto, che mi guardava attonito ma scappava a nascondersi ogni volta che mi sfuggiva un singhiozzo un po’ più forte degli altri.

Quando l’attesa (dolce, dolce come certi veleni) si è conclusa, ho cominciato, senza averlo mai deciso, a erigere barricate, muri invisibili per proteggermi dal mondo e da me stessa. A distillare, dietro quelle pareti di pietra dura, la mia colpa indelebile. La colpa di chi ha permesso che qualcosa le impedisse di accogliere suo figlio come avrebbe dovuto. Perdonarmi, per adesso, è fuori discussione. Spero che mio figlio, che quei singhiozzi li ha uditi da sotto il mio stesso cuore, sia più indulgente di me, e possa accettare prima o poi le scuse eterne di sua madre.

21 Marzo 2014 48 Commenti
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Mi chiamo Silvana Santo e sono una giornalista, blogger e autrice, oltre che la mamma di Davide e Flavia.

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