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essere madre

essere madre

Perché fare i genitori a volte è terribile

by Silvana Santo - Una mamma green 22 Maggio 2019

Perché è una mutilazione autoinflitta e permanente della propria libertà. Fare il genitore richiede per molti anni un investimento quotidiano di tempo e risorse per azioni pratiche che spesso non hai la minima voglia di fare. L’igiene personale di un bambino, la sua alimentazione, la sua salute, la sua istruzione e molto altro dipendono da cose che sono i suoi genitori a dover fare. Tutti i giorni, per anni e anni, anche quando proprio vorrebbero dedicarsi ad altro. E se è vero che questa condizione accomuna per certi versi tutti gli adulti, per chi ha avuto un figlio diventa ancora più stringente, anche se ovviamente la scelta della maternità (e paternità) è stata consapevole e ben ponderata.

Perché i figli – tutti i figli, da piccoli e da grandi – a volte sono ingrati. Strafottenti, superficiali, egoisti. E anche se questo rientra perfettamente nell’ordine naturale delle cose, e se tu lo sai benissimo perché sei a tua volta figlio, può fare davvero un male cane.

Perché può capitare che i figli ti deludano. Anzi: è praticamente certo che prima o poi succeda. Ma, salvo forse rarissime eccezioni, tu sei chiamato a rinnovare e rianimare la fiducia che avevi in lui, la stima, il rispetto. Una volta, e un’altra e un’altra ancora, tutte le volte in cui sarà necessario, fino alla fine dei tuoi giorni. Potresti esimerti dal farlo per chiunque altro – un amico, un compagno, un fratello, finanche un genitore – ma non con i tuoi figli. Non se sei un genitore degno di questo nome.

Perché il peso della responsabilità può essere schiacciante. Quello che in effetti ti spetta, quello che gli altri ti attribuiscono indebitamente, quello che tu stesso tendi a sentire sulle tue spalle anche se non ne avresti ragione. Una zavorra che ti accompagna in ogni momento, in ogni decisione, in ogni contesto, e che a volte rischia di sopraffarti, specie quando le cose non vanno proprio come ti saresti aspettato.

Perché i figli non sono tuoi. E per quanto questo sia una cosa ovvia, naturale e pure sacrosanta, può essere difficile da accettare, in determinate situazioni.

Perché i figli si ammalano, perché corrono pericoli, perché cadono, falliscono e soffrono. Perché i figli sbagliano, e pagano senza sconti le conseguenze dei loro errori. E questo di solito si rivela più doloroso delle tue stesse malattie, dei rischi che corri personalmente, degli errori e dei fallimenti tuoi propri.

Fare il genitore è un’esperienza straordinaria, forse la più intensa che possa vivere un individuo lungo la parabola della sua esistenza. Un’esperienza profonda, rivelatrice e bellissima. E a volte terribile.

22 Maggio 2019 5 Commenti
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Non credete alla perfezione

by Silvana Santo - Una mamma green 26 Aprile 2019

Non credete alla perfezione apparente che vedete intorno a voi.

Non credete alle madri che mai, nemmeno per un momento, hanno avuto nostalgia della vita senza figli. Non credete alle coppie che sembrano non conoscere il disaccordo, la delusione, la stanchezza. Gli alti e bassi della passione, dell’empatia reciproca, della comprensione vicendevole.

Non credete ai viaggiatori che vi raccontano di figli “mai stanchi e sempre entusiasti”. Di vacanze perfette, di cieli costantemente azzurri, di avventure mirabolanti.

Non credete ai bambini prodigio. A quelli che fanno tutto prima degli altri e meglio dei più. Esistono, quelli come loro, ma la loro condizione è tutt’altro che invidiabile. Non è qualcosa, credo, della quale un genitore si vanterebbe col primo che capita.

Non credete alle case perennemente immacolate: sono il frutto di una finzione o di una nevrosi. E proprio non so quale sia l’opzione peggiore.

Non credete alle donne magrissime che riferiscono di “limitarsi a mangiare molto sano e fare le scale a piedi”. Ne esistono, di donne baciate da questa fortuna, ma sono rare. E non hanno bisogno di “mangiare sano” per restare così magre.

Non credete ai genitori tanto devoti da non permettere mai al dubbio, alla stanchezza, alla paura, di fare breccia nelle proprie coscienze. Non credete a chi “mio figlio è sempre bravissimo, sempre tranquillo, sempre collaborativo”. Non credete, soprattutto, a chi “mio figlio è sempre sereno”. L’assenza di inquietudine, specie in giovanissima età, non è solo un fatto insolito, ma forse anche vagamente allarmante.

Non credete alle famiglie perfette, dove è sempre festa, e “basta che si sta insieme”. Non credete a chi ostenta una fede senza dubbio, una fiducia senza tentennamenti, una speranza senza crepe.

Non credete alle foto “casuali” che sembrano uscite dallo studio di un fotografo. Spesso sono il frutto di tentativi, pose, composizioni che di spontaneo hanno ben poco. E qualche volta anche della mano di un professionista, in effetti.

Non credete alla felicità inossidabile. All’ottimismo che non conosce inciampi, alle vite fatte solo di “giornate sì”. O magari fatelo, ma sappiate che tanta monotematica ilarità nasconde spesso esigenze di autoconvincimento, intenti di “marketing”, istanze di negazione o – perdonatemi – carenza di profondità.

Non credete alla perfezione, perché non esiste.

Là dove c’è l’amore, non si possono evitare la perdita, l’aspettativa, la sofferenza incolpevole. Non si possono evitare le ferite. Dove esiste la speranza, esiste pure il disincanto. Solo chi non ha molte occasioni per riflettere, alla fine non dubita mai. E solo chi non vive, chi non ama, chi non si spende ogni giorno a piene mani, non commette errori e non fa mai i conti con il rimpianto e con la delusione.

Non credete alla perfezione: è un inganno che serve ad alcune persone per dire agli altri, e spesso prima ancora a se stesse, che loro vanno bene così. Che poi è la pura verità, ed è proprio questo il punto.

La vita è perfetta nella sua imperfezione, noi siamo perfetti nella nostra umanità. Chi finge che non sia così, o è uno stupido o è un imbroglione.

26 Aprile 2019 5 Commenti
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Darvi al mondo

by Silvana Santo - Una mamma green 10 Aprile 2019

Lo sapevo, lo sapevo bene. Lo sapevo fin da prima che nasceste. Non sareste mai stati miei, o al limite lo sareste stati per un momento ineffabile e illusorio. I figli si mettono al mondo perché è al mondo che appartengono, ed è nel mondo che devono stare. Lo so adesso e l’ho sempre saputo. Ma non starò a dire, come ho letto o sentito spesso con una sicurezza tanto granitica e ostentata da sembrarmi finta, che darvi al mondo non faccia male, che sia un fatto semplice, addirittura naturale, che sia istintivo. Non lo è, non per me. Era bello tenervi dentro, nascosti allo sguardo degli altri ma ben presenti a vostra madre, e a lei soltanto, in ogni secondo del giorno e della notte. Era faticoso, atterriva, a tratti faceva male, ma riempiva il corpo, l’anima e le ore vuote. Era bello parlare una lingua cifrata che nessun altro poteva comprendere, riconoscere parole, gesti, vagiti, come in un alfabeto non verbale che noi stessi andavamo codificando un giorno dopo l’altro. È stato bello, per un tempo che mi è parso infinito e invece scopro essere già agli sgoccioli, rappresentare il vostro riferimento primo, e talvolta anche l’ultimo. L’orizzonte metaforico entro cui vi muovevate, a vostro agio, senza paura.

È stato come se, per la prima volta nella mia vita, io davvero non fossi mai sola.

Non fingerò che finora non sia stato gratificante sentirsi speciali ai vostri occhi, più di chiunque altro al mondo. Non ho intenzione di mentire, di censurare i miei sentimenti, perché non c’è ragione per cui io debba farlo. Non c’è colpa, non c’è vergogna in quello che sento. Si fanno i figli per l’istinto animale di lasciare al mondo qualcosa di noi, ma si fanno anche per regalare a se stessi un’esperienza prossima alla creazione. Un piccolo, quotidiano, delirio di divina onnipotenza del quale in pochi, tra i genitori, sono consapevoli, ma al quale in pochissimi riescono davvero a sottrarsi.

Non andrò raccontando, soprattutto a me stessa, che mi lascia indifferente vedervi diventare, ogni giorno di più, qualcosa che è altro da me, che da me si differenzia e prende distanze sempre maggiori. Lascio alle madri più illuminate, più contemporanee, più consapevoli di me questa narrazione edificante dell’amore gratuito, per pretesa o autentica che sia. Lascio ad altre il merito di resistere sempre e comunque alla delusione dell’aspettativa e alla tentazione della malinconia. Non tacerò la verità su quanto sia difficile riconoscere i segni estranei che il mondo sta già lasciando su di voi. Le parole che avete udito da altri e che andate ripetendo senza che io le capisca, gli scherzi da cui sono esclusa, le abitudini che avete acquisito senza condividerle con me. I bisogni che altri inducono in voi, le paure e i desideri che il mondo sta già seminando nei vostri piccoli cuori.

Il mio materno delirio di onnipotenza, se mai è cominciato, non è durato che un pugno di anni. La condizione intima ed esistenziale dell’umana solitudine si è presto ristabilita in seno alla mia vita. Io sono io e voi siete voi. Siete i miei figli, siete stati edificati con materia rubata al mio stesso corpo, col calcio e il fosforo e il ferro dilavati settimana dopo settimana dal mio stesso organismo. Alcune delle cellule che faranno parte di voi tutta la vita provengono direttamente dalla fabbrica del mio ventre. Siete stati nutriti dal mio sangue e dal mio latte prima, dal mio esempio traballante poi. Vi ho letteralmente costruito, un pezzo alla volta, per mesi e anni. Siamo plasmati della stessa materia, eppure voi siete voi e io sono io. E tutti noi apparteniamo al mondo.

Una volta ho letto che alcune cellule fetali restano per decenni dentro l’organismo delle rispettive madri. Microchimere, le chiamano. Come se io fossi diventata un essere mostruoso che in un certo senso è fatto anche di voi. Forse è questo il punto. Forse il punto è che voi non mi appartenete, ma sono io che oramai appartengo ai miei figli, in un legame che è un miracolo ma anche, non me ne vogliate, una specie di ergastolo sentimentale, morale e genetico. Farò quel che deve fare una madre, ho già cominciato a farlo dal momento stesso in cui siete nati. Darvi al mondo è quello che mi tocca, in qualche modo che è solo mio e diverso non può essere. Ma non crediate, nemmeno per un momento, che non sia maledettamente difficile.

10 Aprile 2019 3 Commenti
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Cos’è un figlio?

by Silvana Santo - Una mamma green 8 Aprile 2019

Cos’è un figlio? Come si fa a spiegare cos’è un figlio? Ci si può al massimo provare, sapendo di essere in ogni caso destinati a fallire.

Un figlio è sentire il male di un altro attraverso i tuoi stessi neuroni. La sua paura dentro il tuo stesso cervello. La sua fame nelle tue viscere. La sua emozione in fondo al tuo stomaco, la sua felicità al centro del tuo cuore. Un figlio è piangere le lacrime di un altro con i tuoi stessi occhi.

Un figlio sono tutti i tuoi nodi che vengono al pettine, e a volte si sciolgono, ma altre volte tirano e strappano e si aggrovigliano sempre di più. E fanno male, accidenti se fanno male.

È un ombelico sulla sua pancia e uno dentro al tuo cervello, dal momento in cui un colpo di forbici sterili fa di voi due persone distinte.

È scoprire il significato letterale della frase: “La mia vita per la tua, se fosse necessario”.

È sentire di non farcela più. È trovare la forza per resistere, ancora e ancora.

Un figlio sono le paure che prima non avevi, e i talenti che non immaginavi di possedere. Pozze insperate di pazienza, riserve energetiche cui mai avresti creduto di poter attingere. È la mutilazione definitiva e autoinflitta della tua libertà mentale ed emotiva (e per molti anni anche di quella materiale). Ma è anche la certezza di vivere con raddoppiata intensità fino alla fine dei tuoi giorni.

Un figlio è la causa principale della tua stanchezza cronica e la ragione quotidiana per cui riesci a sopportarla. È il senso di colpa che ti rode la vita e la necessità imprescindibile di imparare l’indulgenza nei confronti di se stessi. La tenerezza, che a volte ti salva e altre volte ti distrugge.

Alfa e omega. Tutto e niente. Il coraggio e la viltà. La ragionevolezza e la follia. La pancia e la testa. È l’amore lancinante, appesantito dalla responsabilità e alleggerito dall’istinto. La condanna a sbagliare forte, la speranza di poter rimediare, la paura di non trovare perdono.

“Ti ho chiamato per nome, tu sei mio. Sei prezioso ai miei occhi”.

8 Aprile 2019 10 Commenti
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Facile amare un figlio quando ti rassomiglia

by Silvana Santo - Una mamma green 27 Marzo 2019

È così facile amarti, quando mi specchio dentro i tuoi occhi. Quando osservo te e mi sembra di vedere una mia fotografia di tre decenni fa. È così facile amarti, quando camminiamo con la stessa andatura e le dita delle mani strette fortissimo. Le nostre mani ugualmente piccole e paffute. È davvero facile amarti quando nella tua voce risuonano parole che potrebbero essere mie, quando ci accovacciamo insieme per coccolare un cane festoso, quando ci contendiamo l’ultima patatina, quando alziamo insieme lo sguardo verso il tramonto e tu sei più svelta di me a dire “Mamma, guarda che meraviglia!”.

Viene facile amare un figlio quando ti rassomiglia. Quando sembra che abbia raccolto la tua migliore eredità e se la porti in giro per il mondo, con naturalezza. È per questo, in fondo, che ci sobbarchiamo la fatica e la responsabilità di crescere un figlio: lasciare in giro qualcosa di noi, che ci sopravviva e rappresenti una memoria vivente del nostro passaggio.

È così facile amarti, quando la gente non fa che ripetere quanto mi somigli. Ma io ti amo fortissimo anche quando sei così diversa da tua madre. Quando non ti capisco, quando non riesco a immedesimarmi in quello che stai pensando, quando le tue scelte e i tuoi desideri sono lontanissimi dai miei. Quando nelle tue movenze, nell’incedere lento della tua voce, nelle piccole ossessioni che riempiono le tue giornate non esiste traccia di me, o perlomeno mi sembra di non riuscire a scovarla.

Ti amo quando ti ostini a camminare per chilometri nelle tue ballerine, mentre io accanto a te consumo le suole delle mie comode sneakers. Quando accumuliamo ritardo perché, dopo aver raccolto i miei capelli insensati nella solita coda sconnessa, devo prestarmi a intrecciare i tuoi con la massima perizia di cui riesco a essere capace. Quando mi coinvolgi nella scelta del vestito migliore, quando vorresti comprare l’ennesimo giocattolo di cui non hai bisogno, quando entriamo in un negozio di corsa e tu mi tormenti perché io ti “compri qualcosa”. Io, che mi affanno a diventare ogni giorno un esempio di frugalità, di essenzialità. Di nudità.

Non ho bisogno che tu sia uguale a me per riuscire ad amarti. Non ho bisogno che tu sia una mia copia in scala, che la tua vita proceda in qualche modo come una conferma della mia o come un riscatto delle mie aspettative tradite. Ti amo e basta, sempre e comunque. Come in fondo fai tu anche quando proprio stenti a capirmi. Non sarà sempre facile come oggi, non mi illudo. Verranno giorni in cui le tue scelte, i tuoi gusti, le tue frequentazioni mi sembreranno davvero incomprensibili. Discutibili. Forse censurabili. Giorni in cui mi dirò che non ti conosco affatto e dovrò resistere all’assalto subdolo della delusione immotivata. Verranno giorni così, eppure passeranno, te lo prometto.

Perché io ti amerò, puoi starne certa, anche quando farai di tutto per “non essere come tua madre”. Senza condizioni, senza esitazioni, senza ombre. Come forse nessun altro al mondo potrà mai amarti in vita tua.

27 Marzo 2019 0 Commenti
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Santa pazienza

by Silvana Santo - Una mamma green 14 Marzo 2019

Vivere con dei bambini piccoli è una esperienza di quotidiana frenesia. Cominci a correre nel sonno, o almeno a me capita spesso: i sogni si inseguono e ti inseguono, mescolano i ricordi nuovi con quelli del passato, rotolano l’uno dopo l’altro come sassi sospinti e trascinati dalla risacca dopo una mareggiata. Ti alzi dal letto e sei già in ritardo. Sulle cose che dovresti fare, su quelle che avresti dovuto concludere il giorno precedente, sul vortice di sogni che hai dovuto interrompere, comprimere, spezzare a metà. Sei in ritardo, soprattutto, sulle cose che vorresti per te, e sai che difficilmente riuscirai a prenderti, a meno di correre ancora più a precipizio, tagliare altro, perdere pezzi.

Da quel momento in poi, sai che la frenesia ti accompagnerà fino a sera, senza interruzione. Che spesso farai più di una cosa contemporaneamente, che soprattutto ti ritroverai a pensarne cento all’unisono, e dovrai importi un minimo di calma, di logica, di lucidità. Per non farti sopraffare. Eppure dovrai trovare, in mezzo al turbine degli impegni quotidiani, delle normali incombenze, delle scadenze che non puoi procrastinare, una dose di pazienza che mai, prima di diventare un genitore, avresti pensato di avere.

Santa pazienza. Continuamente. Quando senti chiamare “mamma” (o papà) in tutti i possibili toni esistenti – entusiasta, terrorizzato, struggente, perentorio, tronfio, lamentoso, colpevole, rabbioso, spaventato – cinquanta, cento, settecento volte al giorno. Quando sai che è giusto che tuo figlio faccia da solo, ma l’orologio corre e tu devi importi uno sforzo immane per non strappargli di mano la felpa, le scarpe, il grembiule, il cucchiaio e sostituirti a lui, guadagnando tempo. Quando lui vuole leggere ogni insegna lungo il vostro cammino, quando vuole procedere saltando su un piede solo, quando desidera raccontarti un sogno, una storia, un aneddoto. E impiega lunghi minuti alla ricerca delle parole, si corregge, ricomincia. E tu senti la fretta e la frenesia che ti divorano dall’interno. Santa pazienza per la vescica che raggiunge il troppo pieno sempre quando è già terribilmente tardi, quando la sete brucia puntuale nell’attimo esatto in cui avete finito di allacciare cinture, fissare seggiolini, chiudere sportelli e il motore finalmente scalpita. Santa pazienza quando stai chiudendo un lavoro che avresti dovuto consegnare due ore prima, ma tuo figlio ti chiama, ti chiede, ti invoca, ti convoca per questioni che una parte di te giudica risibili, ma che in fondo al cuore sai essere importanti, anche quando proprio avresti altre priorità.

Santa pazienza quando muori di sonno, quando fuori fa freddo, quando sei entrato nel tuo letto da troppo poco e dall’altra stanza ti arriva un richiamo che non puoi lasciare inascoltato. Quando non ti senti in forma ma tuo figlio sta peggio di te, o magari scoppia di salute e vuole giocare, fare, essere. In tua compagnia, col tuo supporto e la tua complicità. Santa pazienza quando incasina la casa appena rimessa a posto, quando rompe incolpevolmente qualcosa a cui tenevi. Santa pazienza quando altri gli mancano di rispetto, quando lo prevaricano, quando lo offendono o lo deridono. E tu vorresti applicare la giustizia sommaria del genitore incazzato, ma sai che non servirebbe a niente. Allora aspetti il momento giusto per parlarne, per dargli supporto, per esercitare il suo ruolo educativo nel migliore dei modi che puoi. Santa pazienza quando vorresti sbraitare, minacciare, vomitare rabbia e bile, e in qualche modo ti limiti a sospirare, parlare e ancora parlare.

E, dall’altra parte, santa pazienza nell’aspettarci, sempre e comunque. Nel sopportare i vuoti e le assenze, nel condividerci con una vita che di pazienza, lei, non ne ha poi così tanta. Santa pazienza verso la nostra fretta, verso la nostra distrazione, verso la stanchezza che ci rende lontani, distratti, che ci induce a minimizzare, trascurare, fraintendere. Santa pazienza a perdonare – anzi, a dimenticare – le volte in cui la bile e la rabbia, alla fine, non riusciamo a fare a meno di vomitarla.

Essere genitori, più ancora che essere adulti, è un esercizio sovrumano di pazienza, elargita, inventata, improvvisata. Ma anche pretesa e data a volte per scontata. Pazienza da distillare in mezzo alla frenesia quotidiana, come barche sbattute che riescono, chissà come, a godersi il profumo della salsedine e il tepore del sole.

14 Marzo 2019 7 Commenti
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fare i genitori era più facile
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Perché prima era più facile fare i genitori

by Silvana Santo - Una mamma green 22 Febbraio 2019

Fare i genitori non è mai stato così difficile, perlomeno dal punto di vista psicologico. È un’affermazione forte, che ho già fatto in precedenza e che mi attirerà probabilmente qualche critica, ma è qualcosa di cui sono del tutto convinta. Prima era più facile fare i genitori, e in questo post provo anche a spiegarvi il perché.

Il modello educativo unico

Salvo eccezioni relativamente rare (e che venivano bollate di solito come assai naif), fino a qualche decennio fa il modello educativo era sostanzialmente unico. Opinabile, improvvisato, magari addirittura fallimentare – stando ai livelli apparenti di insoddisfazione, insicurezza e mancanza di empatia dei miei coetanei – ma “semplice” da applicare nella sua fondamentale univocità. Per crescere ed educare un figlio si adottava sostanzialmente il metodo che tutti gli altri, da generazioni, applicavano più o meno pedissequamente, e col quale a propria volta si era stati tirati su. Le voci controcorrente erano quasi inesistenti, non era poi così necessario mettersi in discussione, farsi domande studiare. Prima era più facile fare i genitori: si faceva “come si era sempre fatto”, nell’illusione collettiva che tutto funzionasse per il meglio.

Una salvifica inconsapevolezza

Potrei sbagliarmi, ma tendo a credere che la maggioranza dei nostri genitori non si attribuisse che la decima parte (per essere generosi) delle responsabilità che oggi noi sappiamo di avere in tema di sviluppo emotivo e psicologico dei figli. Esisteva, suppongo, la vaga consapevolezza di non essere infallibili e si avvertiva la responsabilità di poter condizionare in qualche modo la personalità della propria prole, ma di certo non si viveva con la sensazione costante di rappresentare, per i propri bambini, la causa potenziale di carenze o eccessi di autostima, insicurezze, paure, fragilità e magari pure di decenni di psicoterapia futura. E quindi, almeno dal punto di vista psicologico, prima era più facile fare i genitori.

La disattenzione al benessere psicologico

Corollario del punto precedente. Per sentirsi dei “bravi genitori” era sufficiente provvedere con zelo ai bisogni materiali dei propri figli – cibo, igiene personale, salute, vaccinazioni, sport -, assicurarsi che andassero a scuola e che imparassero “la buona educazione”. Si compravano regali e vestiti di buona fattura (e chi aveva i mezzi magari tendeva pure a strafare, da questo punto di vista), si cercava di “farli contenti” il giorno del compleanno e a Natale, ci si assicurava che avessero delle amicizie, e che fossero “buone amicizie”. Ma i bisogni psicologici ed emotivi dei neonati e dei bambini erano, di fatto, profondamente misconosciuti e sottovalutati. L’attenzione a questi aspetti dello sviluppo di un essere umano era mediamente risibile, e di rado un genitore si sentiva conscio di ricoprire un ruolo fondamentale e insostituibile, da questo punto di vista. Dalla nascita di suo figlio fino a ben oltre la sua adolescenza.

I ritmi più sostenibili, il lavoro più stabile

Quando ero piccola io c’era, in media, una disponibilità economica inferiore rispetto a quella su cui possiamo contare adesso. Viaggiare, uscire a cena, andare a teatro erano lussi riservati a pochi privilegiati. Però il mercato del lavoro era molto diverso rispetto a oggi, e a molti genitori veniva risparmiata l’odissea del precariato cronico e della instabilità a vita. Della flessibilità che diventa schiavitù, del “tempo di lavoro liquido” che si trasforma in schiavismo 2.0. Fattori per i quali, secondo me, prima era più facile fare i genitori.

Un progresso più lento

Il progresso tecnologico non è mai stato tanto rapido come negli ultimi vent’anni. Quando ero piccola io esistevano ancora i vinili, che tenevano banco da vari decenni, da allora ho visto esplodere e scomparire almeno 3 supporti per l’ascolto e la condivisione della musica: le musicassette, i cd e gli mp3 (ancora marginalmente usati, in quanto tali). E questo vale in tantissimi altri campi. Si tratta di una grande opportunità, per un genitore, ma anche di una complicazione enorme: i nostri figli cresceranno in un mondo non solo drasticamente diverso da quello in cui siamo cresciuti noi (cosa che era in gran parte vera anche per i nostri genitori), ma lo faranno in una società plastica ed evanescente, in continuo cambiamento. Stare in qualche modo al passo, tentare di non venire del tutto tagliati fuori, è un compito arduo e spesso frustrante.

La perdita dei punti di riferimento

La mia generazione è cresciuta nel crepuscolo di un modello familiare e sociale che stava in piedi almeno da qualche secolo. La monogamia, il matrimonio, le grandi ideologie politiche del secolo scorso, la religione (o l’ateismo), le istanze civili e l’associazionismo. Si trattava di un modello spesso forzato e anacronistico, fondato sul condizionamento collettivo e su molta ipocrisia. Ma era comunque una “cornice” rassicurante, una rete di sicurezza che magari non ti rendeva felice, ma ti impediva per lo meno di chiederti se non fossi per caso infelice. Nel giro di qualche lustro, questo impianto è crollato dalle sue fondamenta, e la mia generazione di genitori si trova oggi a rifondare quasi dal nulla un sistema valoriale condiviso, un concetto comune di etica, di famiglia e di società stessa. Una sfida stimolante, ma anche ciclopica.

Le informazioni più scarse

Il fatto che molte informazioni – in tema di pedagogia, salute, didattica e molto altro – semplicemente non circolassero era per molti versi un grosso limite. Ma sollevava i genitori da una colossale mole di domande, dubbi esistenziali e sensi di colpa.

La pressione sociale inferiore

La gente spettegolava e giudicava anche prima dei social network, questo è sicuro. Ma credo di poter dire che la pressione sociale sui genitori fosse drasticamente inferiore ai livelli attuali. Avere dei figli era considerato “niente di speciale”, una fase come un’altra della vita a cui tutti erano in qualche modo destinati. E a meno di non maltrattare fisicamente i propri figli, difficilmente si veniva bollati come genitori inadeguati. Dagli altri, e di conseguenza da se stessi.

I bambini sono cambiati

Non è cambiata solo la società nel suo complesso: sono cambiati anche i bambini stessi. Più precoci, più stimolati, più socialmente connessi (e quindi anche più esposti, già precocissimamente, al confronto, al condizionamento, al conflitto). Più consapevoli da un lato e forse più fragili dall’altro.

I figli come scelta di vita “automatica”

Anche questo afferisce alla sfera della mancata consapevolezza. Le persone, di solito, arrivavano alla maternità e paternità in maniera automatica, quasi inevitabile. Diventare genitori era un processo fisiologico, più che una scelta vera e propria. E immagino che in molti casi questo potesse rendere più fatalisti, o se non altro meno inclini a interrogarsi sul proprio ruolo e sui propri reali bisogni.

Fare i genitori, prima, magari non era un compito più semplice, ma forse era percepito come tale. Era “vissuto” come tale. Con altrettanta partecipazione emotiva ma con una auto-attribuzione di responsabilità per alcuni versi più contenuta. Cosa ne pensate? Anche voi ritenete che prima fosse più facile fare i genitori, almeno da un certo punto di vista?

22 Febbraio 2019 3 Commenti
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Selvatica

by Silvana Santo - Una mamma green 12 Febbraio 2019

Selvatica.

Scalza tutte le volte che puoi, e tutte quelle in cui non potresti ma io non riesco a impedirtelo. Nuda a sproposito, indifferente al freddo.

A tuo agio coperta di sabbia, di erba, di terra. Inesorabilmente attratta dalle pozzanghere, dalla pioggia, dalle grotte, dagli anfratti inaccessibili.

Furiosa. Capace di una rabbia senza ritegno, che manifesti con l’incontenibilità dei gesti, più che con argomentazioni verbali.

Famelica in momenti sempre diversi, imprevedibili, spesso improbabili, fin da quando il mio latte era il tuo unico sostentamento: asservita ai tuoi istinti primordiali, alla pancia più che alla testa, alla pelle più che al pensiero.

Urlatrice. Con quanto fiato hai in corpo. Senza alcun controllo, senza pudore, senza vergogna. Urlatrice con urgenza di urlare. Con tutto il fiato che ha in corpo.

Lunatica. Di umore ballerino e cangiante, come le ali delle farfalle che tanto ti piacciono. Eppure irremovibile nei tuoi punti fermi. Ostinata e instancabile nel far valere le tue istanze.

Irragionevole. E incapace di mezze misure. Stoica o preda del panico, spietata o sensibile, dolcissima o crudele.

Quando eri piccolissima mi parevi una neonata meditativa, adesso so che eri e sei selvatica.

Indomabile, mi verrebbe quasi da dire. Di certo incontenibile.

Tanto che io ogni tanto mi chiedo fino a che punto sia giusto addomesticarti. Sei selvatica. E spero che una parte di te, da qualche parte, lo resti per sempre.

12 Febbraio 2019 1 Commenti
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Mai abbastanza

by Silvana Santo - Una mamma green 6 Febbraio 2019

Mi capita, ogni tanto, di sentirmi così, di sentire che non sono mai abbastanza. Che non è abbastanza ciò che faccio, non è abbastanza quello che do, anche se a tratti è molto più di quanto pensavo di avere. Di sentire che io, in fondo, non sono mai abbastanza.

Non guadagno mai abbastanza, non lavoro mai abbastanza, non produco mai abbastanza. Non è abbastanza quello che sono riuscita a raggiungere finora, nonostante le premesse che c’erano, il potenziale che avevo, gli strumenti con cui sono nata e quelli che mi sono stati dati negli anni. La lavoratrice, la professionista che sono, non è mai abbastanza, e mai probabilmente lo sarà.

Mai abbastanza come moglie. Mai abbastanza per un marito che ce la mette tutta ma che a sua volta sente di non essere mai abbastanza per me. E che in fondo, forse, ha ragione a sentirsi come io lo faccio sentire. Sono una moglie mai abbastanza empatica, mai abbastanza presente, mai abbastanza complice, mai abbastanza positiva e soddisfatta.

Mai abbastanza come figlia. Sempre in fuga, sempre chiusa, sempre dura. Sempre arroccata dentro i muri che mi salvano dalle mie stesse insicurezze. Dalla sensazione di non essere, in fondo, mai abbastanza.

Mai abbastanza come madre, manco a dirlo. Mai abbastanza paziente, mai abbastanza lucida, mai abbastanza capace di amare senza condizioni, senza pretese, senza distinguo. Anche quando sento che ho preso la mia vita e l’ho consegnata alla madre che un giorno sono diventata, anche quando mi sembra che sto dando più del mio più, più del mio meglio, più del tutto ciò che sono ciò che ho dentro (evidentemente la risposta è che non sono mai abbastanza).

Mai abbastanza come donna, come persona, come individuo. Arresa alla stanchezza, alla solitudine, all’incomunicabilità. Mai abbastanza come cittadina, paralizzata dall’impotenza e dallo sgomento per l’odio che dilaga, per il delirio nazionalista, per la liturgia dell’arroganza e della forza bruta celebrata ogni giorno sui social e non solo. Mai abbastanza come amica, troppo impegnata a stare a galla per riuscire a dare qualcosa anche agli altri. Per sentirmi appena brillante, socievole, di compagnia. Per ritenere raggiunto il minimo sindacale di “atteggiamento positivo”, che sembra una formula magica indispensabile per sentirsi accettabili. Mai abbastanza come cugina, come nipote, come nuora, come collega e vicina di casa. Mai abbastanza finanche come proprietaria di un gatto, che è troppo grasso, troppo pigro e troppo annoiato per colpa di quello che io non faccio per lui.

Non so da dove arriva questa mia incapacità di guardarmi e dirmi che va bene così. Che sono brava, tutto sommato, e non per quello che riesco a fare, a dare, a ottenere in cambio. Ma perché ogni cosa che faccio la penso prima almeno cento volte, e quando la sbaglio è perché non avrei saputo fare diversamente, e dopo in ogni caso sono disposta a chiedere scusa, e a cercare un rimedio. Non so da dove arriva, ma è la mia compagna più fedele da tanti di quegli anni che neanche me li ricordo più. Una compagna che mi guarda fisso e poi mi dice piano, tranquilla: “Mi dispiace, ma non sei mai abbastanza”.

6 Febbraio 2019 6 Commenti
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essere madre

Dieci cose (più una) che cambiano quando hai dei figli

by Silvana Santo - Una mamma green 4 Febbraio 2019

Il metabolismo, il punto vita, l’elasticità della pelle e quella delle – ehm – parti basse. Certo. Ma queste non sono le uniche cose che cambiano drasticamente dopo che hai avuto dei figli (e forse non sono nemmeno le più eclatanti). Io ne ho contate altre dieci più una, ma sono certa che l’elenco potrebbe continuare all’infinito.

1. Il divano

Un tempo era un comodo e agognato elemento d’arredo. Teatro di lunghe sessioni di cinema casalingo, di pasti d’asporto consumati in libertà, di pennichelle finesettimanali fuori programma e di incontenibili accessi di passione. Adesso è un buco nero che fagocita telecomandi, cellulari, calzini spaiati, mattoncini lego, scarpe di Barbie, pastelli a cera, pezzi di pongo fossilizzato, sorpresine dell’ovetto Kinder, residui semisolidi dell’ovetto Kinder, palloncini scoppiati, batterie esauste e chiavi della macchina. Oltre che una macchina che produce briciole a ciclo continuo.

2. La vita sociale

Un tempo consisteva in uscite al pub, cene a casa di amici, incontri in pizzeria, qualche festa e qualche aperitivo al volo. Ora è quasi completamente fagocitata da compleanni in ludoteca, recite scolastiche, saggi, spettacoli, laboratori di lettura/riciclo creativo/teatro/decoupage/collage/maquillage/dressage, merende di gruppo, ritrovi di famiglie in ristoranti baby-friendly. Perché i bambini contemporanei hanno un’agenda che al confronto il Papa è un tizio che stringe pochissime mani.

3. Le canzoni

Prima dei figli erano una delle espressioni più autentiche dei tuoi gusti e della tua personalità. Un canale per sublimare le tue emozioni più viscerali, il mezzo più efficace per empatizzare col mondo. Adesso? “Una vita in vacanza, una vecchia che balla…”.

4. L’automobile

Un tempo era, banalmente, un mezzo di trasporto. Adesso è un incrocio tra una discarica e un salone parrocchiale al termine di una festa di Capodanno.

5. La doccia

Prima dei figli rappresentava un gesto di igiene personale quotidiano e ordinario, o, al massimo, un momento di privato relax e di cura della persona. Adesso è una performance degna del tizio altoatesino che batteva i Guinnes a “Scommettiamo Che?”: in quindici secondi riesci a farti anche lo scrub dei talloni, la depilazione delle ascelle e l’applicazione dell’olio di mandorle sulle chiappe (poi magari finisce che ti depili le chiappe e di scartavetri le ascelle, ma sono dettagli). Il tutto alla presenza di pubblico tifante, naturalmente.

6. La colazione

Un pasto frugale o complesso, dolce o salato, sbrigativo o rilassato. La ripartenza della giornata, possibilmente in religioso silenzio. Ma questo era prima. Adesso? Uno tsunami, l’esplosione di una supernova, il Big Bang, Capodanno a Forcella: un casino indicibile in cui tutti corrono in direzioni a caso, tutti urlano cose a caso, tutti masticano cose a caso, tutti sanno di essere a prescindere in ritardo.

7. Il lunedì

Prima dei figli era il faticoso inizio di una settimana lavorativa, lento e deprimente. Ora è il giorno in cui riconsegni la prole alla scuola con malcelato sollievo.

8. Lo shopping

Un tempo poteva essere un vero e proprio passatempo, una forma di dipendenza o una mera necessità di natura pratica. Dopo i figli diventa semplicemente una esperienza infernale, una roba che ti fa rivalutare all’improvviso i dolori del travaglio.

9. I tuoi genitori

Che dopo i figli smettono di essere tali e diventano “i nonni di tuo figlio”. Ovvero la rivoluzione copernicana dei metodi educativi, l’inversione completa delle priorità. E la tua autostima messa alla prova ben più di quella dei concorrenti di MasterChef al cospetto di Barbieri e Cannavvacciuolo.

10. Le pulizie di casa

Prima dei figli, una rottura di scatole che ti consentiva di godere di un ambiente ordinato, pulito e accogliente. Un sacrificio sensato, un male necessario. Dopo i figli? Il più colossale degli investimenti a perdere, un supplizio reddoppiato e inutile, i cui benefici possono godere, nella migliore delle ipotesi, di un’aspettativa di vita di 18 secondi. Ovvero il tempo che, se va proprio bene, servirà ai tuoi figli per trasformare nuovamente la vostra abitazione in una via di mezzo tra una puntata di “Sepolti in casa” e una pagina particolarmente intensa de “La Città della Gioia”.

11. L’ansia

Che prima era solo ansia. Ora è tua sorella. Gemella. Siamese. Non operabile.

4 Febbraio 2019 4 Commenti
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Mi chiamo Silvana Santo e sono una giornalista, blogger e autrice, oltre che la mamma di Davide e Flavia.

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